Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2008

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Primo classificato

METTI I PIEDI NELLE MIE IMPRONTE

 

di Silvia Faini

Bovezzo (Bs)

ottobre

"Metti i piedi nelle mie impronte!" La frase, più un ordine che una raccomandazione, arrivò sussurrata, ma non per questo meno perentoria.

Avevamo lasciato ormai da tempo le colline alle nostre spalle, e il cielo, a oriente, cominciava solo adesso a prendere il grigio dell'alba. Entravo in un territorio nuovo e mi chiedevo chi avesse designato Marzio, più giovane di me, a farmi da guida. Parlava poco, dicendo solo lo stretto indispensabile quando si voltava rapido, per sincerarsi che nessuno ci seguisse. lo, alle sue spalle, guardavo ora i suoi grossi scarponi chiodati, ora il suo zaino, colmo all'inverosimile, notando il suo passo fermo e sicuro, cadenzato dal ritmo interiore di chi percorre le montagne abitualmente.

Quanti anni poteva avere? Venti? Ventidue? Aveva il volto liscio sotto la barba non rasata da alcuni giorni. E cosa faceva prima di diventare partigiano? Il contadino? L'operaio?

"Tu non chiedere niente. Fai quello che ti dirà e basta" mi aveva raccomandato Michele prima di congedarmi con un abbraccio, un gesto così insolito in lui che, per la prima volta, capii l'entità del rischio che correvo.

Il sentiero, lasciato il bosco di larici, saliva sempre più ripido, con stretti tornanti, fra ontani e rododendri, tanto che cominciai ad ansimare per la fatica. Dovette accorgersene perché, senza parlare, rallentò l'andatura e proseguì, a capo chino, facendo attenzione a dove poggiava i piedi, su quel terreno traditore di ghiaia e terriccio che si sgretolava.

Gli arbusti andarono via via diradandosi finché scomparvero del tutto e ci trovammo completamente all'aperto. Alla nostra sinistra intuivo il pendio quasi verticale che terminava, quattrocento metri più in basso, sugli sfasciumi. Un piede in fallo e sarei finito là sotto. "Metti i piedi dove li metto io, d'accordo?" Ribadì Marzio, ora in tono quasi fraterno. Forse non gli piaceva quell'incarico di portare "uno di città" fino al bivacco di Bos.

La giornata era limpida e fredda e il cielo, spazzato dalla tramontana, era quasi blu. Più in alto, sopra le nostre teste, le creste seghettate si interrompevano in un varco naturale: doveva essere il nostro passo. Ci arrivammo infatti, stanchi e sudati, dopo un'altra ora di cammino sempre più impervio e fu lì che mi sfuggì l'esclamazione di stupore alla vista del ghiacciaio dell'Adamello.

Marzio sorrise compiaciuto. Ci sedemmo, evitando i mucchietti di escrementi dei selvatici, bevemmo una sorsata di acqua e vino dalla borraccia, dividemmo il pane e il formaggio ammirando l'infinito susseguirsi di crinali. Ogni tanto gettavo un'occhiata al ragazzo, a quegli occhi così chiari, sotto le sopraciglia nere, che lo costringevano a strizzare continuamente le palpebre per la luce. Aveva l'aspetto timido ma fiero che avevo già notato, in fabbrica, in alcuni colleghi originari della zona.

"Vedi il ricovero?" Mi disse con un cenno verso la valle sottostante. lo scrutai, facendo correre lo sguardo sulla morena, sul piccolo lago verde cupo, sulla boscaglia più in basso. Nulla! Si divertì a quella mia inesperienza. "È fra le rocce della morena... - mi disse orgoglioso - I macigni da quassù sembrano piccoli, ma sono enormi e, fra alcuni di questi, c'era un incavo abbastanza grande per contenere un paio di persone. L'abbiamo sistemato e ora ci si sta anche in dieci. L'acqua del lago si può bere. È un buon posto per nascondersi. Quassù i tedeschi non arriveranno... Non replicai, feci solo un cenno di assenso: non sapevo ancora quando, cosa o chi avrei dovuto trasportare fin lassù. Forse non sapeva nulla neppure lui, perché tacque. "Andiamo - disse poi alzandosi e rimettendosi lo zaino in spalla - ora ti porto giù e ti faccio vedere, poi dobbiamo aspettare che sia quasi scuro per scendere a Ladenno. Lì qualcuno verrà a prenderti".

