Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale Parole attorno al fuoco IX edizione - Arcade, 5 gennaio 2005 per un raccolto sul tema: "Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi" |
Primo classificato |
REQUIEM PER I MORTI DEL 2 MAGGIO
di Paola D'Agaro Pordenone |
Schimmelgrün ist da Haus des Vergessens. Verde come la muffa è la casa dell’oblio. Paul Celan
Sulla ghiaia del vialetto, scalpiccio di piedi infantili in scarpette nere di velluto e stracci. Sussurri, nasi che colano, bottoni strappati, unghie nere aggrappate al berretto, visi attoniti, occhi curiosi. Hanno scavalcato il muretto di sassi del minuscolo cimitero tra le montagne, là dove si appoggia al costone roccioso. Schegge di arenaria lavate dalla pioggia che rotolano giù, incerti rami di nocciolo piegati dal vento, rovi serpeggianti tra macchie d’argilla. Muti, guardano. La bocca di Nena è piena di pianto, una mosca zampetta sulla bocca della donna sotto di lei, gli occhi semichiusi, grumi di sangue a inanellarne i capelli. Nena lo sa chi è stato. <Guarda, guarda!> sussurra Tino rompendo il silenzio, e va indicando i fori dei proiettili: nel collo, nella fronte, nelle mani, in tutte le parti scoperte di quei corpi silenti davanti ai quali sfilano volti magri di bimbi. Giovanna si è fermata davanti al cadavere di una bambina, la guarda, inghiotte saliva, arrotola e srotola attorno a un dito l’orlo della gonna con gesti lenti, ossessivi. La piccola sembra dormire, sonno privo di memorie, sonno che cancella ogni incubo, sonno che disconosce la paura. Giuseppe ha le gambe nude e storte, le piega e si accartoccia su se stesso, le ginocchia a sfiorare gli scarponi grossi del vecchio disteso davanti a lui, lungo, secco e nodoso come le viti di uva fragola. Qualche raro dente affiora tra le labbra semiaperte, il mento si sporge in avanti deciso ma senza imperio. Li ha contati. Sono cinquanta o giù di lì: donne, bambini, vecchi. Una vecchia ha la pancia enorme, gonfia e tesa. Tragica follia, assurda maternità senza seme, ridicola beffa al suo corpo disseccato di vecchia sterile. Nino la indica agli altri che sostano qualche istante davanti a lei, al grembiule fiorito di bianco che avvolge il globo del suo ventre. Ciondola la testa di un bimbo accanto al petto della madre, il cranio rasato, gli occhi lividi.
Scappavano ieri mattina i bimbi, scappavano negli angoli più segreti della casa, si infilavano sotto i letti e saltavano dalle finestre. Chissà se anche lui ha cercato di scappare, chissà dove lo hanno trovato, chissà se a sua madre è toccato vederlo morire. Chissà se è toccato a lui, invece, assistere allo strazio della madre come era toccato a Giuseppe, in quel caldo pomeriggio d’estate, nel ‘44.
