Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco Xii edizione - Arcade, 5 gennaio 2007 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
SEGNALATO |
SOPRAVVIVENZA
di Vincenzo Dobelli Bergamo |
Sapete cosa è un’ “opera”? Il termine, sfrondato dei riferimenti lirici, è attribuito nel linguaggio militare alle costruzioni di fortificazione permanente realizzate lungo i confini nazionali per opporre all’ipotetico invasore un primo baluardo di resistenza. La struttura, presidiata da un plotone di “alpini d’arresto”, è articolata su postazioni di armi, magazzini, dormitori e altri angusti locali uniti fra loro da stretti cunicoli. Il tutto ben celato sotto il livello del suolo e progettato all’insegna della più ricercata scomodità. Diverse opere in sistema formano uno “sbarramento”, devoluto al controllo del fondo di una vallata e ricavato su posizioni dominanti, incastonate fra rocce impervie e boschi impenetrabili. I reparti specializzati ad agire nel settore, accasermati a conveniente distanza, vengono inviati periodicamente a trascorrere nelle opere qualche settimana, per spolverare l’efficienza operativa, svezzare le reclute, mantenere a livello l’apparato difensivo e dividere con le talpe le voluttà della vita sotterranea. In tempo di pace è concesso di fruire, all’aria aperta, di un accampamento “di conforto” dove svolgere le attività quotidiane limitando la permanenza all’interno degli inospitali fortini alle ore notturne e ai periodi di addestramento. In tempo di guerra si vive sepolti per 24 ore al giorno. Esaurito il preambolo tecnico, dovuto a chi non sia del mestiere, passiamo ai fatti, raccolti sfogliando un album di ricordi risalenti ad una cinquantina di anni fa’, quando la funzione delle opere era ancora attuale e lo sbarramento assegnato alla compagnia da me comandata era uno dei più esposti, a ridosso della frontiera nord orientale. È una domenica di ordinaria ricorrenza, la terza da quando abbiamo raggiunto le posizioni operative per trascorrervi il mese dedicato al “campo estivo”. Mentre rotolo giù dalla branda, le travi consunte dello spartano giaciglio gemono in sincronia con le mie giunture, messe a dura prova dall’umidità endemica presente nella caverna artificiale in cui sto consumando notti sempre meno salutari. Esco all’aperto stiracchiandomi e mi guardo intorno per offrire a madre natura il primo omaggio della giornata. L’aria è tersa e un sole in vena di strafare irradia dardi di fuoco sulle guglie dolomitiche che si stagliano nell’azzurro e incidono la seta del cielo con le lame affilate delle loro pareti. Più sotto, rilievi tondeggianti creano una piacevole disarmonia opponendo alla ferrea durezza delle rocce il verde chiaro dei pascoli e il candore dei cascinali dispersi sui colli. Il mondo che mi circonda è avvolto in un manto di silenzio, interrotto soltanto dai campanacci di una mandria che diffondono, in lontananza, melodie d’altri tempi. Sui prati, dove la falce non è ancora passata, l’erba, abbassandosi e rialzandosi alla carezza del vento, crea l’effetto dell’onda di mare. Ai miei piedi, le margherite selvatiche punteggiano il prato di macchioline vivaci mentre il rosseggiare delle campanule e il giallo dei ranuncoli lo arricchiscono di contrasti deliziosi donandogli la policromia di un tappeto orientale. Sulle corolle più profumate, api e farfalle si avvicendano nei loro riti mattutini mentre, all’ombra dei trifogli, i grilli accordano gli strumenti per provare le sinfonie che eseguiranno al tramonto. Le foglie dei faggi sembrano fatte di luce e intrecciano i loro barbagli con il cinguettio degli uccelli, convenuti in moltitudine per dedicare nuovi gorgheggi ad antiche melodie. In fondo alla valle, il fiume scintilla snodandosi come un serpente argentato. Una visione di pace, spettacolo confortante per chi deve dedicare la propria attività di lavoro a programmi di guerra. Chiuso il preludio romantico, raggiungo il centro dell’area di conforto dove, in un’amena radura, ho sistemato il nucleo vitale dell’accampamento. Approfitterò della mattinata festiva per ravvivare il feeling con la truppa, favorire la socializzazione