Superò il varco, gettò un ultimo sguardo verso il Corno Bianco, poi iniziò la discesa, cercandosi il passaggio su tracce a me invisibili, lungo i massi sconvolti e accavallati. Si voltò a un tratto, forse pensandomi in difficoltà e mi sorrise, vedendomi a due passi da lui. "Cammini bene, per essere uno di città" mi concesse.

Sorrisi anch'io: "Da piccolo andavo a funghi con mio padre. Ci alzavamo col buio... Io avevo un sonno tremendo, ma non mi sarei perso quelle uscite con lui per tutto l'oro del mondo".

"Ormai la stagione dei funghi è passata e poi, adesso, non ci sarebbe tempo, ma dopo..." Non aggiunse nulla, però in quel "ma dopo..." c'erano tutte le sue speranze: una vita normale, il lavoro, forse una famiglia...

"Vedi? - mi chiese quando fummo davanti a due enormi massi che formavano un angolo acuto - è qui dentro!". Ci infilammo carponi, richiudendo l'apertura con ciuffi di muschio secco. Lo spazio era angusto, però, in fondo, si allargava: a terra c'erano delle assi, sulle quali erano poggiati dei sacchi. "Provviste e coperte" mi disse.

Tornai all'esterno, scrutai il cielo limpido: mancavano ancora alcune ore all'oscurità. Con il binocolo osservai le cime, percorsi i fianchi scabri delle montagne circostanti, perlustrai la valletta fin dove poteva spingersi lo sguardo. Poco dopo Marzio mi raggiunse e si sedette con un libro in mano. Probabilmente mi si dipinse in volto un tale stupore, che lui, ridendo, esclamò: "Oh, anche noi della valle andiamo a scuola, non solo voi cittadini".

Annuii imbarazzato e chiesi: "Cos'é?".

"Dostojewskji. L'idiota".

Poi, visto che il mio silenzioso stupore non diminuiva, aggiunse: "Avevamo un bravo maestro, severo, anche se non alzava mai la voce. Ha continuato a prestarci i libri anche dopo la fine della scuola. Questo me l'ha regalato l'anno scorso, quando sono andato a salutarlo prima di salire quassù..."

12 dicembre

Quando don Oreste mi fece entrare in canonica erano passate da poco le otto. Avevo aspettato, col cuore gonfio di trepidazione, il battere dei rintocchi, standomene nascosto nel fienile di una casa deserta, dalla quale potevo osservare la porta. Quando la vidi aprirsi quel tanto necessario a far passare un gatto, sgusciai dalla mia posizione, scivolai piano lungo la scala, approdai a terra senza il minimo suono. Quei due mesi di fughe, di appostamenti, di perlustrazioni mi avevano reso guardingo ed esperto. Nella stradicciola buia, battuta da un vento gelido, non si vedeva nessuno. Passando rasente al muro, con le orecchie allerta, arrivai alla porta e mi ci infilai richiudendomela alle spalle. Il sorriso di don Oreste e la sua mano sulla spalla mi confortarono. Fece scorrere il chiavistello e mi accompagnò in cucina.

"Siediti! - Mi disse scostando una seggiola dal tavolo - mangia qualcosa" e mi servì una scodella di brodo, appoggiandomi accanto una fetta di pane scuro, che spezzettai e lasciai cadere nel liquido fumante. Mangiai, anche se non avevo fame: sapevo che avrei avuto bisogno di energie.

Lui si sedette accanto a me, in silenzio. Alzai lo sguardo e ne notai le occhiaie, il viso tirato. "Come state?" gli chiesi.

"Bene, bene! - Mi rassicurò, poggiandomi una mano sul braccio - staremo meglio quando potremo vederci con un piatto di polenta e un bicchiere di quello buono in mano... "

"lo sono pronto! - dissi asciugandomi la bocca – dove sono?"

