Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

Xii edizione - Arcade, 5 gennaio 2007

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

LA SALITA DI GIULIO

 

di Ottorino Lovadina

Spresiano

- Vado o non vado? Vado o non vado?

Ogni volta che arrivava il momento di partire, Giulio sapeva che la sua mente, pigra, sarebbe stata il primo ostacolo da superare, anche quella domenica non faceva eccezione.

Anche quel giorno, lei fuoriusciva dal sopore delle noiose giornate, cadenzate dall’ipnotica routine del lavoro, per provare a continuare a farlo stare steso nella melassa dell’abitudine, tanto cara agli sfaticati e ai paurosi.

La sua mente indolente protestava:

- No, non andare! Ma chi te lo fa fare? Si sta così bene qua stesi sul divano!

Per fortuna Giulio aveva imparato a gestire quei peana tentanti all’ozio: sapeva che in quel tipo di sfide non si doveva ascoltare altro che l’istinto. La parte più vera di se stessi, già dalla partenza.

Così, con lo sguardo torvo e basso, come il suo ultimo umore, rispondeva dentro di sé:

- Non m’interessa il divano.

Ora parlava il suo cuore:

- un impegno e la fatica mi daranno un senso di piacere a cui non voglio rinunciare.

E partiva. Solo.

- Sarà folle - si diceva nell’aria sottile del primo mattino - ma guardare da qui, la vetta di quella montagna così lontana, mi impressiona sempre.

- Io fin lassù? Arrivare là sopra in bicicletta con le mie gambe… sui miei pedali? Io!?

Ogni volta, ogni volta gli sembrava incredibile. Si che c’era già stato, in cima a quella montagna in un’altra mattina assolata. Che giornata quella!... Si ricordava:

Estate. Domenica. Anche quel giorno era domenica.

Aveva visto un puntino più su, sulla strada davanti a lui. Rincorrerlo sembrava più facile a dirsi che a farsi.

Aumentò l’andatura. Sforzandosi di raggiungerlo.

Ci provò quel giorno, quella mattina di sole, la prima volta che scalò il monte.

Dove la strada ordinava, in filari prodighi d’ombra, i primi alberi del bosco, lo perse di vista.

- Ora torna a pedalare - si disse - col tuo ritmo e con la tua misura, o la montagna ti ricaccerà indietro. Non bisogna mancarle di rispetto. Mai. Neanche se la si scala sui pedali e sull’asfalto. Aveva perso uno zio, Giulio, su quella montagna. Morto sfracellato: lo zio Sergio. Precipitato dalla parete nord. Non per mancanza di rispetto alla montagna da parte dello zio, ma da parte di quelli che erano con lui. Gliel’avevano “ucciso”. L’unico riferimento maschile in famiglia, dopo l’incomprensibile sparizione di suo padre alla sua nascita.

A nulla erano valse le mille argomentazioni della mamma, per spiegare a quel bambino, come sopportare le notti d’angoscia passate ad ascoltare l’eco dei suoi singhiozzi di disperazione, nel vuoto lasciato da quella fuga.

Per dirgli che non era stata colpa sua.

In un nobile slancio di responsabilità verso la sorella, la luminosa, rara, spontanea umanità dello zio Sergio si sostituì a quel tempo oscuro. Diventando, per un bambino già impaurito dalla vita, un rassicurante fuoco ardente di luce paterna.

Fino alla tragedia. Per colpa degli altri.

Così andava via da solo, Giulio.

Aveva deciso: certe cose preferiva farle in solitudine.

Non che fosse pericoloso come scalare con corde e ramponi una parete, ma la paura di affidarsi a qualcun altro, anche solo per pochi giri di catena, gli era entrata nelle ossa e la sentiva anche nella vita.

La morte dello zio, l’aveva segnato quando era ancora poco più di un ragazzo. Da uomo, un’altra perdita: la fiducia nell’amore.

I suoi sentimenti ingannati e feriti da frane di rocce taglienti, cadute sul suo cuore innamorato, sanguinavano ancora; e il peso di quei detriti impietosi continuava a soffocarlo.

- Mai più, mai più! - si era ripromesso, per fermare quei battiti di dolore.

Ora era lì. Su quel pendio a giocare con la forza di gravità. Solo.