all’interno del reparto e cementare l’affiatamento che desidero mi leghi ai soldati, senza eccesso di famigliarità ma anche senza troppi vincoli protocollari. L’obiettivo non mi costa fatica dal momento che la fierezza di portare la penna nera è per tutti i miei marmittoni un sentimento automatico e la coesione spirituale all’interno dell’unità, favorita dal reclutamento specifico e dalla peculiarità del reparto, non ha bisogno di sollecitazioni. La compagnia è schierata in attesa della distribuzione del caffè. Oggi siamo liberi dall’addestramento e fra i soldati spumeggia il buonumore. Concluso il sermone di rito, passo alla battuta finale il cui copione prevede un mio intervento mirato all’indirizzo di un “bocia” assegnato al reparto con l’ultimo contingente. La richiesta è stata fatta dal gruppo dei “veci” la cui alleanza mi è di valido ausilio nel sostenere il morale delle truppe. Da alcuni giorni il nuovo arrivato è sotto controllo perché sta palesando strane eccentricità e la proposta che ho ricevuto è quella di metterlo in imbarazzo di fronte a tutti, allo scopo di favorire una parentesi di sana allegria. L’incriminato è un ragazzotto tarchiato e robusto, aria sveglia, polpacci d’acciaio. Viene dalla Val Camonica dove, nella vita civile, fa il mandriano, impegnato per la maggior parte dell’anno nel controllo delle mucche in alpeggio. Soltanto lui non è mai stanco, nemmeno dopo la marcia in montagna che affrontiamo ogni giovedì per sgranchirci le gambe. Per questo, al campo mostra di trovarsi a suo agio più che in caserma, soprattutto quando trova l’occasione di sfruttare le risorse naturali per colmare le sue insaziabili esigenze alimentari. I compagni lo guardano con curiosa simpatia e lo hanno battezzato “il Mostro”. In qualunque reparto si trovano sempre elementi caratteristici destinati ad emergere ed il porre in risalto la loro personalità, sia in positivo che in negativo, può essere utile al comandante per approfondire la conoscenza umana, stimolare l’impegno corale del gruppo e rinsaldare lo spirito di corpo. “Mi è giunta notizia che uno di voi mangia le rane vive ma non ci credo”. Il sasso è lanciato. Nel silenzio generale, rotto soltanto da risatine soffocate e irrefrenabili mormorii, il lampo di luce che accende gli occhi del Mostro e ne arroventa le guance mi fa capire che la freccia ha raggiunto il bersaglio. Lo invito ad uscire dai ranghi e a fermarsi davanti a me, di fronte ai commilitoni. “Allora sei proprio tu. È vero o non è vero? Aspettiamo una prova”. L’esibizione, predisposta a cura degli anziani, ha inizio immediato. Il ragazzo mi si avvicina con il braccio teso e il pugno serrato su qualcosa di mobile e vivace, poi apre leggermente le dita e mostra agli spettatori una raganella irrequieta. L’animaletto agita, fra l’indice e il pollice del suo aguzzino, due occhietti neri che spiccano sulla testolina triangolare. Il soldato lo stringe con rozza delicatezza e lo guarda esprimendo un sentimento misto di passione e avidità. All’improvviso porta la mano alla bocca e il piccolo batrace scompare fra le fauci lasciando, per qualche attimo, al di fuori delle labbra, una zampetta che si dibatte convulsamente. Uno scricchiolio, prolungato per pochi interminabili secondi, indica che il delitto è consumato. Dopo aver deglutito con un rigurgito sordo, mentre le sue pupille si velano di quell’umore lacrimale che ha reso proverbiale la digestione del coccodrillo, il vorace camuno si guarda intorno, fiero di aver suscitato, in un numero tanto elevato di spettatori e addirittura nel comandante di compagnia, stupore ed impressione. Nella sua genuina spontaneità, il giovane cannibale è inconsapevole di aver ferito le nostre viscere nei meandri più profondi. “Le femmine sono più gustose perché hanno dentro le uova”, esclama con accento cattedratico mentre con la punta della lingua va alla ricerca, fra gli interstizi dei denti, di eventuali residui del pregiato contorno che ha appena magnificato. “I rospi sono più saporiti delle rane, però devono essere molto giovani, quando sono grossi hanno la pelle dura e le ossa sono difficili da spezzare”.