"Di là con mia sorella. Hanno dormito un pò".

Si alzò, lo sentii parlottare, poi tornò precedendo i due che avrei accompagnato fino al ricovero di Bos. Quando li vidi mi sentii prendere dallo sconforto. "Ma sono bambini!" mi sfuggì.

Il maggiore dei due, tenendo per mano il fratello, precisò: "lo ho tredici anni, lui dieci". Quasi un'affermazione di orgoglio. Li osservai, notai le loro scarpe da cittadini, i loro indumenti ordinati e puliti, ma decisamente troppo leggeri, i loro sguardi scuri, fondi.

"Adesso Marta provvederà a coprirli meglio, vero?" sorrise don Oreste alla sorella che arrivava in quel momento con delle giacche da uomo di panno scuro, che adattò addosso ai bambini con delle spille da balia.

Don Oreste mi prese delicatamente per un gomito, mi spinse verso la chiesa. "Erano undici, tutti della stessa famiglia - mi disse - li hanno portati via... loro erano nascosti da una vicina... Tu fai come al solito, poi, dal ricovero di Bos, ti daranno il cambio".

"Ma sono due bambini" mormorai sconfortato, pensando a quello che dovevano aver già patito, a quello che avevano visto, a quello che ancora avrebbero dovuto sopportare. E poi pensai al mio sentiero, a quel pendio ripido, al freddo. "Va bene!" dissi.

Uscimmo con cautela dall'abitato quando il campanile batteva nove rintocchi. Non mi voltai indietro, non volevo sapere se occhi curiosi, dalle finestre, scrutavano il nostro passaggio, ma ero certo che don Oreste avrebbe seguito i nostri passi fino a vederci scomparire oltre la curva e sarebbe stato in pensiero finché qualcuno, passando a lasciargli il latte l'indomani, gli avrebbe mormorato: "Per quella gallina coi due pulcini, reverendo, state tranquillo..."

L'aria era pungente e profumava di resina e letame. Superammo le ultime case e proseguimmo lungo la stretta mulattiera che portava ai Prati Magri: a destra e a sinistra gli abeti mormoravano inquieti. Non ci stavamo in tre sul viottolo e dovetti precederli, voltandomi in continuazione per timore che gli spiriti della notte me li portassero via sotto gli occhi, mentre loro si stringevano l'uno all'altro, quasi a confortarsi con la reciproca presenza.

Quando dovemmo affrontare la parte più ripida del pendio, tagliai due rami robusti, ne affilai la punta, ne diedi uno in mano a ciascuno, raccomandando loro di puntarli con forza nel terreno. Poi mi legai la corda in vita, assicurai il più piccolo e per ultimo misi il maggiore. "Se non ce la fate, tirate la corda. Prima dell'alba arriveremo al sicuro e potremo dormire".

"Grazie" mi rispose il maggiore e il piccolo chinò la testa.

"È un tipo silenzioso tuo fratello" dissi, quasi scherzando, per alleggerire l'atmosfera.

"Lui non parla più - replicò il più grande in un sussurro - da quando... sono passati i camion... "

Mi uscì un sorriso tirato. "Andiamo adesso, forza...".

L'aria era maledettamene fredda e il cielo non prometteva nulla di buono. "Fà che non nevichi, fà che non nevichi... " mormoravo dentro di me, gettando il fascio di luce della lanterna cieca proprio davanti ai miei passi, sentendo ogni tanto, alle mie spalle, il lieve incespicare del più piccolo. "Oh, ma finirà questa storia... - mi dicevo per consolarmi - e allora in montagna ci tornerò solo per piacere, e porterò Letizia nelle Dolomiti a vedere le stelle alpine... Quassù non ne ho viste... Già, ma non è stagione... Qui ormai non è più stagione per niente, né di funghi, né di caccia... anzi mi sembra che gli uccelli siamo noi e i tedeschi siano i cacciatori. "Dannazione!" mi sfuggì perché quello che mi svolazzava davanti agli occhi era un fiocco di neve. Mi fermai, guardai i bambini, i volti pallidi alla luce della lanterna. "Su, fatemi sentire le mani..." dissi porgendo le mie. Il piccolo si sfilò i grossi guanti ruvidi. Gli sfregai quei due pezzi di ghiaccio, ci alitai sopra, poi dissi: "Per un momento mettetevele sotto le ascelle, che è il posto più caldo. Vedete lassù? No, col buio non si vede niente... Là sopra c'è il passo, sembra lontano, ma tra poco ci arriviamo, e poi, da lì in avanti è tutta discesa. Siete stanchi?".

