Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2008

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

NON E' STATO INVANO

 

di Laura Vicenzi

Bassano del Grappa (Vi)

Non è stato invano. Ce lo ripetiamo ogni volta, solo con gli occhi, in silenzio, ad ogni adunata, e non basta mai.

Per raccontare la nostra guerra alle persone, ai tanti che non ricordano che ciò è stato, a noi che abbiamo congelata nella memoria quell’era di dolore bastano due frasi: una volta la chiamavamo Patria, oggi si dice Nazione.

E’ un pensiero che mi girovaga sempre nella mente, un lupo nero perduto in una bufera, incapace di trovare un sentiero di parole che lo conduca al riparo, nella sua tana. Succede ogni volta, mentre sfiliamo in silenzio, sette a sette, per i viali di città diverse, in un rito sempre uguale. Ogni anno diventa sempre più faticoso partecipare all’appuntamento, ma finché ce la farò fisicamente, pergiuda ci sarò! Da tempo c’è in palio una scommessa, semplice ma forte, come la nostra grappa. Il premio è in ballo tra me e Gigio, detto "Strasse", come stracci, non nell’altra maniera. Siamo due reduci, soldati tornati vivi dalla Russia, bocconi sfuggiti all’orso bianco. A nessuno dei due è mai piaciuto perdere. Ci siamo sempre assomigliati, fin da piccoli, io e Gigio, tenaci e duri come muli, un’intesa fraterna forgiata ai tempi delle biglie di creta. Gigio nel ’43 mi ha salvato la vita, altrimenti non sarei qui.

Alle adunate c’è sempre molto colore. Ci si organizza con tende, damigiane e paioli per la polenta, ma sono solo il verde, il bianco e il rosso le tinte che sventolano alle finestre, sui pennoni, nei nostri cuori.

A noi "veci" che ci guardiamo intorno un po’stanchi, mettono allegria i giovani uomini che fanno baldoria, che si ritrovano assieme qualche anno dopo la leva, cresciuti, sposati, spesso un po’ sovrappeso. Si godono questa breve vacanza dal lavoro, dagli impegni, dalle mogli che ricordano poco le donne da cui correvano come pazzi appena firmata la licenza, e festeggiano insieme qualche attimo di libertà ritrovata, ritornando ragazzini. Ma la commozione sale agli occhi di tutti ogni volta uguale, quando ci accorgiamo che la gente alle adunate ci aspetta ansiosa, che attende proprio noi: vuole vedere sfilare i vecchi alpini, quelli con la barba bianca e gli occhi buoni velati da ragnatele, soldati seguiti da un corteo d’ombre. La folla accompagna con gli occhi la nostra marcia cadenzata da nomi incisi portati dal vento, rosari letti a basse frequenze, e nella confusione festosa, ci rende il grande omaggio del silenzio.

Chi ha visto la guerra, ogni guerra, chi davvero c’era, ha una luce diversa negli occhi, guardando da vicino si può indovinare negli sguardi dei soldati lo stesso lupo nero che tutti ben conosciamo.

Gigio ed io, poco dopo aver abbandonato le piste delle biglie, siamo finiti a far parte di una Divisione stipata su una tradotta per la Russia. Al nostro arrivo non si sapeva dove, ci è stato detto che il resto del viaggio sarebbe proseguito a piedi, fino al Fronte.

Soldatini tutti uguali, stretti in paltoncini grigioverdi dai quali spuntavano gambe sottili in bilico su scarponi chiodati, tutti insieme macinavamo chilometri e pensieri, per molti meno faticosi i primi dei secondi. L’incontro col nemico era ancora lontano, quello con il mostro della guerra è avvenuto invece quasi subito: volti scheletrici di bimbi, isbe sventrate, carri armati che schiacciavano innocenti spighe di grano, urla appese nel vento.

L’incontro coi nostri connazionali arrivati l’anno prima ci ha parlato subito di un altro spettro in agguato: il freddo. Con gli occhi spiritati di chi è sceso all’inferno, biglie di vetro incastonate in volti noti divenuti in pochi mesi irriconoscibili, ci hanno narrato incredibili favole nere, racconti di terrore e di morte che avevano tutti la stessa morale: dal nemico ci si può difendere se si ha un fucile, dall’inverno russo no.

