Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

IX edizione - Arcade, 5 gennaio 2006

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

QUANDO HO PROMESSO DI TORNARE

 

di Annapaola Dotto

Treviso

Per far la guerra bisogna essere giovani. Giovani e morti di fame, ecco tutto, che chi ha i soldi sta nelle retrovie e dalle retrovie non si combina un cazzo di niente.

A far una guerra fatta bene ci vuole gente che sa come si fa a non pensare, che a far la guerra hai solo paura e la paura ti fa sparare per primo, che se non spari tu spara l’altro e se l’altro ha una buona mira tu sei bello che morto prima di accorgertene. Oppure, caso peggiore, patisci l’inferno terreno prima di approdare a quello eterno.

Il prete qua dice che chi combatte per la patria il Signore lo perdona anche se ammazza la gente, ma io non è che son mica tanto sicuro, perché m’immagino che come niente anche i tedeschi ci hanno un prete che gli dice la stessa identica cosa, e allora? Ma a certe cose, come dice Gelmo, è meglio non pensarci. E così noi quassù non ci si pensa, si pensa a tenere pulito il fucile piuttosto e a tenersi asciutti i piedi, che i piedi in montagna ti salvano la vita e della religione puoi anche fare a meno. Hanno un bel pregare a casa, ma qua miracoli non se ne vedono neanche col binocolo, si sbatte il muso contro l’orrore e la stupidità umana, niente di più, niente che valga la pena di ricordare ed essere raccontato. Chi comanda è gente da salotto che il bosco non lo sa guardare con gli occhi giusti e ti danno ordini che non stanno né in cielo né in terra, che sei fortunato se la loro distrazione ti permette di disobbedire e salvarti la pelle. Altrimenti crepi, come Giovanni, Mario e tanti altri poveri cristi. Va a finire che della guerra non ti spaventano quelli che stanno dall’altra parte, non più del tuo generale, almeno: è dei suoi “piani strategici” che hai paura.

Poi ci sono le notti e quando è buio c’è poco da star allegri,

che se il nemico non vede noi, neanche noi vediamo loro e allora potrebbero essere ovunque e ovunque è un luogo troppo vasto per non temere che si nascondano giusto dietro le tue spalle. Allora nelle ore che scivolano lentissime come pece ognuno cerca di tenersi su pensando a cose belle, pensando a casa propria, alle donne che impastano il pane mentre i bimbi giocano sotto la tavola, alle bestie che vengono condotte ai pascoli, all’arrotino che passa per strada gridando e ridendo, ai vecchi che impagliano le sedie con fare stanco e…e io penso alla mia Maria ed è come l’avessi davanti agli occhi, con i suoi capelli di fieno raccolti in cima alla testa e i suoi occhi verdi che ridono, come l’acqua dei torrenti di qui, come la pioggia che sfronda gli abeti, uguali uguali alla prima volta che li ho guardati, sempre gli stessi. È la ragazza più bella del paese, la mia ragazza, una che la guerra non potrà spezzarla perché è forte come un toro, testarda e risoluta, come quella domenica prima della partenza…non me lo scorderò finché vivo! 

Il giorno prima che partissimo la mia Maria mi fa mandar a chiamare da una sua cugina più piccola che abita con lei perché sua madre è morta dandola alla luce. La Giannina arriva correndo come una matta e mi dice –Signor Antonio, la Maria vi aspetta a casa nel pomeriggio- e poi di nuovo via di corsa, come il vento. Così dopo pranzo io vado e ho il cuore in gola perché domani parto e forse la mia Maria è l’ultima volta che la vedo. Comunque ci vado e quando son lì lei mi guarda con due occhi seri seri e la fronte tutta stretta nel tentativo di non piangere…allora io le dico –Maria…- e provo a sfiorarle una mano perché la smetta di fare quel brutto grugno da cagna, ma lei si tira indietro che da me non vuol esser toccata. “Allora perché mi ha mandato a chiamare?” penso io, ma mica glielo dico, che poi quella mi scanna coi suoi bei denti bianchi di latte.

-Promettimi che tornerai! Promettimelo adesso perché non voglio star ad aspettare uno che non ha la forza di tornare a guerra finita: se non pensi di farcela a tornare da me, se credi davvero di potermi abbandonare: dimmelo ora, così lascerò che sia un altro a sposarmi, uno che i suoi figli li potrà sfamare- e tutto questo lo dice con il bordo scucito del grembiale stretto nei pugni, quelle mani nere di lavoro che si fan bianche sulle nocche. La mia Maria, una che le cose le vuole chiare come l’acqua che butta fuori il fontanile di casa sua, la mia Maria.

