Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

Xii edizione - Arcade, 5 gennaio 2007

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

RITORNO SUL CARSO

 

di Mario Schiavato

Rijeka (HR)

Ogni tanto mi agguanta la nostalgia. Ed allora devo piantare tutto, ritornare sul mio Carso, ripercorrere quelle stradette oggi quasi abbandonate, sfiorando i paesini deserti con la fontana di pietra ormai secca, le poche case sprangate, mezzo diroccate, e giungere a quella che è stata la mia povera casa di pietre squadrate con il tetto di laure, con le finestrelle screpolate, con la porta corrosa dalla pioggia. La casa dove sono nato e che sorge aggrappata alle poche altre: ormai quasi completamente dimenticato il mio villaggio, da quelle parti non ci abita più nessuno, non ci sono più boscaioli, malgari, né arrotini, stagnini, ombrellai che, d’inverno, con la bicicletta andavano a cercar lavoro nei paesi della pianura.

Di solito, quando arrivo, apro la porta con grande apprensione. Entro in punta di piedi come se stessi per profanarla quella mia casa: mi soffermo nell’afrore umido, tendo l’orecchio a echi assenti. Spingo la porta della cantinetta. Non ci sono più allineati il sacco della farina, quello delle castagne, la piletta col sale, i vasi di vetro pieni di strutto. Il tino e le vecchie botti per il refosco sono quasi sfasciati... Poi salgo: accarezzo il tavolo, sposto le sedie impagliate, sfioro con due dita le scodelle impolverate allineate sulla nappa e poi, con un nodo alla gola, salgo ancora più su ad accarezzare i bordi dei letti coperti di muffa. Nella lama di luce che entra dalle fessure delle imposte vedo mio padre che, col suo cappello d’alpino in testa, dalla foto mi sorride orgoglioso per la medaglia appuntata sul petto. Resto lì, impalato. Non sono più il re straccione di un regno fatto di rocce, di nevai, di torrenti, di prati, di boschi, di funghi e di lamponi, di polle dove le streghe andavano a specchiarsi e pettinarsi.

Il panorama è cambiato, s’è inselvatichito: su, le rocce d’alabastro dove io e Toni, ragazzini proprio, andavamo ad arrampicare lungo le fessure a rischio di romperci l’osso del collo, sembrano più glabre; sotto, la piccola dolina dove coltivavamo il troppo poco frumento è mangiata dai rovi; sui prati, del cason è rimasto solo un mucchio di pietre; dei pagliai soltanto il palo che li reggeva; il dosso con le terrazze della vigna di refosco sono franate, le viti scarmigliate dalla bora. I ricordi mi fanno piangere.

Più tardi, a sera, mi metto seduto sull’uscio a fissare le stelle. Le conosco come conosco i suoni e gli odori della notte, il sibilo del vento, i gemiti della casa. Da piccolo, quando le nuvole non coprivano il cielo, le ho guardate con la stessa tenerezza con cui fissavo gli occhi di un amico. Com’erano belli quegli astri della mia infanzia, com’era meraviglioso il loro splendore quando a poco più di dodici anni con l’amico Toni, s’andavamo ad accucciare nel folto del frascame per pianificare percorsi per noi proprio impossibili sulle pareti degli arditi campanili della Valle delle Meraviglie che già il grande triestino, Emilio Comici, aveva scalato quando noi non eravamo ancora nati.

Nel buio cerco di concentrarmi. Non mi ci vuole molto comunque per capire che di nuovo la primavera mi ha portato il bisogno di silenzi, di solitudine, di ricordi. Ancora una volta il mio Carso m’invita a congiungermi, a fondermi. Ed io, che sono nato nel chiarore sospeso di un giorno d’inizio d’estate, sento quel richiamo e non posso fare a meno di sprofondare nei miei struggenti ricordi. Passa una nuvola, un’altra.

Le stelle a tratti scompaiono. A tentoni entro in casa, tendo l’orecchio a rumori che non arrivano e poi vado a spalancare le finestre. Da una, vedo la luna che da sopra la sagoma del Monte Maggiore illumina, evanescente, la Solera poco lontana.

La Solera era una dolinetta circondata da muricce alte e spesse, un campo buono, una terra profonda e umida, tanto rossa da sembrare sangue raggrumato, che a primavera si copriva di un tappeto verde, frumento forte e grasso, che poi metteva spighe robuste e turgide di grani e, più tardi ancora, diventava distesa dorata, un breve mare ondulato per i giochi del vento. Quanto ho amato, quanto ho odiato la Solera in un’estate estremamente asciutta con gli uccelli affamati e gli uomini nervosi, i loro occhi sempre puntati al cielo a spiare inutilmente le nuvole che bollivano sulle montagne. L’ho odiata per tutto quel correre avanti e indietro, battendo sui bandoni appesi ai paletti per spaventare i passeri che calavano chiassando sulle spighe, voraci.