Il freddo si è presentato con una gelida stretta di mano d’improvviso, in un mattino terso e chiaro, soffiato dal vento della Siberia. E noi non eravamo pronti.

Nessuno è mai pronto alla guerra. Ci si arma e si parte, sperando che non sia un sacrificio vano. Anche per noi è stato così, ma niente può preparare davvero all’incontro con la maschera iniqua, assurda, scellerata e infame dell’odio.

I suoi volti cangianti non emergevano dalle nebbie impenetrabili del Don con le facce dei soldati russi: no, non era questo l’orrore vero che si doveva affrontare. Il nemico insopportabile era la partita a carte quotidiana con la morte, una giocatrice sleale che metteva sul piatto di volta in volta sempre lo stesso asso di picche travestito da tarocchi malvagi. Abbassavi inorridito lo sguardo sul disegno e vedevi specchiate nelle carte le immagini di bambini e donne trucidati, di uomini diventati lupi siberiani che sbranano a morsi, di nere, bestiali, ombre vorticose, che si avvicinano a finestre non più accese. E poi si calava la mano dell’iniquo, quella destinata solo a far perdere tutti, quella più difficile da accettare. Sul tavolo rimaneva solo un esercito di morti senza senso, di sacrifici umani inutili che nessuna croce può mai giustificare.

A noi, a me e a Gigio, è andata meglio che a tanti altri, noi siamo tornati. Ma nessuno, neanche molti anni dopo, ti leva più dalla mente le sensazioni del corpo freddo, della fame, dell’orrore.

Non sono più riuscito ad amare le montagne dopo avere trascorso tante notti di tormento negli accampamenti improvvisati tra la neve ghiacciata. Per non morire strappavo alla natura, anche lei ferita, bacche e germogli, sottraendo cibo agli animali. Li prendevo con le dita livide per i geloni e li masticavo lentamente, poi bevevo l’acqua succhiata dai ghiaccioli. Per tanto tempo, durante la ritirata, il mio unico pasto è stato questo.

E il sonno, il sonno era diventato uno stato di grazia sconosciuto, un dono che non arrivava mai. La bellezza disarmante delle stelle, tutte le notti, ci circondava con un abbraccio pietoso, lo faceva con tutti noi uomini armati perduti quaggiù. Non si riusciva a dormire se non per qualche minuto, tra sogni inquieti e veglie da cimitero, scossi dalle urla di spettri veri. E’durato a lungo, anche dopo, una volta tornati a casa.

Gigio qualche anno fa ha voluto fare ritorno in Russia, un viaggio nel tempo per rivedere, per ricordare.

Non ho voluto accompagnarlo nel suo pellegrinaggio. Custodisco quel calvario dentro di me.

Le adunate sono un’altra cosa. Suonano come le campane la domenica, squilli festosi che disperdono la loro chiamata tra i boschi, per le strade, nelle case più lontane.

Le sfilate durano molte ore. Ogni tanto avanzando, lancio uno sguardo di taglio a Gigio che marcia lento ma deciso, tre alpini più in là. E’ invecchiato in un anno, come me del resto.

Era così magro quando siamo tornati. In Russia, quando il battaglione si è disperso, per qualche tempo abbiamo trovato da mangiare solo patate crude e bacche. Io ero allo stremo e lui, debole, ma ancora in grado di camminare, ha improvvisamente fatto rotta verso un’isba che pareva abitata. Non ho mai dimenticato il suo gesto. Vedevo avanzare il mio amico, un folletto sghembo tra la neve e il fango, e pensavo che stava andando a chiedere aiuto per me senza curarsi del fatto che poteva esserci la morte ad attenderlo lì dentro: sapevamo tutti e due che l’incontro con una fucilata non sarebbe stato certo il peggiore dei mali.

