Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XII edizione - Arcade, 5 gennaio 2007

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

Rosa d'Argento"Manilla Bosi: sposa, madre e sorella di Alpini"

A LEI NON PIACE IL MARE

 

di Rita Mazzon

Padova

A lei non piace il mare.

Piatto, senza fragore di onde, si trastulla in qualche increspatura per poi farsi lisciare dalla sabbia.

Lei cammina come ogni mattina sul confine che divide l’acqua dalla spiaggia.

Lascia sprofondare il piede per stampare la sua orma.

Vuole imprimere qualcosa di sé, che rimanga un’ora o forse un attimo ancora. Risucchiato dall’onda fresca il disegno del suo passo scivola in qualche ricordo lontano.

I ricordi sono conservati negli abissi giù in fondo, dentro le grotte della memoria?

A lei non piace il mare.

I ricordi sono macigni di montagna, non spuma di onda.

Quanti anni sono passati?

Cesti di fiori, sassi di dolore.

La vita ha più volte rotto gli argini e s’è fatta pianto.

Ora però sta là distesa.

Lei abita in un paese sul mare a stemperare la sofferenza in quella superficie piatta.

Il mare calmo però mente al suo animo in tempesta.

A lei non piace il mare.

Ossessionata da questa frase, si sgretola ogni giorno la sua voglia di andare avanti e ricominciare.

E sì che il paese di montagna in cui è nata le ha dato solo rinuncia e fame.

Lo sguardo si perde, si allunga oltrepassando i tetti delle case.

Tutto quello che fa da barriera alla sua vista diventa trasparente.

Lei vede la sua cara montagna sbiancarsi nella vetta.

Anche sulla spiaggia, di là da tutta quella massa d’acqua, ombre scure ondulano la linea retta dell’orizzonte.

Monti sinuosi, mammelle lontane che spruzzano il cielo di lattee striature di nuvole bianche.

Lontano, troppo lontano offuscato dalla vecchiaia si amalgama il corpo stanco alla marea della rassegnazione, che esplode ancora in quella frase: “Io odio il mare!”

Scarponi chiusi nella scatola, puliti con il grasso, stracolmi di giornali appallottolati. Una pagina, una pallina, un giorno.

Pigiati, nascosti nello scaffale al buio in cantina.

Tanto non li avrebbe più usati.

A mala pena riesce a percorrere strade piane, senza salite.

Le arrampicate al rifugio ed il contatto fisico con il suo Dio sono solo visioni da raccogliere in un album antico di foto che non avrebbe più scattato.

“Dio abita il cielo. Se io mi inerpico sui sentieri, se arrivo alla cima della montagna, se fatico, se sento il respiro che si affanna, se le gambe tremano per lo sforzo, se… Lo so che Lui mi ascolterà quando mi siederò sul masso, vicino alla croce di ferro. Lo so che Lui guarderà questa piccola fragile madre indifesa.”

Così quando se ne torna dalla passeggiata del mattino ripercorre le sue salite nelle foto vecchie in bianco e nero.

Le ombre e le luci sono ancora vive e lei prega il suo Dio di non lasciarla sola.

Colpi di granata sull’altopiano.

Freddo di grandine che picchia la pelle e sferza la speranza.

Cento mille volte bussa quel giorno ad aprire il suo dolore.

E non si può più uscire quando lui entra dentro.

La foto di suo figlio le sorride.

Sorriso incorniciato da argento freddo.

La mano passa lieve sul vetro per scaldare con una carezza i lineamenti giovani che non avranno mai rughe.

Bello, dolce, con quella piega sull’orlo delle labbra. Smorfia di presentimento, o gesto di insofferenza?

A lui non piaceva mettersi in posa.

Lui correva per i campi, si infangava nei torrenti, si feriva sui costoni, per mettersi alla prova e confrontarsi.

Ora era là chiuso in un quadrato di carta stampata.

“Dove stanno le anime, Buon Dio?

Dove stanno?”

Frastuono di spari.

Fuoco che spacca e brucia i respiri.

Ragazzi su nei monti.

Accovacciati tra i rovi, chinati contro un nemico che non si conosce.

Che cos’è un nemico? Un’ombra.

Ombre da spararci da lontano.

Da specchiarsi nel lago alpino.

Visi che sono il mio, il tuo, che si confondono tra le pieghe dell’acqua, senza differenze.