Con queste precisazioni che portano al culmine lo stato ansioso degli astanti, ha termine la succinta ma incisiva dissertazione sulle qualità gastronomiche degli anfibi anuri. Lo liquido con un rimprovero bonario dopo averlo invitato a non ripetere più quel ripugnante massacro, almeno davanti a me. Terminato lo spettacolo, mi siedo davanti alla tenda per assolvere i doveri burocratici quotidiani confortato dagli aromi silvestri. Poi, visto che rimangono un paio d’ore da ingannare prima dell’appuntamento che il comandante di battaglione mi ha dato per mezzogiorno sulla piazza del paesello sottostante, decido di fare quattro passi lungo il corso superiore del torrente che, lambendo il margine dell’accampamento, ci assicura l’approvvigionamento idrico. Per uscire dalla zona cintata devo passare davanti alla cucina dove, fra nuvole di fumo e vapore, con un cappello bianco tempestato di impronte digitali di ben altro colore, lo “chef” di turno è al lavoro per preparare i manicaretti del giorno di festa. Un tramestio attira la mia attenzione: al centro di un gruppo assiepato di fronte ai fornelli, il Mostro ha di nuovo polarizzato l’attenzione dei compagni. Questa volta l’estroso buongustaio ha raccolto un nido con tre neonati di fringuello, lo ha rovesciato sulla piastra bollente e dopo una sommaria cottura ha trasferito le piccole creature bruciacchiate fra due fette di pane per consumare la macabra merenda sconcertando i presenti. Lo chiamo con l’intenzione di redarguirlo ma mi infila in contropiede. “Lei oggi a tavola, signor capitano, troverà un arrosto di vitello, l’ho saputo dal cuoco. Ha mai visto come fanno ad ammazzare quelle povere bestie? Io si: legano l’animale per il collo, gli aprono la gola e lo lasciano morire dissanguato per ottenere una carne più bianca. Pensi che sofferenza! Le mie rane e i miei uccellini non hanno nemmeno il tempo di accorgersene”. Logica ed etica non fanno una grinza. Mi allontano in silenzio. Raggiunto il torrente, ne inizio la risalita saltando fra dossi fioriti, cunette detritiche, ginepri pungenti e gradoni naturali che mi offrono un divertente labirinto di facili acrobazie. Al culmine di un roccione ingentilito da una collana di rododendri, aggrappandomi al pretesto di ammirare la natura, mi fermo per riprendere fiato. All’orizzonte, creste frastagliate e torri emergenti si alternano a falesie levigate offrendo allo sguardo spunti architettonici degni di una cattedrale gotica. Al mio fianco, l’acqua scorre veloce mormorando allegri ritornelli fra i ciottoli che, cercando invano di trattenerla, ne moltiplicano il luccichio fra gorghi oscuri e candidi ricami di schiuma. All’intorno, sassi scolpiti dal vento, graffiti disegnati dalle intemperie e cuscini intarsiati di erica creano un caleidoscopio di forme bizzarre arricchite di fascino dai giochi di chiaroscuro che ne accentuano la bellezza. Più in alto, una piccola cascata dà vita, con i favori di un masso arrotondato, ad un ventaglio luminoso che, incurante del tempo che passa, descrive nell’azzurro del cielo ghirigori sempre uguali con gocce sempre diverse. Accolgo con piacere il suo invito alla meditazione filosofica e abbandono il pensiero a spaziare dal ciclo della vita umana ai ricorsi della storia o, per restare nell’ambito professionale, all’avvicendarsi degli scaglioni alle armi. Tornato alla realtà, mi rimetto in marcia e, al di là del macigno, un’ansa defilata mi riserva una nuova sorpresa: un soldato giace prono sulla sponda con le braccia immerse fino alle spalle e il naso a pelo di superficie, immobile come una statua, in una posizione impensabile anche per lo scultore più spregiudicato. Incuriosito, mi fermo ad osservarlo. Il ragazzo non muove una sola cellula del suo corpo. Mi avvicino per vedere se sia vivo o morto. Senza scomporsi né alzare gli occhi, risponde alla mia tacita interrogazione: “sto prendendo un po’ di pesce, signor capitano. Ci sono trote bellissime in questa pozza”. “Non vedo la lenza”. “Non serve, adopero il coltello”. “Dovresti sapere che… il galateo lo proibisce”. “Si, signore, ma forse... in campagna si può chiudere un occhio”. “E l’esca ?“