Era fiera sua madre. Fiera e bella. Bella e innamorata. Non è facile essere belle, fiere e innamorate in tempi normali, specie se si è sole e con un figlio. Ancor meno lo è in tempi di guerra. Non si può lavorare con i tedeschi, per i tedeschi, in un paese che pullula di partigiani che hanno fame, rabbia e paura. Glielo avevano mandato a dire tante volte ma lei aveva tenuto duro e aveva risposto con sprezzo: <<Datemi voi da mangiare per me e il bambino e io me ne starò a casa >>. <<Se non smetti ti ammazziamo>>, le avevano intimato un giorno. Ma come si fa a credere che uno che ti aiutava a portare i secchi del latte in latteria la mattina presto, che ti invitava a ballare al Dopolavoro, possa attenderti nell’ombra e scaricarti addosso una raffica di mitragliatrice senza neanche dirti: <<Son qua>>. <<Vai a chiamare tua madre>>, gli avevano detto. E lui aveva interrotto il gioco ed era entrato nella minuscola stanzetta affacciata sul cortile in terra battuta. La sartina si era voltata e gli aveva sorriso con una smorfia, cercando di non far cadere gli spilli che teneva stretti tra le labbra. Anche la madre gli aveva sorriso piegando solo la testa di lato e rimanendo immobile sullo sgabello come una statua greca sul piedistallo. Anche così, in sottoveste, con qualche scampolo di stoffa addosso, era bellissima. Poi era tornato a giocare in strada. Non ricordava di averla vista uscire, ma il rumore degli spari quello sì, lo ricordava. Era ancora lì, dentro la sua testa, come quando si era girato di scatto e aveva visto sua madre afflosciarsi senza un gemito. Tutta la notte aveva agonizzato, il corpo martirizzato da decine di piccoli fori, la nonna che gemeva avvolta nello scialle nero, il nonno che non riusciva a darsi pace per quella figlia ribelle con cui non era mai riuscito ad andare d’accordo e che pure amava più di ogni altra cosa. Non ci si arrende alla morte quando si è giovani, anche quando ogni minuto di vita in più non serve che a prolungare l’agonia. Alle sei del mattino la vita del paese ricominciò come ogni giorno: oltre le strette finestre delle case si accesero i lumi, nelle stalle le mucche presero a scalpitare e a muggire. Ma lei era non c’era più.
Gli occhi di Nena sono concentrati sul volo a scatti di una libellula fluorescente che va sfidando il vento e il freddo di quello strano maggio, giorni di pioggia battente e di neve tardiva sulle cime. Le narici captano un odore acre, dolciastro e pungente al tempo stesso. E’ l’odore caldo che ha sua madre in certi giorni quando, tornata a casa dai campi, si butta sulla sedia soffiando e strofinandosi la pancia. Ma è anche altro, è un odore che ha sentito solo una volta, qualche mese prima.
Era l’imbrunire, il sole andava sparendo oltre le montagne e il lago era oppresso da una corte di nuvole basse, mobili e sfilacciate. Condizioni ideali per la pesca. Specie se si fa a meno di ami e di reti e si procede in maniera più spiccia. La procedura era stata più volte collaudata dai più intraprendenti esemplari della truppa tedesca di stanza ad Osoppo: si requisisce una barca, ci si posiziona in mezzo al lago e si lanciano in acqua un paio di chili di tritolo. I pesci affiorano che è una bellezza, gonfi e polposi, in uno scintillio di squame. Non resta che tirarli a bordo. Ma quel giorno qualcosa era andato storto e insieme ai pesci era saltata in aria anche la barca con tutto il suo equipaggio: un tedeschino di vent’anni o poco più. Dopo, per mesi, non era stata più capace di dormire da sola. Ma non aveva provato pena per quel ragazzo. Le avevano insegnato a non amare i tedeschi e poi i bambini non conoscono la pena per il dolore degli altri. Il loro pensiero non è capace di correre alla madre alla quale non verrà restituito neppure l’elmetto del figlio. Il loro pensiero si ferma al di qua della pietà. Strappano le zampe alle cavallette, danno fuoco alle salamandre, infieriscono sugli sconfitti, ignorano ogni pianto che non sia il loro, impassibili e crudeli, spensierati, innocenti e senza cuore. Quella sera, insieme ai pesci, erano affiorati anche i resti del tedesco fatto a brandelli e nessuno aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a quei pesci benché tutti fossero afflitti da una fame che non di rado assumeva accenti mistici. La madre era corsa a trascinarla via mentre con rastrelli, reti e pertiche i compagni cercavano di portare a riva quel che restava del giovane. Una piccola folla si era radunata in riva al lago e gli ufficiali tedeschi urlavano ordini, tanto incomprensibili quanto rabbiosi, nell’indifferenza generale, l’indifferenza muta di cui sono capaci gli oppressi quando leggono la loro stessa paura negli occhi di chi vorrebbe dominarli. L’odore, quell’odore, fece in tempo ad entrarle nella pelle. E’ l’odore della carne che vorrebbe ancora pulsare e del sangue che le marcisce dentro mescolato all’odore della pelle sfiorata dal fuoco, come quello di una gallina appena spiumata.
