Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2008 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
IL DONO DEL MAESTRO CARLO
di Pieraugusto De Pin Arcade (Tv) |
La penna sul cappello volteggiava fendendo l'aria, mentre Carlo, con tocchi ritmati scandiva il tempo di "Signore delle cime" durante la consacrazione. Erano giorni che li stava preparando quei bischeri di quarta e quinta elementare, a cantare le canzoni degli alpini durante la Messa al campo, in ricordo dei caduti della Julia. E ora, per nulla intimoriti, i piccoli montanari lo fissavano, con gli occhi sgranati, come ipnotizzati, seguendo l'ondeggiare delle sue mani che andavano disegnando la melodia. Si commoveva ogni volta quando sentiva le loro voci angeliche – ché di angelico avevano soltanto la voce quei bischeri - prendere le note più alte di "...Santa Maria, signora della neve, copri col bianco tuo soffice mantello..."Carlo era fatto così, faceva il maestro per vocazione, col cuore, da buon toscano della Lucchesia, amante delle rime e del bel canto; e i ragazzini gli volevano un bene dell'anima, perchè il suo piglio severo si scioglieva prima o poi in un sorriso bonario e paterno. In quel paesino di montagna, abbarbicato su un cocuzzolo, a metà della val Zoldana, la vita della gente era scandita dall'alternanza delle stagioni, dalle pratiche religiose, dalla festa patronale e da poco altro. Si vedevano in giro solo vecchi, donne e bambini, dato che gli uomini erano all'estero a lavorare. Carlo ci era finito per punizione in quel posto dimenticato , nel 1949, mandato dal Provveditore perchè calmasse i bollenti spiriti dell'idealismo politico e perchè si facesse passare la smania di voler cambiare la scuola italiana in quattro e quattr'otto. Ma il suo indomito spirito toscano aveva avuto la meglio. "Gli fo' vedere io a quella testa di legno del Provveditore quanto è cocciuto un alpino" – si ripeteva tra sè, ogni qualvolta gli guizzava in testa una nuova trovata da organizzare a scuola, per dare un po' di cultura a quei poveri figli di emigranti zoldani. "Maestro, come hai fatto a strappare all'aquila quella bella penna che porti sul cappello?" - gli chiese a bruciapelo Giannino, il più monello della quarta classe, per farlo andar su di giri: - "Se tu ora non stai più che bono, ti fo' vedere io come si fa a toglierti un orecchio senza che te ne accorga!"- lo zittì il maestro mimando il gesto appena minacciato. Giannino aveva perso il padre in guerra, durante la ritirata di Russia. Era figlio unico di madre vedova e gli si struggeva il cuore nel petto ogni volta che sentiva gli altri bimbi chiamare papà. Ecco perchè si era tanto affezionato a maestro Carlo. Il maestro, dal canto suo, conosceva bene il vuoto del suo cuore e cercava di tenerselo più vicino degli altri per dargli quell'affetto sincero e paterno che gli abbisognava. "Maestro, ho fatto un sogno stanotte – gli confidò un giorno Giannino – ho sognato che mio papà era tornato a casa e mi aveva preso in braccio, dicendomi che sarebbe sempre stato con me. Ma poi mi sono svegliato e non l'ho più visto!" "Giannino caro – gli rispose con dolcezza maestro Carlo – anche se non puoi vederlo tuo padre è sempre con te, ti accompagna per mano di giorno e ti veglia di notte; e qualche volta "ti si fa vedere", in sogno, per consolarti. Non avere paura, un giorno vi rincontrerete...". Appena terminata la funzione, i bimbi presero a recitare le poesie sugli alpini, la gente applaudiva e il Parroco si complimentò col maestro per la riuscita della manifestazione. "Sor pievano - gli rispose lui di rimando – io ci provo gusto a farli cantare sti bischeri, così gli passano i brutti pensieri e elevano lo spirito, che l'è proprio a terra". La scuola di Maestro Carlo, insegnante unico in quel piccolo borgo sperduto ai piedi del maestoso Pelmo, era costituita di tre piccole stanze, arredate ciascuna con banchi di legno consunti dagli anni, una cattedra sgangherata, una stufa di terracotta rossa, qualche carta geografica alle pareti. Bastava lui a darle un tono, con la sua voce stentorea che occupava lo spazio e lo faceva vivere. Era lui che si occupava di tenerla in ordine la scuola, compreso il lavoro di ritinteggiatura con la calce viva, ogni due o tre