“Mi arrangio anche senza. Ho provato con le gallette della Sussistenza ma odorano di naftalina e ottengono l’effetto contrario”. Mi fermo per attendere una prova concreta della sua abilità. Qualche minuto più tardi, l’eccentrico pugnalatore, dopo aver eseguito uno scatto con i muscoli delle spalle, ritrae le braccia dall’acqua e mostra con orgoglio la preda trafitta che si dibatte sulla lama lucente. Stupito, gli auguro di colmare il carniere prima dell’adunata per il rancio alla quale deve guardarsi bene dal giungere in ritardo e riprendo a salire. Quando sono prossimo alla testata della valletta, ricordo che la squadra marconisti mi aveva chiesto di recarsi in quella zona per effettuare alcune prove di collegamento. Non sarà male dare un’occhiata: quando un caporale e quattro soldati, prossimi al congedo, sollecitano, in giornata festiva, una missione isolata, hanno sicuramente qualcosa da nascondere. Infatti, nei pressi di una seconda pozza più ampia della prima, trovo il quintetto che, non prevedendo visite, sta svolgendo attività meno protocollari di quelle prescritte. I componenti la squadra sono al lavoro, in perfetto amalgama operativo, proprio come richiede lo spirito di cooperazione che deve animare un reparto organico, anche di minuscola consistenza. Il basamento della radio, capovolto e collocato su due pali di legno, è divenuto l’appoggio per una tavola imbandita dove, sul telo destinato a proteggere gli accessori dell’apparecchio, trasformato in tovaglia, sono sistemati piatti e bicchieri di carta. A lato, un fuocherello vivace crepita allegramente e, sopra di esso, l’antenna a stilo della stazione, devoluta alla funzione di spiedo, sostiene una coppia di pesci che rosolano sopra la brace. Più in là, sulla riva del torrente, il caporale sta ritto sopra un tronco abbattuto, con le mani sui fianchi, il cappello di traverso e l’atteggiamento di un capocantiere al culmine della carriera. Sotto di lui, il primo soldato punta verso la superficie dell’acqua un bastone sulla cui cima è annodata una reticella fatta con giunchi intrecciati. Più a monte, il secondo uomo sta manovrando il generatore manuale che le norme di impiego dell’apparato vorrebbero destinato ad alimentare la stazione in mancanza delle batterie e non la… corrente del ruscello. All’ombra di un cirmolo, il terzo alpino sta affettando una pagnotta con la baionetta. Infine, accanto alla radio adagiata su due ceppi, il marconista di turno, seduto a mezza via fra la stazione e il braciere, con la mano sinistra muove la manopola di sintonia per evitare problemi di coscienza e con la destra fa ruotare lo spiedo per prevenire indesiderabili bruciature. Quando l’eclettico manovratore si accorge del mio arrivo fa un salto da primato olimpico. “Vedo che l’antenna… gira sulla frequenza giusta”, dico per rompere il ghiaccio e toglierlo dall’imbarazzo. “Si, signore”, risponde il ragazzo inghiottendo saliva ma mostrandosi pronto nei riflessi, “ancora una decina di… chilocicli e saranno cotte. Saremo lieti di offrirle un assaggio, le nostre trote sono di prima qualità”. “Non scherzare troppo col fuoco, potresti scottarti”. Senza fermarmi mi sposto verso il torrente dove nessuno degli altri quattro si è accorto della mia presenza, tanto sono assorti nella loro febbrile attività e mi trovo sul posto al tempo giusto per assistere alla folgorazione di una seconda coppia di pesci. La mia intrusione produce un altro sussulto, questa volta collettivo, e il repentino arrossamento di otto guance che, all’unisono, raggiungono l’incandescenza. “Dovrei denunciarvi per uso improprio di attrezzature militari, insubordinazione, esercizio di pesca in luogo riservato e impiego di mezzi non consentiti. Ce n’è abbastanza per spedirvi al fresco”. Sulle quattro facce al porpora vivace subentra il bianco terreo. L’intenzione di spaventarli un po’ ha avuto successo. Per concludere, invito la squadra a raccogliere immediatamente armi e bagagli e sparire di corsa. Poi, lasciando spazio al sorriso che mi preme le labbra, soggiungo“… e non dimenticate le trote”.
