Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

IX edizione - Arcade, 5 gennaio 2006

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

SE UN MATTINO D'ESTATE DEI RAGAZZI

 

di Albertina Turchetto

Treviso

C’è un tempo per fare le cose e un tempo per dire che ne valeva la pena. Ma in quell’età dei mugugni non lo sapevamo ancora.

Il passaparola di questa mattina è: oggi si cammina. Che sta per: diamoci da fare. Andare da qualche parte perché non c’è alternativa allo stare fermi, perché non c’è alcun obbligo di avere un perché nel fare le cose. E dove si va? Si va su dalla comare Medea… e chi è, e dov’è, e io non vengo, e io nemmeno, e in compagnia della nonna poi….

Nonna Togna è la comare per antonomasia: ostetrica comunale con targa lustra di ottone sulla porta, e con il suo bel daffare in una condotta tutta su e giù per la montagna. D’estate ospita tutti noi montanari-cittadini, per i quali la città di provenienza ha preso il posto del nome di famiglia: Gianni da Bolzano, Gianni da Venezia…

Ai piedi dell’Avena i monti si chiamano Campon, Col del Melon, Pavion, Tomadego. Fare qualcosa è un imperativo e divertirsi un dovere. Oggi si va a Croce d’Aune… oggi si va al Campon… oggi si va sulle Vette, basta arrivare da qualche parte: più in alto si arriva, più si consolida la propria reputazione. Perché il camminare dà valore aggiunto a chi lo pratica, insieme all’acido lattico nei muscoli delle gambe. Si decide e si va, maschi e femmine senza preclusioni, con il fastidio delle raccomandazioni.

Oggi si va dalla Medea.

Si parte per tempo perché la strada è lunga e tutta sassi e rovi. E non è per via della nonna, che è avvezza alle salite, è per noi dietro, a passo storto. Già, storto. Oggi è tutto storto, il caldo che secca l’erba e taglia le gambe, le pietre che rotolano sotto i piedi, i rovi da scansare, le vipere sempre sveglie. Perché dovrebbero andarci bene anche le scarpe strette? Senza consultazioni e senza consenso?

Eppure l’abbiamo seguita in luoghi lontani e antichi nelle sue visite a puerpere e fantolini, abbiamo assistito al rito arcano di “sfascia e fascia” dalle ascelle ai piedi, alla moderna, ché prima si fasciava con tutte le braccia dentro, alla maniera della Maria Bambina dentro la teca della chiesa parrocchiale: un bruco bianco e rigido che fa impressione. Abbiamo festeggiato con quella gente i battesimi con polenta e formaggio, fatto ritorno con zucche e thucot dai manici spinosi e li abbiamo fatti rotolare giù per le rive perché ne avevamo abbastanza.

 

Vediamo scendere lungo il sentiero una figura goffa. La riconosciamo: è la Margherita da Carpéne, che non è una contessa a dispetto del nome. Nome e aspetto mal si combinano. Se l’uno evoca aristocrazia, l’altro evoca stregoneria: bassotta, infagottata, con tutte le sue sostanze addosso. Incontrarla in quel luogo fuori mano non ci sorprende perché è una randagia, una “senza padrone”.

Si ferma, si sfila le sacche che ha a tracolla, tante, incrociate da tutte le parti, le posa per terra senza chinarsi, ché tanto non ce n’è bisogno, resta lì nel suo mondo, e noi a domandarci ancora una volta chi è, che cos’è, e ancora una volta attratti e spaventati, pronti a seguirla, pronti a scappare, in attesa che si compia il prodigio che la riveli finalmente: contessa o strega?

Il suo tempo è soltanto suo. Libera di fare – non fare – andare – venire – senza regole – senza stagioni. Esentata dalle leggi fisiche e biologiche, non patisce né caldo né freddo, né stanchezza né età. Gira di cortivo in cortivo, di famiglia in famiglia, a proporsi per piccoli lavori in cambio di letto e minestra: entrambe le parti contraenti hanno il loro utile, e dunque non è obbligatorio doverle compassione. È di tutti e di nessuno, parte dell’insieme, senza troppo stonare, in simbiosi con l’essenzialità della vita montanara.

Doveva essere fuori di testa, come tanti qui, figli della consanguineità e dell’alcolismo, ma chi ci faceva caso, bastava sapesse rammendare calze. Margherita da Carpéne, dal nome aristocratico, imbozzolata nei suoi fagotti, viene giù, armeggia con le sacche e ci saluta con un bondì signorine. Noi, di cinque-sei anni appena e già più alte di lei, avvertiamo senza imbarazzo i primi segnali della differenza di classe, e assaporiamo il gusto del privilegio.

 

Quella casa lassù – vedete? – è la casa della Pina dei thinque. La storia deve essere ancora impigliata tra i rami degli alberi. La nonna la tira fuori e la racconta. E non a noi per smorzare le nostre intemperanze, lo fa per raccontare la sua vita. No, non racconta la sua vita, la rivive.