Il caldo s’era fatto ospite anche tra le verdi fronde che accompagnavano la salita, e dettava nuove regole a quella umana sfida alla cima, aggiungendosi alle già notevoli difficoltà: il misto di sudore e dolore ai muscoli, gli occhi che bruciavano, l’acqua che non toglieva mai la sete per quanto la borraccia fosse generosa. La salita che non finiva mai.

- Calma Giulio, calma. Con la tua misura.

Le maree dei dubbi e dei perché montavano ad ogni tornante, nella sua mente:

- Non finisce più! Ma chi me lo fa fare? Senti che male: la schiena, il collo. Il fiato che non basta…

La sua anima di scalatore metteva a tacere quelle “male grida”. La purezza del suo impegno non ammetteva ripensamenti.

Il mito e la conquista.

La fuga e la consolazione.

Migliaia di centimetri si seguivano l’uno dopo l’altro, a misurare la storia di chi faceva quella strada.

Metrica per il paragone di ogni sospiro e speranza, era la vetta.

Come nell’Esistenza.

La solitaria, caparbia, irrinunciabile spinta sulle pedivelle, era l’unica difesa che Giulio disponeva sulle mura del suo intimo castello assediato dalla fatica. La ritmica altalenante che prendeva il suo corpo, nello sforzo supremo, al passaggio sulle rampe più inclinate, dondolando da un lato all’altro della strada, sembrava fosse il movimento ultimo di chi si nega a tutti i costi la resa.

- Devo farcela. Devo arrivare in cima anche oggi.

Ma non tutti i giorni sono uguali. Non tutti i giorni si riesce ad essere pronti agli impegni da assolvere che arrivano a pesare sulla nostra giornata da vivere: serve qualcos’altro. Giulio lo sapeva.

Lo zio Sergio gliel’aveva insegnato:

“Giulio, quando sei a tu per tu con la montagna, con una parete, con una salita, non devi mai affrontarla senza prima aver collegato la tua passione ai muscoli ed al cervello. Mai. O la montagna ti ricaccerà indietro. Si sale, o si scende, di cuore, non di forza da una vetta. Il fisico ha dei limiti, il tuo spirito farà il resto.”

Si ricordava… e teneva duro.

Come quel giorno, la prima volta che era arrivato in vetta.

Non c’era molto spazio in cima, le montagne si sa non amano troppa gente con i piedi sulla loro testa, e così fanno in modo che ce ne stia poca. Il cielo era azzurro e bianco di nuvole quel dì e le folate impetuose di un vento caldo, ma molto forte, accoglievano i vittoriosi sfidanti. C’era solo un’altra persona. Una ragazza. Il puntino che aveva provato a rincorrere. Riversa a terra, immobile.

 

All’ultima pedalata un’imprudenza. Complice il calore di quella estate africana, sfinita per la scalata, disidratata e intontita nei riflessi, in cerca di sollievo s’era tolta il casco. Il vento fece il resto. La buttò giù. I ganci dei pedali della sua bicicletta da corsa la imprigionarono in una immobilità senza scampo e i ricci della sua giovane testa conobbero l’asfalto. Un istante solo passò, e un esito tragico a quella vista scese come un brivido freddo lungo la schiena di Giulio.

Pronto a saltare giù di sella, fermò il panico con due, tre sospiri, chinandosi su quel volto con gli occhi chiusi, torto in una smorfia di sorpresa:

- Si è accorta che batteva la testa e non se l’aspettava - pensò. Quanto incredibile e imprevista è la vita. Sull’asfalto, tra i riccioli e la bellezza di quel volto spento, un rivolo di sangue scuro colava a valle, come ad indicare la via del ritorno. La fissò per un istante.

Giulio non sapeva cosa fare.

Gridare aiuto era inutile: sarebbe stato un miracolo trovare qualcun altro su quella montagna fuori dei canonici itinerari dei turisti. La sapienza tecnologica non bastava: il cellulare non aveva sostegno in quella zona, se non più a valle. - Che fare? Il gelo della disperazione, si stava sostituendo ai caldi raggi del sole. Un accenno di movimento calamitò tutta la sua attenzione. Lei si stava svegliando.

- Ehi! Come va? - si sentì insulso e impotente, pronunciando quelle parole. Ma il sorriso di lei lo rincuorò. Per un attimo.

- Non ci vedo più.

Lo spasmo tra le scapole e il groppo in gola, furono le cose che, a quella affermazione, si impressero di più nella memoria di Giulio, quel giorno.

