Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco XIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2008 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
Rosa d'Argento"Manilla Bosi: sposa, madre e sorella di Alpini" |
SARA di Maricla Di Dio Calascibetta (En) |
Non era per niente facile raggiungere la piattaforma, anche se lei era più lesta e accorta di un lupo. Oddio, le gambe non erano quelle di un tempo. Le mani erano rattrappite dall’artrite, d’accordo, ma riusciva ancora ad inerpicarsi ed avvinghiarsi ad arbusti e tronchi, fino a quando le asperità del monte si aprivano a ventaglio lasciando allo sguardo senza più barriere, l’inaspettato isolotto bianco e sterrato. Liscio e lucido come ardesia. Appena sopra di qualche metro, dal costolone a nord, ricominciavano le irregolarità del suolo. Cambiavano anche gli odori. Timo, melissa, genziana. Coni di roccia nera e, subito, distese avvallate, ondeggianti e poi di botto serpeggianti, slargate e ancora strette in volute aggrovigliate nel blu di fiordaliso e aquilegia e dietro, la muraglia bruna e serrata dei boschi. C’era nata sotto quei boschi, Sara D’Angelo, in un borgo di seicento anime e duecento pecore. San Nicola, quattro case tra le pieghe della Maiella. Suo padre, suo nonno, il suo bisnonno e Dio solo sa quante generazioni, tutte nate e vissute lì, in quel angolo di mondo chiuso come un pugno. Lei e la sua famiglia non conoscevano che terre, selve e cieli che l’occhio coglieva. Tutto il resto, lo immaginavano. Da qualche racconto. Dai vecchi che parlavano di antichi viaggi. O da qualcuno che s’era fatto le due guerre e aveva visto qua e là, l’Italia. Sara raggiunse il punto che voleva. S’accosciò, stremata, guardando il cumulo di terra tra una fenditura ed un ispessimento del suolo che diveniva, a tratti, roccia. Appena un rialzo. Nessuno aveva mai sospettato che sotto, v’era seppellito da anni e anni, un soldato tedesco. Gettò sul cumulo un pugno di ciclamini e anemoni raccolti lungo il percorso. Baciò la terra sentendo sulle labbra la rugosità delle sterpaglie. Cominciò a parlare, raccontando cose di tutti i giorni. Poi intonò una nenia. Parlava e cantava così: da sola. Nel vento o nelle nebbie, tra tormente di neve o incandescenti soli che sbucciavano la pelle. A lei piaceva credere che magari "lui", sotto l’aspra coltre della montagna, nella nera culla di terra, ascoltava. Forse si lasciava ammaliare dal suono della sua voce che mai aveva sentito da vivo. E forse anche lui sussurrava nenie del suo Paese. A Sara sembrava di sentire, a volte, nell’ululato dei lupi lontani, nel vento caldo o freddo, come un suono lento e cadenzato. Quando il sole cominciò strusciare le prime cime dei faggi, sospirò profondamente e lasciò libero lo sguardo. Il suo mondo nasceva e moriva là, nel cerchio che la vista riusciva a cogliere. Nel perimetro che le gambe riuscivano a solcare. Non s’era mai spinta oltre i boschi. Non conosceva nessuno oltre i suoi parenti e gli abitanti del borgo. Selvatica, sola e scorbutica come pochi, in quel microcosmo dove tutti erano imparentati e conducevano vita di gruppo, Era una da guardare di traverso. Quasi muta. Disinteressata alle faccende degli altri, al loro vivere. Con quel carattere, nessun uomo l’aveva mai avvicinata. Ne aveva sofferto in silenzio accantonando il sogno di marito e figli, come tanti altri sogni e desideri, in una parte oscura del cervello. Era un suo segreto. Aveva scoperto nella sua testa, un angolo nero. Una sorta