Al rientro trovo un’altra sorpresa. Da qualche giorno l’accampamento aveva un “effettivo” in più: un corvo di montagna. Esemplare superbo, robusto come una roccia, nero come la notte. L’uccello, catturato da una pattuglia in ricognizione, era stato sistemato in una gabbia costruita a tempo di record e appesa al ramo di un abete davanti alla tenda del magazzino. Il gracidante inquilino era divenuto la mascotte della compagnia e la sua dimora pensile era meta di pellegrinaggio incessante. L’alato ospite, amato e rispettato dalla maggioranza, era qualche volta stuzzicato da alcuni, per ignoranza o cattiveria. Succede in tutte le comunità. Avvicinandomi all’albero noto che la gabbia è vuota e qualche piuma dispersa sul fondo testimonia una presenza che ha cessato di esistere da poco. Da un crocchio dove è in corso un’accesa discussione, si stacca un caporale che, accigliato e rosso in viso, viene a comunicarmi il risultato di un’indagine già conclusa:“signor capitano, il Mostro ha mangiato il corvo!“ Il referto è tanto conciso quanto sinistro, il silenzio che segue sepolcrale. Tutti gli occhi sono puntati su di me. Solo due mancano all’appello: quelli dell’imputato, rivolti al suolo e ben nascosti sotto la tesa del cappello. “Vieni subito qui!” La visiera si alza e mette allo scoperto un volto infiammato dall’imbarazzo ma anche da un’irritazione mal contenuta. Il rude valligiano mi guarda con cipiglio e, precedendo l’interrogatorio, sbotta:“non sopporto che si facciano dispetti agli animali. Si, l’ho mangiato, così finalmente lo lasceranno in pace”. Il mio intervento questa volta è severo. Per concludere la mattinata mi resta l’incontro con il comandante, per quello che lui ama definire “aperitivo di lavoro”, da consumare al bar del paesello con lo scambio di informazioni da parte mia e raccomandazioni da parte sua. Essendo già tardi, mi precipito a valle per la via più diretta. Giunto al termine della discesa, mi fermo per un veloce riassetto dell’uniforme e mi volto per osservare lo sbarramento dall’unico punto che ne favorisce un’inquadratura completa. Il mascheramento è perfetto. Solo l’occhio del padrone riesce a scorgere le volate delle bocche da fuoco che fanno capolino fra le macchie di mugo. La roccaforte appare tanto inespugnabile quanto isolata. Mi concedo una pausa di riflessione. In caso di guerra, io e i miei soldati saremmo imprigionati là dentro per impedire al nemico di penetrare lungo la valle. Soli con noi stessi, per una resistenza ad oltranza. La posizione si mostra inaccessibile ma può essere accerchiata e il rischio di restare “tagliati fuori” è notevole con la conseguenza di dover affrontare, in caso di soggiorno prolungato, gravi problemi di rifornimento. Una cosa è sicura: se, per fatalità della sorte, consumate le gallette ed esaurite le trote, la fame dovesse sostituirsi al nemico, l’alpino della Val Camonica potrebbe risultare alla fine l’unico sopravvissuto. Un brivido mi percorre la schiena. Guardo l’orologio e mi accorgo che il ritardo è divenuto incolmabile. “Chiedo scusa, signor colonnello, sono stato trattenuto all’accampamento perché uno dei miei soldati ha mangiato un corvo”. Potrò presentarmi al comandante con questa giustificazione? Un antico pensatore affermava che quando la verità non è credibile il ricorso alla bugia diplomatica diviene legittimo. Ieri lo contestavo, oggi devo dargli ragione. |