- Portami giù.

- Cosa?! - un misto di sorpresa, rabbia e incredulità, si riversò fuori dalla sua bocca.

- Ma cosa dici? Hai battuto la testa! Non ci vedi. Potresti avere delle lesioni gravi, non ti posso muovere. È rischioso.

- Lo sai anche tu: qua non arriverà nessuno, e non voglio che mi lasci da sola. Se anche tu scendessi a valle, prima di trovare qualcuno che venga su ad aiutarmi, potrei essere già morta. Meglio rischiare. Sento le braccia e le gambe, e questo è un buon segno. A me non serve altro.

 

La risolutezza di quella donna, il suo lucido, quasi meschino ragionamento lo fece trasalire. - Come dargli torto? - si disse - Coraggio ne ha da vendere questa persona: sta rischiando la vita per salvarsi… la vita.

Dopo tantissimo tempo, gli occhi di Giulio si chiesero quanto poco vedessero, seppur in buona salute.

- Come ti chiami?

- Giulio.

- Io mi chiamo Marika.

Il timbro della voce di lei era forte e deciso. Non tradiva nessuna incertezza.

- Carattere limpido - pensò Giulio e si accorse quanto l’appassionato dialogo sportivo, tenuto da tempo con la montagna, avesse contribuito a scolpire nel fisico atletico, certo bello sotto le vesti colorate e aderenti, e nello spirito quella giovane donna decisa.

Un rispetto sacrale dinnanzi a quella visione si infuse in lui. Scacciò tutti i dubbi e le paure in un ritrovato impeto di orgogliosa fiducia in sé stesso e con cura la fece alzare.

Guidando i suoi movimenti lenti e annaspanti nel vuoto di quel suo buio, la fece sedere in qualche maniera, tra la sella e il manubrio della sua bici.

- Ora proviamo a scendere. Va bene?

- Va bene. Mi fido di te.

- Mi fido di te…

A quel suono, il cuore di Giulio riprese a battere. Dopo anni.

Non lo sentì nessuno, ma scendendo ad ogni tornante chiamò lo zio ad aiutarlo; per fare la curva senza danni, per non cadere.

Portando rispetto alla montagna.

Non doveva tradire la fiducia di Marika.

- Calma Giulio, calma. Col tuo ritmo.

Se fosse stata vista da lontano, ad ignari spettatori la scena sarebbe parsa d’altri tempi: il giovinotto baldanzoso che portava, per farla ammirare, la sua bella al paese.

La montagna li lasciò andare. Li fece scendere benevola, fino a valle, dove Marika fu soccorsa da medici bravi e pazienti nell’ascoltare le confuse spiegazioni dell’accaduto; tra i singhiozzi di una tensione ormai incontenibile di Giulio e i grazie accarezzati sul suo volto, dalle mani di lei, quasi a cercare di riconoscerne i lineamenti.

La vicinanza dell’ospedale alla casa di Giulio, fece il resto.

“Commozione cerebrale con cecità post-traumatica transitoria”.

Parole complicate per un epilogo fortunatamente semplice.

Semplice e inaspettato.

Con un ritmo e una misura.

Domenica.

Quella mattina, l’ultima pedalata, Giulio la fece con le lacrime.

Quando fu in cima, guardò un posto ancora più in alto: in uno sfondo azzurrissimo, le bianche nuvole presenti si aprirono come fossero tendaggi di una finestra divina, affacciata su quel paesaggio, o come, il sipario di un loggione riservato ad un ospite d’onore, nel grande teatro della vita, invitato ad onorare con la sua presenza la bravura dell’attore.

In un silenzio che solo le vette sanno dare, una folata di vento caldo sembrò salutare il suo arrivo.

- È nato mio figlio…

I suoi capelli ondeggiarono ad un nuovo puntuale e forse ancora più caldo alito della montagna. Con un cenno quasi impercettibile, Giulio parve rispondere istintivamente a quel soffio d’aria.

Senza saper distinguere tra le labbra, il sapore del sudore dal pianto, continuò a fissare il cielo.

- Sergio.

Quanto incredibile e imprevista è la vita.

La montagna lo lasciò andare: si porta rispetto a chi rispetta la montagna.

Ad ogni tornante, la presenza di quel vento dolce e caldo, lo aiutò a scendere. Di cuore.

Con fiducia, verso casa. Verso Marika e Sergio.