di piccola cella ove riporre strani pensieri, che portava a galla solo quand’ era sola. Li tirava fuori, elaborava. S’era così inventata una famiglia tutta sua. Una bella casa con stanze larghe e finestre aperte sulle cime azzurrate della montagna. Immaginava avventurosi viaggi oltre la barriera dei boschi. Vedeva intere città. La conca infinita del mare. Gente ben vestita. Macchine. Palazzi. Neanche l’ombra di cinghiali, tassi, faine, istrici, caprioli, lupi, orsi... Passeggiava senza nerbi tra le mani e senza guardarsi le spalle. Suo marito aveva la pelle chiara e occhi di un azzurro dove traspariva a volte, l’onda bianchiccia di quel mare rubato ad una fotografia ed alla sua fantasia. Anche adesso che l’età avanzava, non smetteva di ripescare da quel buco nero i suoi sogni. "Sono una vecchia pazza" pensava, guardandosi le pelle ingrigita dagli anni e dalla fatica. "Sono una vecchia pazza". Ma quella pazzia dava un senso ad una vita piatta e senza affetti. Aveva quasi trent’anni, quand’era successo… La guerra infuriava oltre i boschi e Sara, malgrado non lo fosse, si vedeva già sfiorita. Contava le piccole rughe del viso col polpastrello. Le sentiva ispessirsi, giorno dopo giorno. Ma non si guardava allo specchio. Ne teneva solo uno alto, sul cassettone, macchiato e fuligginoso come una corteccia bruciata. In quello specchio non s’era mai riflesso nessuno. Sua madre e sua nonna, quand’erano in vita, l’avevano evitato come la peste. Solo Rosamina, l’unica sorella, a volte da ragazza vi si era rimirata pensando che della famiglia, era la più bella. Anche se di bellezze, in casa D’Angelo, non se ne parlava davvero. Donne sanguigne, dai tratti chiusi e fieri. Corpi asciutti e ampi fianchi. Forti come tori. Abili a pascolare, mungere, crescere figli e tenere su la famiglia. Tutto qui. °°°° Un pomeriggio al pascolo, mentre il gregge ammassato sotto una quercia s’intorpidiva al sole, una capra nera e ribelle che Sara aveva battezzato Titta, s’era allontanata inerpicandosi tra viottoli spinosi, olmi e faggi, oltre il torrente che lagnava il suo fluire. Su, svelta, testarda, ancora per la schiera dei pini, dei frassini. Sara l’aveva seguita imprecando e quando la bestia s’era fermata di botto ad un centinaio di metri dalla piana del pascolo, s’era avvicinata guardinga e con un grosso bastone in mano. "Un cinghiale" pensò. O qualcosa di peggio. Ma raggiunta Titta, era rimasta senza fiato. Doveva avere una ventina d’anni ed era disteso a terra. Portava una divisa. Non era italiana, questo lo capì subito. Una mano teneva il calcio di un fucile. Aveva una larga ferita ad una spalla e gli occhi chiusi. Ma non era morto. Aveva subito pensato ad una miriade di cose: chiamare aiuto. Trascinarlo al riparo dalle bestie e scendere a valle per cercare il medico. O far finta di niente e lasciarlo lì, in pasto a lupi, orsi e cinghiali. Dopotutto, non era italiano. Doveva essere tedesco. Con quella faccia. Quei capelli. Sì. Senz’altro tedesco. Forse s’avvicinava la fine della guerra. Così dicevano gli uomini. Qualcuno diceva che i tedeschi scappavano. Che gli italiani li avevano traditi. Così, così diceva qualcuno. Lei non capiva granché di quelle faccende. La guerra era la guerra. Cose di uomini. Di quelli che comandavano oltre i boschi. E allora? Che fare? Intanto il giovane se ne stava lì, con gli occhi chiusi e la faccia al sole. Sara pensò che non aveva mai visto un uomo tanto pallido. Aveva perso sangue, ma bianco lo era già per conto suo. Quasi