Io com’è vero Iddio non so che dire, perché di tornare non son per niente sicuro, perché in trincea si muore e non è che uno non vuole rivedere la sua bella per farci all’amore e colmarla di baci, ma è che in guerra ti ammazzano e a quelli non gli frega un cazzo se hai la morosa, non te lo vengono a chiedere prima di spararti, proprio no.

Così le dico che tornerò di certo, che tornerò per lei e che se è coraggiosa almeno la metà di quello che sono io mi saprà aspettare fino a che la guerra sarà finita e mi rimanderanno a casa. A queste parole un lampo le saetta negli occhi.

Ma ancora non le basta, si vede che ha paura: una paura nera che non ti fa vedere niente, quella paura che rende ciechi anche noi quando ci impongono di avanzare nonostante di fronte ci sia gente che spara. Scuote ancora la testa come a scacciare un cattivo presagio, come per allontanare l’ombra di un dolore che avanza fino alla mandorla contratta dei suoi occhi ora severi e freddi: -Non mentirmi Antonio, non mentire ad una povera ragazza che ha già ricamato le lenzuola della dote. Bada: se mi avrai preso in giro verrò a tirarti fuori dalla tomba!- e adesso ride, perché sa che a tirarla

lunga farebbe solo del male a tutti e due. Ride e scalda la stanza tutt’intorno, perché le sue labbra sono come di sole, sono umide e calde come l’estate, morbide di zucchero e saliva. Cosa puoi dire ad un paio di labbra così? Cosa?, ad una come la Maria. Una che come te non è andata a scuola e che la guerra non la capisce, ma nel suo cuore sa che fa male, una che ha paura di perderti e gioca la sua carta migliore contro la sorte e il destino…una di cui sei innamorato fin dalle elementari e che abita nel tuo stesso paese, appena due case dopo la tua, una che sa fin troppo bene cosa vuol dire la fame, ma che con chi ha meno di lei ha sempre diviso il pane. Cosa le dici perché ti permetta di stringerla un’ultima volta, che di far l’amore non se ne parla prima di sposarsi?!

Le racconti che tornerai più in fretta che puoi, non appena la patria crederà che tu abbia fatto il tuo, pur di poter morderle il collo portandoti via il suo sapore, trattenendo il suo profumo nelle tue narici il più a lungo possibile.

Allora la mia Maria fa una cosa che mai mi sarei immaginato potesse fare: mi prende per una mano e mi fa segno di star zitto e seguirla e mi tira per il braccio perché cammini più in fretta, trascinandomi in direzione del granaio. Entriamo nel locale fresco e ombroso in silenzio, in un cantuccio vedo che c’è un mucchio di erba medica seccata e allora un po’ capisco e sorrido fra me e me e la Maria già si vergogna di quel che ha ideato, ma io l’adoro, ora più che mai.

Le cingo il vitino da vespa che si ritrova e la bacio e la sento tremare sotto le mie labbra e le sue guance si infuocano come mele sode e rotonde. Sfioro il suo seno e lei freme e quando la guardo vedo che sta piangendo, ma il desiderio che nuota nei suoi occhi mi prega di continuare e allora la faccio adagiare sulla paglia e mi impongo di fare piano, di usare tutta la dolcezza di cui sono capace.

Facemmo l’amore fra l’erba medica e il grano e prima che me ne andassi lei mi disse: -Torna a prenderti il resto, Antonio…torna presto-.

Ci sono mille modi di dire un nome, ma solo lei sa dire il mio, solo lei mi chiama dalle dita dei piedi alla punta dei capelli con un unico fiato della sua bocca: neanche mia madre sa evocarmi a quel modo, neanche Dio. Mi voltai perché non mi vedesse piangere e tornando verso casa presi a calci ogni sasso che incontrai lungo la strada e quella fu la mia piccola guerra, la mia insurrezione non solo contro il regime, ma piuttosto contro la realtà stessa, contro la vita che mi era toccata.

Il giorno dopo lasciammo il paese, casa nostra, unendoci ad un gruppo di soldati che veniva dal piano e che saliva verso i monti. Ad ogni passo sentivo come uno strappo nelle carni e mi figuravo che mi si stesse lacerando l’anima e pensavo che sarei stramazzato al suolo da un momento all’altro: non credevo che ad un uomo fosse dato di sopportar tanto dolore tutto assieme. Ma non eravamo ancora al limite, c’era ben altro ad attenderci nei boschi, sebbene ancora non lo sapessi.

 

In quante occasioni può stupirti una donna? Una, due, tre, dieci…infinite? Infinite.