anni, quando i muri erano anneriti dal fumo della stufa. Non c'era bisogno del bidello in quel posto di montagna, non ce lo si poteva permettere. Un solo maestro bastava per tutti e per tutto. Gli allievi di Maestro Carlo erano di età diverse: sei di prima elementare, cinque di seconda, otto di terza, sei di quarta e sei di quinta. Totale 31, 14 maschi e 17 femmine in quell'anno scolastico 1951-'52. Era costretto a fare due turni di lezione nel corso della giornata: uno la mattina, dalle 8.00 a mezzogiorno, un altro il pomeriggio, dalle due alle sei. Era il turno di quelli di quarta e quinta, un po' più grandicelli, che nei pomeriggi invernali rincasavano quando era già buio pesto. Ma si facevano compagnia per scacciar la paura; e, soprattutto non c'erano insidie per loro tra i viottoli del paesino: non automobili, non distrazioni lungo il cammino, non malintenzionati. Soltanto qualche gatto che faceva le fusa e, a volte, il vento freddo che percorreva la valle imbiancata di neve e cominciava a ghiacciare la strada e a farla diventare una lastra luccicante, su cui i bambini si divertivano a scivolare con gli zoccoli chiodati o sulle loro rudimentali slitte di legno. Nelle giornate di Maestro Carlo non c'era tempo per annoiarsi o pensare alla famiglia che aveva lasciata in pianura e che rivedeva soltanto durante le vacanze invernali ed estive. Aveva anche lui due figli in età di scuola: Anna e Francesco che lo osservavano costantemente dalla foto posta a lato della cattedra, tenuti per mano da mamma Ada, una bella signora sulla quarantina. "Che bei bambini che hai! Quando ci fai conoscere la tua famiglia, Maestro? - continuava a chiedergli Annalisa, una bambina di terza che si fermava spesso a contemplare la foto incorniciata d'argento – Anch'io ho la foto del mio papà sul comodino sai? E prima di addormentarmi gli parlo e gli dò un bacino. Chissà che torni presto, altrimenti la mia mamma piange sempre". " O Annalisa – gli rispondeva il maestro – noi, le persone cui vogliamo bene le si porta nel cuore. E loro lo sentono sai! E se tu gli mandi un bacio loro lo ricevono. E poi, tra poco è Natale, e il tu' babbo ritorna a casa. Stai contenta!". D'inverno le lezioni si tenevano giocoforza fra le mura della scuola appena appena riscaldata dalla stufa di coccio che, a turno, i bambini alimentavano con robusti pezzi di legna d'abete da loro stessi portati da casa. Maestro Carlo entrava alle otto in punto e illustrava il programma della giornata: "oggi è previsto l'alfabeto per la prima, le addizioni e sottrazioni per la seconda, il dettato per la terza... Mentre faccio il dettato a quelli di terza, quelli di quarta e quinta, che oggi ho invitato apposta la mattina, aiutino quelli di prima a leggere, scrivere le lettere dell'alfabeto e sillabare". Carlo teneva quei bambini come suoi figli, conosceva tutte le loro famiglie e le situazioni precarie di quella gente di montagna. Ed era ricambiato. I bambini con lui erano in buone mani perchè li sapeva educare e istruire con passione e con fermezza, come un padre, che a tanti di loro era momentaneamente tolto, a causa del lavoro lontano. "Andrea, scrivi cento volte NON DEVO DARE PUGNI AI MIEI COMPAGNI, e sbrigati, altrimenti rimani qua fino a stasera". "Ma maestro, Albino mi ha rovesciato l'astuccio per terra..." "E io che ci sto a fare allora? Se c'è qualcosa che non va, tu lo devi dire a me... Ci penso io a mettere a posto le cose. Quante volte ti ho detto che non si mettono le mani addosso alle persone? eh? Scrivi cento volte e non fiatare!" Era severo al punto giusto, ma sapeva anche gratificare. E quando iniziava la primavera e le strade erano sgombre dalla neve, la gente lo vedeva passare con tutti i suoi ragazzi diretto ai pascoli alti, ai piedi del Pelmo. Cominciava il periodo della scuola all'aperto, su e giù per i sentieri, ad osservare la natura da vicino, ad incontrare scoiattoli e caprioli, a salutare le mucche che brucavano tranquille al limitare dei boschi. "Bambini, oggi impariamo a riconoscere i funghi buoni da quelli velenosi. Giannino, tu mi fai da segretario e prendi appunti. Poi, a casa, farete il tema". Quando il tempo era sicuro, Carlo in testa e i suoi scolari dietro di lui in fila per due percorrevano la mulattiera