Uomo contro uomo.

Spiriti che vagano sotto uno stesso cielo, sotto un grande ed uguale Dio.

Eppure quel figlio si era spaccato ed era diventato pezzo di monte.

I sogni di ragazzo divorati da uno sparo.

Un colpo durato un istante.

Venti anni squarciati,estirpati via!

Anche se era passato il tempo in cui le parole erano appesantite dal pianto e le lacrime congelate negli occhi, lei lo cerca ancora adesso. Non una tomba, un corpo su cui piangere ed accarezzare per un ultimo saluto di madre. Quel figlio si era fatto roccia, si era fatto fiore. Lei si era arrampicata fin lassù dove le avevano indicato il luogo in cui tutto era successo. Quante ore a chiedere ai rododendri, ai pini, ai sentieri, un segno. Frusciavano i rami in parole sussurrate nell’orecchio: “Sono qui, mamma, sono qui! Non piangere! Sto bene!” Ma lei non voleva bisbigli di foglie, voleva un corpo forte da abbracciare, da cullare, come quando lo teneva da bambino. “Dormi mio piccolo, dormi. Qui tranquillo, perché nessuno ti potrà mai far del male.” Un pensiero sottile in lama che ferisce, tiene sveglia e si insinua a fior di pelle. “Se non si trova il corpo, mio figlio è ancora vivo!” Tutte le volte che sentiva bussare: era lui!. Lui che ritornava.

 

Quando camminava tra la gente sentiva la sua voce e si voltava. Toccava le spalle ai giovani estranei al suo martirio e le si sbiancava il volto come sempre.

La casa piena di crepe e di ricordi crepitava.

Bugie per chetare il dolore. “Ditemi che ritornerà mio figlio!

Lasciatemi addormentare in questo sogno!

Domani gli preparerò il caffè-latte, la fetta di pane con la marmellata di more.”

Quante tazze sulla tavola di quella vita, quanto pane duro e vecchio da buttare!

Una pazzia di madre che si lievitò in rimescolii continui, che fece cadere a pezzi la casa, mattone su mattone.

Si iniettò in un profumo di bosco la speranza.

Lì in montagna suo figlio c’era e ci sarebbe stato sempre.

Di notte nella grotta, nei crepacci solo contro il freddo e contro la paura.

E suo figlio divenne l’ala del passero, la pigna che cadeva. Smaterializzando il corpo nella natura.

“Dove sei? Dimmi che tornerai!”

Una tomba da custodire, un nome non c’erano.

Una preghiera da inginocchiarsi e farsi sacra parola non c’erano.

C’era solo il sospiro del vento, che ripeteva. “Tuo figlio è morto da eroe!”

“Che me ne faccio dei discorsi vuoti, quando sto aspettando ancora il suo ritorno?

Quando lui aveva paura, io non c’ero. Quando aveva il terrore e si sentiva il sangue sgusciare dalle carni. Quando lo scoppio gli divorò il cuore. Quando…

Fammelo ritornare, te ne prego, cara mia montagna.

Prendi me. Fammi precipitare nel burrone scuro.

Io non avrò paura, se mio figlio è salvo.”

Ma la montagna non le ritornò più il figlio.

Si consumava la candela e lei si fece cera.

Il marito per distoglierla da quel pensiero che era diventato malattia la portò a vivere in un luogo di mare.

Non più montagne da scalare, o sentieri aspri da inghiottire come lacrima acre rimasta in gola.

A lei non piace il mare.

La ferita del precipizio, dove gli echi riportano le voci di tutti gli uomini morti in guerra non appartengono al mare.

Cammina a cercare un segno del figlio.

Raccoglie un pugno di sabbia. La tiene stretta, più stretta e quella scivola dalle dita.

Polvere di roccia sbriciolata. Polvere di corpi dispersi di tutti i ragazzi morti nelle guerre.

Granelli e poi granelli di vite spezzate con lo scalpello dalla roccia.

Polvere di ricordi che appartengono al passato.

Suo figlio, tutti i figli si mescolano in sabbie lisce, assieme, senza asperità di odio.

In pace.

“Dimmi che tornerai.”

“Sì, io tornerò.”

La risacca le porta una voce, mille voci.

Mentre il vento disperde la rena dalle dita.

E lei non ha più niente da cullare, da stringere al petto, ora. È per questo che lei odia il mare.