Credevo di aver già ricevuto tutto il possibile e lasciavo che la guerra mi passasse attorno, facendo quanto mi veniva ordinato senza pensarci sopra più di tanto, volevo tornare a casa, ma mi rendevo conto che era troppo presto, avevamo ancora fucili e munizioni per un altro anno: perché sprecarle? Rispedirle al mittente sarebbe stato oltremodo scortese, non vi pare?

Arrivò l’inverno e senza che avesse un senso venne Natale e ci fu una specie di pausa, in fondo c’erano dei cristiani anche dall’altra parte, disse il reverendo. Stronzate.

Eravamo tutti di un umore nero, si fumava seduti su qualche pezzo di legno umido con la coperta sulle spalle, qualcuno giocava a carte, qualche altro raccontava di casa propria. Io pensavo alla mia bella Maria, me la figuravo vestita a festa con il paiolo in mano che versava la polenta su un tagliere perché si raffreddasse quel tanto da poterla tagliare a fette. “Chissà se hanno da mangiare?” mi chiedevo e intanto accendevo un’altra sigaretta.

D’improvviso si scatenò un putiferio. Grida e rumore di soldati che correvano giunsero dalle retrovie; tutti noi scattammo in piedi all’unisono, più stupiti che spaventati: cosa diavolo stava succedendo? Già pensavamo ad una spia, ma perché mai avrebbe dovuto infrangere quei pochi giorni di tregua? Poi un grido, una voce di donna: -Antonio!- e il cuore mi si fermò in gola. Rimasi immobile, come imbalsamato, senza la forza di muovere un solo muscolo: mi sembrava di aver gambe e braccia di piombo fuso e mi girava la testa. Era lei. Era lei e quello era il mio nome, l’unico.

Retrocedetti in fretta, con le ali ai piedi, non sentivo più il freddo né la paura, non sentivo più niente se non quel grido a riecheggiarmi nelle orecchie e nelle viscere, come vino a stomaco vuoto: mi pareva di esser ubriaco.

Poi la vidi: portava ai piedi gli scarponi di suo padre e sulle spalle uno spesso tabarro di lana grezza che la faceva apparire ancor più minuta del reale. Si divincolò dalla presa del tenente e mi corse incontro, infrangendosi sul mio petto come gioia pura: la strinsi e credetti di morire perché ero così felice che quasi mi sentivo male e il suo profumo di fiori e di pane mi toglieva il fiato e la ragione.

Non so per quanto rimanemmo così stretti, mentre gli altri ci guardavano attoniti, ma mano a mano che i capannelli dei curiosi si sciolsero, tornai in me e cercai i suoi occhi scostandole la frangia dal viso: -Cosa ci fai qui?-.

-È  Natale- rispose lei, come fosse la cosa più naturale del mondo e aggrappandosi alla giacca della mia divisa mi trasse a sé nuovamente, per essere baciata.

Aveva saputo della tregua e si era fatta una settimana di cammino per quel bacio. Mi disse che a casa andava tutto bene e sebbene il suo viso emaciato desse ad intendere tutto il contrario, non la contraddissi. La pregai di non azzardare una simile follia una seconda volta e lei mi rispose che se il Natale successivo fossi stato a casa con lei, non avrebbe avuto alcun bisogno di venirmi a cercare fra i monti. La colmai di baci e la tenni stretta fino a mozzarle il fiato e le carezzai il volto i capelli senza stancarmi fino a pomeriggio inoltrato. La presentai ai ragazzi e quelli si produssero in complimenti d’ogni tipo, talvolta volgari, ma Maria non fece una piega, per quel giorno andava bene così.

Prima di andarsene una frase: -Ti ricordi di quando mi hai promesso di tornare?- e senza attendere risposta si voltò sparendo alla vista nel giro di pochi istanti.

-Sì, me lo ricordo, me lo ricordo Maria…-

 

Alla fine di tutto questo non saprei dire se sono tornato oppure no, perché dall’inferno non si torna mai indietro e se pur essendoci stato non sei morto per via che avevi promesso di tornare…beh,  l’amore lenisce, ma non cancella l’odore del fango. Così gli ufficiali e i comandanti scrivono libri e tengon comizi “per dare voce a quelli che non ce l’hanno fatta”, ma a noi che stavamo davanti non ci vien tanto facile raccontare, perché “quelli che non ce l’hanno fatta” sono morti e una parte di noi con loro e ciò che è morto non ha voce e a noi pare che rispettare le regole sia ancora una buona cosa.  Come mantener fede alle promesse.