Si sentono spari isolati provenire da sud, dove il letto del Tagliamento, frastagliandosi in sottili rivoli e pozze, va a formare un largo greto ghiaioso. Sono gli epigoni di una guerra che si è conclusa solo sulla carta. Sono i colpi di coda di una nottata che sembra non finire mai. Nelle arterie che portano al confine: sulla Pontebbana, lungo le strade sinuose della Pedemontana, lungo il corso del Tagliamento, la ritirata tedesco-caucasica si sta esaurendo. Ieri gli alleati hanno raggiunto Osoppo e distribuito con solerzia e orgoglio parte della loro inesauribile riserva di sigarette e cioccolato alla popolazione. I bambini si sono accalcati sotto ai carri strillando e tendendo le mani, pigolando come pulcini dentro il nido, come i bambini “liberati” di tutte le guerre. Le donne, sotto una pioggia implacabile e fredda, hanno raccolto fiori per lanciarli, come hanno visto fare nei film americani, all’indirizzo di soldati sorridenti e un po’ impacciati. Era il pomeriggio del 2 maggio 1945. Se a qualcuna di quelle donne, se a uno solo di quei soldati fosse venuto in mente di guadare il Tagliamento (tutti i ponti erano stati fatti saltare), di attraversare Trasaghis e di procedere poi verso l’ultimo dei paesi della valle: paese di sassi, rovi e paludi, incuneato tra costoni di montagne aspre e avare, dove le case si addossano l’una all’altra per lasciare spazio ai campi, per non rubare terra al fieno, fieno alle bestie, e dove il sole arriva solo d’estate; insomma, se a qualcuno fosse passato per la mente di raggiungere Avasinis, avrebbe assistito ad una scena agghiacciante e surreale assieme.
Il paese sembra abbandonato. A tratti si sentono chiocciare le galline e muggire disperate le mucche nelle stalle. Cento occhi, gli occhi dei sopravvissuti, dei fuggiaschi osservano da lontano facendo capolino tra pietre e rovi. Le strade, le botteghe, le case sono vuote. L’unica presenza umana è data da un presidio di militi che si aggira con baldanza tra le case. Sopra l’uniforme indossano casacche mimetiche oppure lo zeltbahn, l’impermeabile mimetico a triangolo. Calcato sulla testa, l’Einheitsfeldmütze, l’elmetto coperto di fronde. Impugnano mitra e pistole. Sono soldati delle Waffen SS. Tra essi si sente parlare tedesco, croato, boemo, istriano, altoatesino, friulano, italiano. Hanno da poco concluso la loro missione. Si sono vendicati dei partigiani, hanno lavato nel sangue l’amaro della sconfitta, hanno obbedito all’ultimo, il più crudele degli ordini. Hanno ucciso e violentato, mangiato e bevuto e ora si muovono, arroganti e sinistri, tra gli usci sfondati a pedate; calpestano le stradine di fango segnate dall’orma dei loro scarponi e dalle ruote dei loro carri. Li hanno sentiti ringhiare parole rabbiose, li hanno visti sparare ai rari, ostinati passanti che non erano riusciti o non avevano voluto fuggire. Li hanno visti irrompere nelle case per il loro tragico tiro al bersaglio, sequestrare due ragazze perché preparassero loro il pranzo e lanciarle poi dalla finestra a pranzo finito. Chissà a cosa stanno pensando ora che l’ira si è placata, che la loro inumana ferocia è stata richiamata entro i confini dell’ordine prestabilito.