Mio padre veniva a tirarmi giù dal letto all’alba, mi metteva in piedi, mi spingeva giù per le scale: ­Presto, muoviti, i passeri sono già a far danni, maledette bestie! - Partivo, in una mano il bastone e nell’altra un fiasco di acqua e aceto. Trottavo sbadigliando, gli occhi strabuzzati per quel sole basso all’orizzonte, le pupille due fessure con dentro ancora i sogni della notte, naturalmente tutti di arrampicate con Toni sul Guanto di Comici, nella Valle delle Meraviglie.

I primi colpi sui bandoni erano fiacchi per la fatica del giorno prima che il sonno non era riuscito a smaltire. Ma come i piedi si bagnavano di rugiada, come vedevo i papaveri sbocciati durante la notte e gli occhi cerulei dei fiordalisi, mi mettevo a correre più in fretta, con gusto picchiavo, mentre gli stormi s’alzavano protestando dalle spighe e andavano a posarsi sulla siepe.

Più tardi, quando il sole asciugava la rugiada e incominciavo a sudare, quando i rigagnoli salati mordevano le mille invisibili ferite che le spighe avevano inciso sulla mia pelle, allora era più difficile. Solo verso mezzogiorno le cose andavano meglio. In quelle giornate di luglio, a quell’ora il riverbero faceva ballare i paretoni delle montagne. Il paese pareva morto: morte le case con i vecchi chiusi dentro, morte le vigne sui terrazzoni dei dossi con gli uomini addormentati all’ombra, morti i boschi vuoti del rintronare dei colpi d’ascia dei boscaioli… Era allora che i passeri si rifugiavano da qualche parte e mi davano requie. In quella vampa di vivo rimaneva solo il frinire delle cicale. A sentire in quella baluginante immobilità il loro verso impazzito, sembrava impossibile che da qualche parte ci fosse ancora un pezzettino di terra fresca e umida. Eppure c’era, c’era!

Lo scoprii un giorno che per sfuggire alla calura mi aprii un pertugio tra i rovi che infestavano un ciliegio selvatico che cresceva stentato e corroso dai tarli a ridosso di un grumasso alto come una torre. Ai suoi piedi trovai un fazzoletto di muschio incredibilmente verde e umido. Fu in quel posto che pensai di costruire il più bel giardino delle fate.

Costruirlo era una cosa estremamente facile. Me lo aveva insegnato Toni che per la testa aveva sempre idee bizzarre: bastava solo collocare lungo strade minuscole tanti pezzetti di specchio, tanti vetruzzi colorati con sotto un petalo o una pallina di stagnola, un’ala di farfalla, affinché le fate, passando fluttuanti per il cielo, attratte da quel luccicare, andassero a specchiarsi rimanendovi prigioniere. I vetruzzi li raccolsi un po’ dappertutto, gli specchietti li ricavai infrangendo un pezzo di quello che mio padre adoperava per farsi la barba alla domenica: costruii un giardino con sei vialetti dove si sarebbero potute riposare tutte le fate del firmamento.

Ogni giorno, quando durante le pause di mezzogiorno mi andavo a rifugiare sotto il ciliegio, ne trovavo qualcuna prigioniera. Forse erano soltanto lembi di cielo che si specchiavano, ma io credevo che fossero fate meravigliose e dolci e buone, soavi creature dalle lunghe chiome d’argento. A tendere l’orecchio si potevano udire le loro voci che mi incitavano a correre con Toni nella Valle delle Meraviglie, a scoprire le vie più facili e scalare la Torre Grande, la Candela, il Guanto, il Castello di Barbablù, tutti e due orgogliosamente legati al pezzo di corda che avevamo rubato e che era servita a cingere le balle di fieno che si portavano a spalla giù dai prati alti, nonché appesi all’unico chiodo che possedevamo, anche quello trovato sul ghiaione, storto e ruggine. E quando più tardi dovevo continuare a battere sui bandoni per spaventare i passeri, sollevavo i vetruzzi e gli specchietti per liberarle quelle fate e farle ritornare fra le altre che vagavano per il cielo.

Un giorno che m’ero un tantino appisolato, trasalii per le grida di mio padre. Saltai fuori, mi dilaniai il viso sui pruni, agguantai il bastone e via! Corri e batti, batti e corri! E lo vidi, ad un tratto, il passerotto: se ne stava ghiotto, abbarbicato ad una spiga più grossa di lui, cercando di levarne un chicco. Aveva le piume giovani, il becco tenero orlato di bianco e due occhietti sorpresi più che spauriti. Mi fermai ansante. Lo stetti a guardare un attimo soltanto e quindi, con un urlo rabbioso, come un boia mi slanciai sulla bestiola che, svolazzando a fatica, s’intrufolò tra le spighe. Furono le minacce di mio padre a farmi diventare cattivo, lo giuro! Rincorsi la bestiola inciampando sulle zolle dure, calpestando il frumento, dilaniato il mio corpo sudato e nudo dalle reste delle spighe.