(Nonna non si parla mentre si sale in montagna, è contrario alle regole)

 

La guerra era guerra e gli inverni ben freddi in quegli anni del ’15, ’16, ’17 e in quell’ultimo 1918 sotto l’occupazione austriaca. Vita dura sopra una vita già grama. Gli uomini abili e arruolati via a combattere: Alpini della caserma di Feltre. A casa, gli orti, il fieno, le bestie, i tosat, i veci sani e malandati, tutto sulla scorza dura delle donne giovani. Con i todeschi poi... in giro a cercar minestra e donne.

Pericoloso per le famiglie isolate su per le rive, fuori dagli occhi e senza uomini in casa. Così che le autorità locali dovettero prendere serie decisioni: riunire tutti più in basso. Le autorità erano quelle da sempre riconosciute dalla popolazione ma assai poco considerate dal nemico invasore: dunque adottarono la risoluzione di riunire tutte quelle famiglie a rischio. Furono scelti per il bisogno i locali della vecchia scuola e della scoletta dentro il municipio, controllabili grazie alla loro ubicazione centralizzata vicino alle case, alla chiesa, alla Cooperativa di consumo.

Era sì riconosciuta la competenza e la sapienza delle autorità ma con riserva sulla conservazione delle proprie sostanze. Eccole qui:

- il Sindaco che espone le ordinanze;

- l’Arciprete in confidenza con i santi dei miracoli;

- il medico condotto, gran combattente sul fronte della mortalità infantile;

- la comare Togna, ostetrica comunale che serve non solo a far nascere i bambini ma anche a dispensare norme igieniche, e presenza irrinunciabile per tutte le “cose di donne”.

Si organizzarono, si divisero frazioni e contrade partendo dalle più lontane, via via scendendo verso il centro del paese: Facen, Norcen, poi su per la sperduta Fiere e Santa Susanna, poi Murle, Sant’Osvaldo, Segabassa, non dimenticando nessuna casa, nessuna famiglia.

Sull’altro versante c’era da raggiungere l’Altin, lontanissimo e isolato col suo tempietto votivo, poi Lamen, Pren. Da questa parte bisognava attraversare a guado il torrentello e senza in alcun modo poter evitare la casa degli spiriti.

Gli incaricati dell’operazione mettevano in guardia quella gente: “sparsi e divisi siete in pericolo, meglio tutti insieme sotto gli occhi di tutti, brutte cose possono accadere, guerra è guerra”.

Per convinti erano convinti, ma la casa? abbandonarla alla rovina? per mano dei todeschi? e le bestie? anche a questo abbiamo pensato: pite, piot, anare, tutte giù insieme a voialtri e per la stalla ci sarà chi pensa a varnar le vache e di fieno e di mungitura...

Cossa aveu dit...? diffidenza antica per la lingua delle carte... si penserà a moldar le vache, tranquilli che nessuno vi toccherà le bestie, parola del Comando Militare austriaco, saludarse. Dunque tutto a posto. No? cosa c’è ancora...

La Pina disse no, lasciar la casa mai, e là rimase, sorda, determinata, imprudente, sola coi bambini.

Torna la pace, tornano i reduci sopravvissuti, torna il marito della Pina arruolato alpino fin dall’inizio della guerra. Tornano vittoriosi e laceri. E in casa le novità. Il marito della Pina conta cinque fiolet al posto dei pochi che aveva lasciato.

Todeschi o non todeschi in casa mia no, quei figli del peccato...

Ma quali figli del peccato! era guerra anche qui, sono creature innocenti, compresa la Pina.

Comare Togna toccò le corde della ragionevolezza: le donne giovani e senza uomini in casa fanno gola, specialmente ai militari in guerra e adesso la guerra è finita.

Il pover’uomo pianse e pianse su quei peccati, su quell’innocenza, su quel sangue che non era il suo sangue, e si tenne tutto: i tosat e la Pina dei thinque.

 

La storia è finita, e noi screanzati a lasciarci andare al contagio delle risate sgangherate. Perché adesso la storia ce la raccontiamo a modo nostro: l’alpino va alla guerra – difende la Patria – scansa le granate – torna co’ la testa frapolada, e nella sua casetta tra i monti trova quel pasticcio di figli e moglie, e lui la perdona? Allora cos’è il nostro: divertimento? o compassione? Fate voi.

 

Ci si inoltra finalmente nell’ombra e nella frescura delle maronere. Tra non molto saremo alla casa della maresciala. Conosciamo la strada e già pensiamo al suo orto e alle sue mele. Di venirci noi da soli nemmeno a pensarci, non si rimedia nulla di quel bendiddio. Ma oggi c’è la nonna.

Siamo sulla strada dell’incantamento dei sensi.