Nino infila un dito nel naso e con l’altra mano tormenta una crosta nel ginocchio nudo. Poi si caccia le mani in tasca e saltella per vincere il freddo. E’ sceso di notte da una stalla in montagna e ha atteso, sotto la pioggia, che le SS se ne andassero per entrare in paese. Alle 10,30 è cessato di piovere e il commando è ripartito sferragliando. Sul paese è calato un silenzio irreale. E’ stato lui il primo a vedere i morti nelle case e quelli gettati nel canale (e chissà perché proprio quelli e proprio lì) prima che li raccogliessero e li ricomponessero nel piccolo cimitero dietro alla chiesa. Anche Maria è fuggita in montagna tre giorni prima e in quella notte senza luna ha intravisto, lungo il sentiero, le sagome dei partigiani che salivano verso le malghe. Non erano soli: portavano con loro i cosacchi di Avasinis. Dove saranno ora i cosacchi? Si chiese, ché i partigiani sono tutti scesi dalle montagne e ora vanno cercando i tedeschi per ammazzarli. Nei cortili, nelle case dove erano accampati, dei cosacchi non è rimasto proprio nulla se non il letame dei loro cavalli e i resti dei loro fuochi. Avevano messo a muro suo nonno per una gallina, qualche giorno prima, e avevano minacciato di ammazzarlo, ma a lei non erano mai sembrati cattivi. Sporchi sì, e anche un po’ zingari ché dormivano con le bestie e si ubriacavano di vodka tutte le sere. Giovanna ha passato la notte rinchiusa in uno scantinato insieme a tutta la famiglia e ad altra gente del paese. Non ha capito molto del perché sia finita lì. Della mattina precedente ricorda il crepitio degli spari, le voci concitate, i pianti, le grida e i lamenti che sembravano provenire dalle prime case del paese. Verso mezzogiorno era uscita di casa, di nascosto dalla madre, strisciando lungo i muri. Voleva vedere. Era stato proprio allora che le era apparso l’angelo guerriero. Le avevano spiegato, poi, che si trattava di un ufficiale tedesco, che era venuto fin lì per ordinare che si cessasse di sparare, che si raccogliessero tutti i sopravvissuti e li si richiudesse negli scantinati. Ma lei scuoteva la testa ostinata. Non poteva credere che ce l’avesse mandato il comando tedesco. Era stato qualcuno più in alto che aveva voluto che si materializzasse in quel modo, che salvasse lei e tutti gli altri, per poi sparire nel nulla come dal nulla era venuto. Era alto, biondissimo e montava un cavallo bianco: era un San Giorgio senza aureola. Sembrava uscito dal dipinto dietro all’altare maggiore. Era entrato in paese lanciando il cavallo al galoppo in uno scalpitio assordante. Lo aveva visto bene, lei. Per un attimo, un attimo solo si erano guardati negli occhi prima che nelle gambe trovasse la forza sufficiente per scappare. E giurava che in quei pochi secondi aveva visto luccicare la punta argentea di una lancia.
Cigola il cancello del piccolo cimitero, sciamano i bimbi sotto lo sguardo severo del pievano che, impedito dai paramenti sacri e frenato dalla solennità del momento, si limita a minacciarli con la mano. Lo seguono i chierichetti, i parenti dei morti, le donne e i marangoni del paese, per le misure. Oscilla l’aspersorio davanti al viola dei paramenti, rotolano le parole del requiem, vibrano nell’aria umida le note meste e stonate dei canti liturgici. I bambini, seduti sul muretto, guardano giù.
Da grandi molti preferiranno non ricordare che la Storia è passata anche di lì. Altri si ostineranno a rendere partecipi delle proprie memorie figli indaffarati e nipoti annoiati. Altri rimarranno segnati dalle ferite del ricordo e dal pudore che ogni esperienza tragica porta con sé. Da loro non si avrà mai un racconto completo ma solo qualche lampo, qualche breve emozione, che avranno l’intensità di un verso poetico. Ma non è forse la poesia la più alta testimonianza del nostro vivere? |