"Un pò" rispose il maggiore sfregandosi le mani.

Riprendemmo il cammino.

L'alito formava nuvolette di vapore che si dissolvevano davanti al naso. I fiocchi di neve, radi per fortuna, sembravano i petali di un mandorlo... Dovevo portare Marzio sui Ronchi in primavera, quando erano ammantati del bianco dei mandorli in fiore, fargli vedere la mia cascina dai barbacani possenti come quelli di un castello, e il pozzo e gli orti in cui le nostre donne coltivavano le primizie... Sentii che il piccolo, probabilmente esausto, sospirava. Misurai, a occhio, la distanza che ci separava dal passo. Mi sembrava ancora lontanissimo. Diedi un lieve strappo alla corda e ripartimmo. La salita fu interminabile, con pause e riprese. Cominciavo ormai a preoccuparmi quando capii, dall'aria gelida che mi piombava sul viso, che eravamo al valico. L'odore pungente dei selvatici, che sicuramente avevamo disturbato, impregnava ancora l'aria.

"Se sentite un rumore, non preoccupatevi... sono i cervi" bisbigliai incoraggiante. I bambini mi si strinsero accanto, allo stremo delle forze. Il più grande chiese: "Possiamo sederci solo un momento?".

Ci rannicchiammo sotto il passo, contro le pietre, per pochi minuti: da fermi il freddo diventava insopportabile.

Cominciammo a scendere.

Riprese a nevicare, leggera, sottile, dannatamente insidiosa, costringendoci a muoverci con lentezza esasperante. lo cercavo, col cuore sospeso, il tragitto percorso decine e decine di volte: i piedi avrebbero dovuto conoscere ormai da soli ogni pietra, ogni anfratto. Ma non era mai stato così buio, non avevo mai portato due bambini. Avessi almeno intuito il lago, là sotto, avessi almeno sentito, sotto i piedi, la consistenza soffice del muschio, dell'erba ...

"Metti i piedi nelle mie impronte" disse la voce di Marzio, così nitida che, se non l'avessi saputo altrove, mi sarei girato a cercarlo.

Da quel momento mi sembrò che tutto, finalmente, filasse liscio, nonostante la neve e il freddo, nonostante i bambini sfiniti che si trascinavano dietro di me.

"Siamo alla piana, sentite? Non ci sono più le pietre, c'è l'erba sotto la neve!". Il maggiore emise un debole sospiro di soddisfazione, il più piccolo ciondolava la testa per la stanchezza. Lo sollevai, me lo caricai sulla schiena, collocando lo zaino sul davanti. Presi per mano l'altro e proseguimmo la camminata nella neve che andava infittendosi: 12 dicembre... A casa, quando ero piccolo, Santa Lucia, in quella notte magica fra il 12 e il 13, ci portava dei doni: le noci, i mandarini, le calze nuove; a mia sorella, una volta, perfino una bambola di pezza. Sembravano passati mille anni...

Scorsi i miei macigni, sussurrai: "Siamo arrivati". Ero così stanco, che la nausea mi chiudeva la gola; mi sarei buttato per terra a dormire, invece, a fatica con quell'umidità, accesi una torcia, che misi a fumigare poco lontano dall'ingresso, srotolai due coperte, levai i panni umidi e le scarpe al più piccolo, gli massaggiai vigorosamente i piedi con una manciata di neve finché li vidi tornare rossi, mentre il maggiore si spogliava rabbrividendo. Preparai una sorta di letto per loro due, spargendo un po' di paglia sulle assi, sistemando le coperte in modo che stessero comodi.