istintivamente, decise: trascinò il ragazzo per alcuni metri, fino ad una fenditura della roccia in una caverna che lo conteneva appena. Tolse la giacca e vide la ferita. La tamponò con la gonna. Non era una ferita grave. Il ragazzo si lamentò e aprì gli occhi. Allora Sara sentì scoppiare per la testa come un piccolo tuono e l‘ombra dell’anfratto s’irradiò d’un sole caldo e dorato e il brontolio del torrente, divenne canto lento e lontano. E il cuore parve fermarsi e poi impazzire… Era andata così. Per settimane Sara aveva nascosto il ragazzo sbarrando l’entrata dell’antro alle bestie, con tralci, massi e tronchi. Lui, man mano che i giorni passavano, s’era tranquillizzato. In un primo tempo aveva cercato di scappare, ma non era riuscito a fare che due passi per poi finire lungo disteso a terra. Sara l’aveva ancora trascinato dentro. L’aveva sfamato e dissetato. Gli aveva cambiato le bende. L’aveva lavato e persino sbarbato. In quelle lunghe ore passate insieme, c’era un assoluto silenzio, tra loro. Quasi non avessero lingua. "Non serve parlare" pensava Sara. "Non capisce" è così, doveva pensare lui. In quel silenzio rotto appena dai gesti, dai respiri, dal gorgoglio degli uccelli, dal fruscio delle bestie che frugavano i boschi, prendeva forma come una magica liturgia. Un qualcosa d’irreale, astratto, che in qualche modo li univa in una strana dimensione. Oltre ogni linguaggio. Ogni nazionalità. Ogni conflitto. Sara non si sforzò di chiedere neppure il nome del soldato. Che importanza aveva? Forse portava un nome difficile. Impronunciabile. Se lo avesse ripetuto, il giovane magari, l’avrebbe derisa. Allora lo battezzò lei, un mattino, sotto la fonte che trascinava aghi di pino e genziane. Pensò, lasciando scorrere con la mano l’acqua gelida sulla fronte, "Francesco". Ti chiamerò così: Francesco". Non aveva detto a nessuno di quell’incontro. Magari i suoi paesani avrebbero scannato il ragazzo. O lui, vedendoseli davanti e imbracciando il fucile, avrebbe ammazzato loro. A lei "Francesco", era riconoscente. Aveva un mezzo sorriso, quando la vedeva arrivare. Si lasciava pulire come un bambino e mangiava come un lupo anche i tozzi di pane duro. La guardava. La guardava con quegli occhi che erano mare e cielo. Il giovane soldato era così diventato un pensiero primario ad ogni altro. Sara aspettava l’alba come s’aspetta una grazia e correva da lui. Insomma, sì. E anche se ormai non aveva più l’età per certe fantasie, sentiva il sangue bruciare per le vene. Sua nonna Rosa diceva che c’erano giorni belli, nella vita, quanto quelli di una mano e tutto il resto era fatica e amaro. Sua nonna era stata una vecchia saggia. Con la sua statura oltre la media. La fierezza di un corpo quasi virile che s’addolciva di passo in passo, nel disfacimento dell’età. Le mani lunghe e nervose dalla pelle ispessita e rude, da uomo. Sara si era legata a lei ancor più che a sua madre. Non c’era tenerezza in nessuna delle due donne, ma nonna Rosa era madre due volte perché aveva cresciuto anche le nipoti quando la vecchiaia le aveva portato via le gambe impedendole di fare qualcosa in casa e ai campi. Così, mentre i suoi genitori lavoravano come bestie qua e là, la vecchia si era occupata delle due bambine. Le aveva educate, accudite. Aveva mangiato e dormito con loro. Di giorno era stato solo un brontolio continuo. Leggi da rispettare, per Rosamina e Sara. Ordini da eseguire: vai qui. Vai là. Questo no. Questo sì. Lava. Stendi. Cuci. Spazza… ma la