E la ebbi finalmente, stretta in pugno. Guardai quell’esserino che tentava di divincolarsi, pigolando. Strinsi e strinsi la mano diventata macigno finché vidi la linguetta rosa spuntare dal becuccio orlato di bianco, finché sentii nel palmo il caldo delle interiora. Sconvolto rimasi a lungo sotto il sole con quel pugno chiuso. Poi, dolorosamente, mi avviai verso il ciliegio selvatico. Incurante delle minacce di mio padre, posai delicatamente l’esserino al centro del giardino delle fate e rimasi lì anch’io, a gemere, disperato.

Dopo, in quell’estate, non ebbi più il coraggio di ritornarci per paura di trovare, tra i vetruzzi e gli specchietti, lo scheletrino del passerotto.

 

Quassù l’alba arriva sempre presto a premere contro le casette immerse nelle ondate di bruma violacea. Nel sonno quieto, disteso sul vecchio saccone ancora frusciante di foglie di granoturco, sono rimasto tutta la notte abbracciato ai miei sogni infantili. Esco scalzo, pian piano accosto il vecchio scalone al muro, salgo sul tetto. Il ghiaccio ha fessurato una delle laure più grandi sul bordo del muro portante. La sposto a fatica, la giro, la ricolloco. Da lassù mi accorgo che i terrazzoni dei dossi della vigna di refosco sono franati in più punti. Le viti sono secche, scarmigliate; i pali marci, in massima parte son caduti; il fil di ferro s’è intricato con i rovi. Rattristato mi siedo sul tetto, appoggio la schiena al camino.

All’inizio di marzo il sole d’improvviso si metteva a scaldare e le giornate diventavano sempre più lunghe; i paesani tornati dalla pianura dopo aver riparato ombrelli e padelle avevano già appeso le biciclette alle travi delle stalle ed erano tutti indaffarati nelle vigne dei dossi fin sotto i roccioni e anche mio padre veniva preso dalla smania febbrile di non arrivare a finire tutti i lavori prima che scoppiasse la primavera. Io dovevo stargli dietro mentre potava le viti: trascinare i pali, portare i giunchi, svolgere i fili di ferro. E raccogliere i sarmenti, legarli in fascinette. Era faticoso andare e venire, arrampicarmi su per i terrazzoni con gli scarpini rotti che slittavano, diventavano pesanti per tutta la terra rossa pantanosa che s’attaccava sotto le suola di gomma. Per questo preferivo andarmene a piedi nudi finché per il gelo diventavano bluastri, mi dolevano tanto da farmi gemere. Ma non piangevo. Le lacrime che bagnavano le mie guance erano quelle delle viti.

Per gioco, con la punta delle dita raccoglievo le gocce che si formavano in cima ai tralci recisi, me le ponevo sugli occhi, le facevo rotolare sulle guance. Mio padre però credeva che quelle fossero lacrime vere e non si capacitava, sbraitava. Dopo mi ficcava la zappa in mano, una zappa che pesava più di me, e mi spingeva a sbrattare le erbacce perché sulle brevi terrazze dei dossi ripidi, arare non si poteva. Allora piangevo davvero e così mio padre poteva sghignazzare: - Tu alpino non lo diventerai mai! Ti ga le lagrime in scarsela!

I primi acini maturi del refosco erano tutti miei e di Toni. Quando alla domenica tornavamo dall’aver, incollati sul ghiaione della Valle delle Meraviglie, osservato come i fratelli Belci o l’Ernesto Nero scalavano gli spigoli delle torri, - loro avevano scarpine, corde, chiodi, moschettoni dal farci morire d’invidia, - o magari, se non c’era nessuno, dall’aver provato anche noi due, naturalmente scalzi, ad imitarli sui roccioni più ardui, - ogni domenica una fessura nuova, - ce ne andavamo quatti quatti lungo i filari, delicatamente sollevavamo le foglie, ne esaminavamo i grappoli e se scorgevamo un acino appena rossastro, lo ghermivamo tra pollice ed indice, ce lo ficcavamo in bocca. Era ancora acido, si capisce, ma ci pareva colmo di miele.