che dalla fine del paese conduceva ai pascoli alti, su su fino ai quasi 2000 metri del Rifugio Venezia, sul quale incombeva il Caregon del Padre Eterno. "Ce l'abbiamo fatta ragazzi, siete stati bravi anche stavolta ad arrivare fin qui. Siete forti come gli alpini che da queste parti hanno combattuto gli austriaci, nell'altra guerra. Nino, Andrea, Silvio, vi darò tre voti in più perchè avete aiutato i più piccolini... Ora sediamoci, apriamo gli zaini e facciamo merenda". Quando andava in escursione con i suoi scolari, Carlo indossava sempre il suo cappello alpino con i gradi dorati da sergente, con la nappina dell'ottavo Reggimento, assieme agli immancabili pantaloni alla zuava. Ai piedi i suoi vecchi scarponi della naja, con le suole consunte ma sempre ingrassati a dovere. - Maestro, chi sono gli alpini? - chiese un giorno Teresa, la più piccolina della scuola, con due occhi grandi e luminosi - "Sono i soldati dalla lunga penna che difendono le nostre montagne, i nostri confini dagli invasori – rispose Carlo – ma sono soprattutto gli amici della montagna, i nostri amici, quelli che ci insegnano a rispettarla e a farla rispettare. Loro l'hanno difesa a rischio della vita codesta montagna, nel freddo e nel gelo. La vita trascorse serena nel paesino della valzoldana, fino a un venerdì che tutti ancora oggi ricordano. Giannino non era a scuola quel giorno, aveva accompagnato lo zio nel bosco a tagliar legna. Maestro Carlo stava seduto in cattedra, spiegando la storia di Romolo e Remo fondatori di Roma a quelli di seconda quando si sentirono dalla strada urla strazianti di donna che fendevano l'aria della valle. Carlo si fece sull'uscio della scuola e vide la madre di Giannino in lacrime, con le mani nei capelli. "Maee..stro, maestroo... aiuto, mi aiuti per l'amor del cielo, Giannino si è fatto male...è finito sotto un albero, nel bosco. Lei che ha la macchina, lo porti all'ospedale altrimenti muore". Carlo si precipitò da Giannino che giaceva in casa in stato di semincoscienza. Lo caricò sulla macchina, tutto sporco di sangue e rantolante com'era e sfrecciò verso Belluno a tutta velocità, correndo come un pazzo, tagliando le curve con il pollice affondato nel clacson e un fazzoletto bianco appeso al finestrino. I medici intervennero subito su quel corpicino martoriato, ma occorreva molto sangue del gruppo zero negativo. Carlo, si precipitò verso la sala operatoria urlando: - "Ce l'ho io il sangue che va bene per Giannino, non può essere un caso, glielo dò io il sangue al bambino!". E rimase a lungo sdraiato su una barella, accanto al letto operatorio su cui Giannino lottava contro la morte. Udiva le brevi parole scandite dal chirurgo: "bisturi...sutura...aspiratore". Vedeva il proprio sangue, lungo il catetere, scorrere da braccio a braccio e supplicava dentro di sè, come recitando un rosario di pensieri ed emozioni: "Deve salvarsi!... Deve salvarsi!... Sua madre ne morirebbe...ha lui solo a questo mondo...è soltanto un bambino...potrebbe essere il mio Francesco... Dai!... Forza!... Forza!... Giannino, non mollare...Tuo padre veglia su di te". Ben presto i pensieri si accavallarono sempre più nella sua mente, le forze gli vennero meno. Sentì tutto più lontano: suoni, parole, tutto ovattato...finché perse conoscenza. Carlo si risvegliò dopo un lasso di tempo che non sapeva quantificare. Era in un letto dell'ospedale in cui aveva portato Giannino in lotta con la morte. Vedeva al suo capezzale una donna. Quando la vista andò a fuoco e scorse i lineamenti della madre di Giannino. "Maestro, Giannino è vivo...grazie al suo "dono"; vive con il suo sangue e se la caverà...Grazie!" Giannino tornò a casa dall'ospedale dopo quindici giorni e di lì a qualche mese poté tornare a scuola e ai giochi, anche se il suo stomaco era stato accorciato dall'operazione e le ossa del bacino erano più fragili per i traumi subiti. Al suo ritorno in classe fu accolto come l'eroe dei due mondi, tra applausi e abbracci di gioia. Maestro Carlo continuava a sfotterlo quando non sapeva le tabelline: "ho cercato in tutti i modi di farti entrare in testa codesti numeretti, bischero, te l'ho trasmessi perfino per via endovenosa. E ancora ti ostini a dimenticarli! – Per domani mi porti queste moltiplicazioni! |