sera, quando s’accovacciano tutte e tre sotto le coltri, Sara spingeva le gambe ossute verso il grande corpo della vecchia. Sentiva uno strano tepore. Qualcosa di languido. Tutto suo. Aveva amato quello strusciare di carni. Era molle e morbida, la nonna. Sentiva sulle ginocchia secche, le pieghe della pelle vuota di carne e muscoli che s’adagiavano sulle sue ossa di ragazzina malnutrita. La coprivano. L’avvolgevano come uno scialle sotto il quale nessun maleficio l’avrebbe raggiunta. Aveva molto amato quei momenti. Quelle sensazioni. Tutto, aveva amato di quella grande nonna. Anche l’odore. Un misto di pane caldo e cenere, carbone e sudore. Fritto e piscio. Restava tutto nei panni. Sulla pelle. ….Ci sono giorni belli, nella vita, quanto quelli di una mano….Aveva sempre avuto ragione, la vecchia. °°° Quel mattino, appena sull’orlo della piattaforma, Sara notò subito che la barriera di tronchi e sterpi ammassati per coprire l’ingresso dell’antro, erano stati trascinati disordinatamente e sparsi attorno. Percorse quell’ultimo pezzo di strada con le tempie che pulsavano come un tamburo. "Francesco" era lì, nei pressi della grotta, come la prima volta che l’aveva visto. Ma la ferita era alla gola, larga. Di coltello. E una macchia rossa s’apriva come un fiore sfatto sul bianco della pelle. L’avevano trovato due pastori, Nico e Gesualdo. Due ragazzotti ottusi e un po’ tonti, ignoranti come la morte, ma forti e selvaggi pari agli orsi che giravano per la Maiella. Non ci pensarono neanche su, trovando il giovane appisolato ai piedi di un pino mugo. Istintivamente gli piombarono addosso tagliandogli la gola. Un colpo secco con la lama che di consuetudine, usavano per uccidere gli agnelli. Una cosa che faceva parte del loro lavoro: sgozzare le bestie e lasciar scorrere il sangue caldo nel secchio di zinco per mischiarlo al latte e farne cibo. Tagliare la gola ad un uomo, fu quasi la stessa cosa. E il sangue, uguale. Caldo. Vischioso. Lo videro spargersi sul petto del soldato e scendere in rivoli copiosi sulla roccia. Bruciarono l’uniforme lasciando il corpo nudo dove l’avevano trovato. "Ci penseranno le bestie…" pensarono. Non passò neanche nelle loro teste, che era un ragazzo. Che era disarmato. Non sapevano che aveva attraversato mezza Europa solo perché gli avevano comandato così. Che aveva ucciso, perché gli avevano comandato così. Che aveva una casa, a Francoforte, dove l’aspettava una madre in pena. Che aveva una ragazza bionda e morbida, nei ricordi, nel cuore. E una strana donna bruna e ossuta, nel sangue. Una, della quale non aveva mai sentito neppure la voce, ma che gli aveva salvato la pelle. Che l’aveva stregato con quel suo aspro odore di montagna, pregno di mille essenze, mille effluvi. Una, dai tratti bruni e duri. La selva nera dei capelli. Gli occhi di brace e una bocca colma, piena, intagliata nell’avorio della pelle. Una, che forse avrebbe posseduto, uno di quei giorni. Una, forse non bella, non giovanissima, ma con la quale avrebbe forse goduto come mai, nella sua tenera vita. Una, che l’accendeva di desiderio, solo a sentirne il passo. E quell’odore… Non avrebbero detto niente a nessuno, Nico e Gesualdo. Nella mente grezza, primitiva, pensarono che forse erano degli eroi. O forse degli assassini. Nel dubbio, meglio tacere, su quel fattaccio. Tutto sommato, quel tipo secco, biondo e bianco che avevano fatto fuori, era di sicuro un tedesco. Amico o nemico, non era ben chiaro. Comunque, non era Abruzzese. Neanche italiano. |