Poi, quando i roccioni delle montagne si annullavano nella bruma nebbiosa, finalmente arrivava la vendemmia. Certo era una gran festa ed io ne ero il re. Perché toccava a me pigiare l’uva nel tino, tutti quei grappoli turgidi, azzurrognoli, che le donne recidevano cantando. Mio padre ad un tratto m’agguantava, m’infilava nel tino come se fossi stato un fuscello, i pantaloni corti rotti sul culo legati alti con un doppio spago attorno alla vita: - Datti da fare, muoviti con quelle zate de galina!

Era proprio bello. Sentivo gli acini spappolarsi e l’odore dolciastro salire oltre il bordo dove mi tenevo aggrappato, le mani impiastricciate, incollate alle doghe del tino. Su e giù, col fiatone avanti e indietro, un infinito girotondo, tra il ronzare delle vespe e delle api, impazzite dai succhi dolci. Dal gran pigiare qualche volta mi mancava il fiato, ma continuavo imperterrito, le gambe tinte di rosso sino all’inguine, addirittura rosso anche il mio subiotin, che talvolta mi spuntava di lato, per lo sprizzare del mosto in quella scomposta danza delirante.

Il sole scotta sul tetto, lontano un falco ruota sopra le vecchie case ingrigite da tanta acqua e da tanto gelo. Chissà, forse per la commozione non riesco a distinguere bene la corona delle rocce bianche là in alto. Prima mia madre e poi mio padre, lui con il suo cappello con la penna nera ben calato in testa, sono finalmente finiti a riposare nella loro piccola porzione di terra. Ed io alpino non lo sono mai diventato perché, maledettissima ora e maledetti governanti, questo pezzo del nostro Carso non fa più parte della cara patria italiana...

Più tardi, quando scendo dal tetto m’incammino verso la Madonna della Traversa. Il cimiterino s’estende dietro. Le tombe di mamma e papà sono nella prima fila. Quella di Toni sul bordo, lungo il muro di cinta. Una piccola lapide bianca con al centro una foto sbiadita da tanto sole e da troppo ghiaccio lo vede ancora ridere, il ciuffo spettinato. La scritta si legge a stento:“Caduto nel fior degli anni, scalando il Guanto di Comici nella Valle delle Meraviglie”.

- Ciao Toni… - dico commosso. Due lacrime mi rigano le guance vizze. E mi sovviene di quella domenica quando, trascurata la messa, dopo una camminata di un’ora ce ne stavamo sdraiati sul ghiaione ad osservare come i Belci arrampicavano. Disse allora Toni sbattendo un pugno sulla ghiaia:

- Ti vedi, ti vedi mo? Noi sbagliemo tuto! Rampighemo tacadi ala rocia come le liserte. E lori? Varda! Lori col culo sempre in fora per tegnerse in equilibrio! Culo in fora e man ben fisse sui spuntoni!

 

Ed è stato con il culo in fuori appunto che qualche tempo dopo siamo arrivati, finalmente, a toccare la cima del Guanto, della Torre Grande, della Candela... Tutto in libera, eh!, senza imbragatura, senza moschettoni, con la vecchia corda, l’unico chiodo... Ai piedi i nostri vecchi scarpini legati con pezzi di spago.

Rimango in piedi, aggrappato alla piccola lapide. E ad un tratto rivedo la mosca appiccicata alle sue labbra secche, altre che succhiano il sangue raggrumato della ferita che gli impiastriccia i capelli arruffati. Piccolo pareva Toni, raggomitolato, come insaccato sotto la Torre Grande, un piede con le dita rosse di terra, l’altro con lo scarpin dalla suola sforacchiata.

- Ma perché quel sabato non hai aspettato che tornassi dalle medie, perchè hai voluto affrontare in solitaria quella pericolosa fessura che avevamo tante volte tentato assieme?

Esco lentamente dal cimitero. Quasi inconsciamente infilo il sentiero che porta su oltre i prati, oltre i casoni abbandonati, oltre la dorsale dove le quinte delle rocce sembrano quelle di un palcoscenico. Ansimo, sudato. Ogni tanto mi fermo per tirare il fiato con la scusa di meravigliarmi alla magnificenza di tutti quei fiori sbocciati tra l’erba lustra: anemoni bianchi, erba trinità, primule, fiori del cuco, farfaracci… E finalmente mi affaccio al vallone, su quella immensa sciabolata nel vuoto coi campanili bianchi che forano arditi la boscaglia. E la vedo subito, ma sì, la vedo la figuretta in cima al Guanto che agita le braccia e fischia come sapeva farlo solo lui, a lungo. Mi stringo le mani al petto, un attimo solo, poi urlo:

- Toni, Toni… Toni!

Forse è l’eco che mi risponde:

- Son qua, son qua, son qua!…

Agito anch’io le braccia, ma poi sono costretto a crollare in ginocchio sulla pietraia, come davanti ad un altare.