"Mettetevi vicini - dissi al più grande - ecco, così... Buonanotte..." Mi guardava con occhi grandi, preoccupati. "Ehi, ormai è fatta! Dormi, adesso". Ebbe un'ombra di sorriso e, mentre già le palpebre gli si chiudevano, riuscì a dire: "Non separateci, per piacere..."

"Non temere!" Spensi la torcia, mi avvolsi anch'io in una coperta, mi sdraiai. Il sonno mi vinse in pochi istanti. Ma, dopo le prime due ore di abbandono, mi destò il mormorare fitto accanto a me: il piccolo parlava nel sonno, chiamando con voce lamentosa la mamma. Il fratello si mosse, gli bisbigliò qualcosa, lo abbracciò e il piccolo si calmò.

13 dicembre

Quando Giacomo comparve, infine, nella luce grigia dell'alba, vidi che, sotto l'enorme zaino carico di provviste, aveva il volto rosso per il freddo: versai altra neve nella gamella, la feci scaldare per fargli trovare del caffè caldo. Si levò lo zaino, sorrise ai bambini, si sfregò le mani per scaldarle. Aveva un'espressione strana, sfuggiva il mio sguardo. Infine si sedette su una delle assi, si sistemò i lacci degli scarponi, si levò il berretto e prese a rigirarlo fra le mani. "lo... - cominciò scuotendo la testa - non avrei voluto essere io a dirtelo..."

Sentii una fitta allo stomaco e pensai ai miei, a Letizia... Mi si chiuse la gola. "Marzio - disse invece Giacomo - l'hanno preso ieri sera..." lo tacevo, aspettando. Incrociai i suoi occhi umidi. "È tornato indietro - mormorò con la voce che gli si spezzava. - Mi ha detto: "Accidenti, il mio libro... torno subito." Dovevano essere sulle nostre tracce. Ho sentito il rumore della moto, e subito dopo il crepitare della mitraglia... Quando... sono sceso... c'era già don Oreste, piegato su di lui... lo... non ho potuto fare niente, capisci, niente?".

Mi sedetti, sentendomi svuotato da ogni energia, pensando alla risata di Marzio, a quel suo modo bonario di deridermi perché ero 'di città’, al suo vezzo di tenere, come segnalibro, una matita fra le pagine, per annotarvi qualcosa con quella sua grafia tonda. Non mi resi conto delle lacrime che mi colavano lungo il viso finché non vidi davanti a me il più piccolo dei due fratelli. Alzai lo sguardo, mi asciugai il volto col dorso della mano e lui mi si avvicinò e mi mise le braccia al collo, stringendomi forte, senza una parola, senza una lacrima. Restammo così a lungo scambiandoci i nostri dolori.

Dicembre 1971

Quando, quella nebbiosa sera di dicembre, aprii la porta dopo il vigoroso squillo di campanello, mi trovai davanti due uomini alti, dai capelli scuri, che mi fissavano sorridendo. "Non ci riconosce?" mormorò uno dei due.

No, per quanto frugassi nella memoria, non riuscivo a collocarli: forse due alunni delle scuole serali? Due ragazzi dei corsi estivi?

"No, mi spiace, in questi anni ho visto molti visi...".

Frugarono in tasca e mi mostrarono, sui palmi delle mani, due pietruzze bianche luccicanti. "Deve tornare molto indietro, al 13 dicembre di tanti anni fa, al rifugio di Bos".

Avvampai per il ricordo che riemerse come una fitta dolorosa. Rividi i due bambini, rividi Giacomo che mi diceva di Marzio, rividi la neve, risentii perfino l'odore fumoso del fuoco di sterpi.

Di loro, negli spaventosi giorni seguenti, avevo avuto solo notizie frammentarie, che li davano diretti, con molte tappe, in Svizzera. Li avevo lasciati, quel giorno, con un dono piccolissimo: le due pietre bianche luccicanti di cristalli neri, che avevo raccolto sulla sponda del lago e che ora, ridendo fra le lacrime, vedevo poggiate sulle loro mani.