Le immagini si sa, virano nel tempo come i colori in autunno. Dev’essere per questa bizzarria della memoria che non vedo amicizia né inimicizia tra le due donne, nessuna genuflessione della Medea carica di afflizioni, per la più fortunata maresciala, non quella benevolenza che poco costa della maresciala per una Medea qualunque. Perché perdere tempo ed energia, ognuna al posto suo così com’è, padrona ciascuna del proprio pezzo di terra, lontane seppur contigue.

L’una, la maresciala, che cincischia con la propria caricatura, l’altra semplicemente Medea (un nome che induce all’azzardo: la nostra è una Medea delle montagne feltrine, variante senza impegno della Medea tragica). E dunque non c’è giudizio ad associare due donne così: non è per attrazione degli opposti e nemmeno per compensazione degli estremi.

Eppure c’è qualcosa che salda la maresciala alla comare Medea: è un sentiero, un trodo, un troi, la dannazione nostra e dei nostri cinque sensi eccitati. Non è impresa da poco dare forma di parole a fantasmi, stupori, trasalimenti, lasciati laggiù nel tempo, ma le parole si nutrono anche di assenze. Ebbene andava così.

 

Per arrivare lassù dalla Medea arrancando per le rive, si passava lungo il poderetto ben custodito della maresciala. È dunque per di qua che passa il filo dell’incantamento dei colori e degli odori, e dei sapori solo ricreati dalla forza degli altri sensi, poiché nulla è dato mangiare. È qui che si ripete il miracolo della moltiplicazione delle mele e delle pere, ancorché esposte sugli alberi o già dentro le ceste stracolme a saturare l’aria di beatitudine, da godere tutta intera: non costa nulla, tanto vale esagerare. Si passa via lentamente... i sensi allertati sono confusi, si scambiano le specifiche competenze, così che gli odori si accalcano agli occhi mescolati ai colori, e tutti e due scendono alla bocca a eccitare le papille gustative: i sapori violentemente ricreati fanno secernere saliva e si inghiotte tutto insieme. Che orgia di piaceri!

E poco importa se la spericolata operazione corrisponda a verità o non sia piuttosto il tempo a impastare l’età beata con gli oggetti che l’hanno evocata. Tardi per verificare e poco interessante.

Un bondì siora Togna e si cade nella trappola di una voce allettante, tutt’uno con le delizie appena viste e annusate... che sia un’offerta?

... la mande i tosat siora Togna... doman... co’ le borse...

 La maresciala è già in angustie per i suoi beni.

... sì doman!... co’ le booorse siora Tooogna...

La situazione è di una scoraggiante chiarezza: si differisce un impegno che cade in prescrizione qui, subito. Voce come si conviene, sorriso impostato una volta per tutte, ma niente debolezze sul patrimonio di famiglia.

La massa prorompente della maresciala è invalicabile: dietro e intorno i suoi averi spudoratamente esibiti, e si dissipano le nostre ultime speranze.

Nonna Togna è impegnata nella difesa della sua dignità umiliata.

... la se li tegna i só pom e i só per... vilana.

L’invettiva rotola tra i denti includendo una varietà di epiteti quali taccagna, ipocrita, e chissà cos’altro ancora di impronunciabile davanti a degli innocenti.

Ebbene sì, è un’offesa che non si perdona.

Ma cosa c’entravamo noi con quella guerra di posizione: minaccia alla proprietà... lesa dignità... almeno una mela visto che eravamo già lì con la bocca pronta.

Per una che si è costruita sull’apparire come funzione sociale (essere moglie del Maresciallo è poca cosa, ma che farci è questione di fede); per una impegnata a dare una lustratina al giorno al proprio rango; per una esercitata a non sprecare i sentimenti, ebbene offrire un paio di mele equivale a compromettere le finanze. Godetevela voi una maresciala di paese, a noi è antipatica. Si passa via.

Al passo lento e scandito della nonna avvezza alle salite, busto in avanti, braccia dietro la schiena, si arriva su dalla Medea, avvertiti noi già in basso dall’odor di stalla e dal chiocciar delle galline intente agli affari loro. Creature scostanti le pite, altra cosa i cani che blandiscono l’ospite di promesse o lo spaventano, ma in ogni caso non lo fanno passare inosservato.

La troviamo già fuori la Medea ad aspettarci, avvertita dai passi sulle pietre, e subito ci si arrende a una figura asciutta e scura, solida, rassicurante, bastante a se stessa, superba vestale di una quotidianità isolata. Più da vicino è l’essenzialità delle parole, la cortesia quanto basta, il sorriso che libera dal dubbio: è tutto quanto ci può offrire la Medea, perché poco ha lassù, per quelle rive dall’inebriante odor di ciclamino, che poco producono di maggior sostanza.

A conclusione, ’na pignata de badane, i fagioli cotti con tutto il baccello, e noi, intorno a quel vapore a mangiare quelli, a raschiare questo, ci sentiamo alfine conciliati.