Il fumo stagnante, grigio, che usciva dal camino, circondava la povera abitazione celando in parte, pietosamente, le sue ferite di guerra. Gigio mi ha raccontato, più tardi, che il vecchio l’aveva guardato in silenzio, senza muoversi dal seggiolino. Stava mungendo una vecchia mucca. Lei lo lasciava fare tranquilla, buona. Gigio si è avvicinato con le lacrime agli occhi ed ha carezzato dolcemente il ventre dell’animale. Il vecchio gli ha fatto cenno di continuare lui la mungitura. La mucca l’ha lasciato prendere il suo latte, generosa. Quel liquido caldo e dolce aveva il sapore più buono del mondo. Il vecchio contadino russo ci ha lasciato rimanere per qualche giorno, fin che mi sono rimesso, e poi abbiamo ripreso il cammino.

Se ricordo ad occhi chiusi, rammento che intorno a noi c’era ovunque un odore acre d’incendio, di carne bruciata. I cadaveri possono non fare più effetto, è possibile, abbiamo dovuto imparare che bastava non fermarsi a guardare i volti, per permettere così alla mente di non vacillare.

Tutti questi tricolori appesi ai balconi mi ricordano il giorno della Liberazione, i momenti di gioia a guerra finita. E’ una sensazione di felicità che torna sempre uguale, che si rinnova con la stessa intensità, sulla pelle, nelle viscere.

Gli applausi fanno bene al cuore, ti fanno sentire sostenuto, ringraziato, amato. In realtà non è sempre così. Negli animi martoriati dalla guerra si possono trovare la diffidenza, lo scoramento, il ricordo buio di un tradimento. Ma qui, tra la folla delle adunate, c’è ogni volta un momento, un abbraccio sacro, che ripaga di tutti i sacrifici. Nelle vene torna a sgorgare la limpida certezza di avere fatto il proprio dovere. E’ questa la sensazione buona che si cerca. Quella che tutti noi cerchiamo.

Gigio avrà di sicuro il viso rigato dalle lacrime. Lui dirà come al solito che arrossamento e gonfiore sono dovuti al troppo vino bevuto la sera prima. Un vecchio signore che ha pudore delle sue lacrime non può non commuovere, perciò evito accuratamente di guardarlo. Lui lo sa che per me è così e fissa gli scarponi, come facevamo durante le marce, a testa bassa. E’ un vero amico.

Comincia a piovere. Una pioggia fredda, da montagna, che bagna subito e che cresce a scrosci. Gigio sarà contento. Io un po’ meno. Il campo base dove c’è la nostra tenda si allagherà subito e i miei reumatismi si fanno sentire. Si va avanti. Gli alpini non si arrendono mai di fronte alle difficoltà. Me ne ricordo bene. Anche se in apparenza sono un anziano pensionato che vive solo e che passa la stagione estiva in un appartamentino al mare, in laguna, dilettandosi con pesca, cucina e lettura, io sono e resto un alpino.

Gigio nella sua seconda identità appare come un vecchio che vive in un ospizio, nella struttura dedicata ai residenziali. Poca gente lo va a trovare e lui si lamenta sempre nelle sue lettere di soffrire di solitudine. Nell’ultimo scritto però, vergato con ricci insolitamente nervosi, credo non dovuti all’artrite, mi ha parlato di una nuova signora ospite del pensionato. Con lei si trovano a pranzo, a cena e giocano a carte. Deve essere una donna paziente, con me ha sempre voluto vincere lui.

Adesso è proprio acqua ghiacciata. Sembra di essere tornati nella tormenta. E’ un bel pezzo che non mi arrendo ad un acquazzone.

Il corteo si è fermato. Un bambino seduto a cavalcioni sulle spalle del padre, da dietro le transenne mi copre con l’ombrello. Ci sorridiamo in silenzio a sei occhi, come una famiglia.

Più tardi quando rompiamo le righe con Gigio ci incamminiamo lenti all’accampamento.

Escono spiragli di sole dal livido che accerchia tutt’intorno, l’erba nuova dei prati brilla di un verde lucido, accecante, e il profumo dei boschi arriva dalle montagne vicine intenso, vitale.

Tutti cominciano ad organizzarsi per i saluti, per le partenze. Riecheggiano nell’aria tersa tanti arrivederci.

Gigio ed io, ci togliamo il cappello verde e con l’animo leggero rinnoviamo la nostra scommessa: ci saremo l’anno prossimo, chi perde, paga il pegno. A nessuno dei due è mai piaciuto perdere.