Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale
Parole attorno al fuoco
IX edizione - Arcade, 4 gennaio 2004
per un raccolto sul tema:
"Genti, soldati e amanti della montagna:
storie e problemi di ieri e di oggi"
Secondo classificato
I GIORNI DELLE PROCESSIONI
di Mario Schivato
Roma
In quei mattini rigidi l’acqua gelava negli abbeveratoi. L’aria era tersa, le rare nuvole rosse, l’orizzonte pareva lontano, irraggiungibili le cupole del Monte Maggiore, del Braico, dell’Alpe Grande dove portavo a pascolare Viola ed il labirinto delle muricce era grigio, tragico. La poca terra rossa delle piccole doline era dura, l’erba secca, gli alberi morti. Solo lo scricciolo, nervoso come l’aria tagliente, squittiva, unico frullo in quella disperata desolazione.
Passavano le pecore, ma il sole ancora non c’era ed il loro zoccolare, il loro ansimare, il loro disperato belare si ripercuotevano per le stradette deserte, svegliavano gli asini che si mettevano a ragliare nel chiuso tanfo delle stalle. Allora i corvi si levavano alti, descrivevano sulle case slavate come ruderi decrepiti, ampi cerchi ed il loro verso rauco risvegliava echi cupi.
Quelli erano i giorni della Miseria. Mia madre diceva che quelli erano i giorni nei quali la signora Miseria veniva a farci visita e, infreddolita, s’introduceva nella nostra piccola casa col tetto di lastre bianche, si sedeva sul bordo del nostro focolare, ci rubava le misere vampe di sterpi.
Io non sapevo chi fosse la Miseria. Talvolta la immaginavo come una fata vestita di veli e coperta di diamanti, tal’altra come una strega brutta e sdentata vestita di stracci e lercia, unta, puzzolente. Non sapevo chi fosse la signora Miseria.
La bora che ululando rabbiosa pettinava il nostro Carso era amica della Miseria. Di solito arrivavano assieme, tenendosi per mano. Era allora che mio padre decretava la spidocchiatura. Con lo sventagliare della bora appunto, perché così i nostri vestiti si sarebbero asciugati molto presto.
Quel mattino nostra madre ci faceva restare tutti a letto e ci lasciava nudi a scalciare sotto le coperte. Nel cortiletto davanti casa un gran fuoco ardeva sotto una botte di ferro. I nostri vestiti finivano là dentro a bollire. Noi fratelli, maschi e femmine, venivamo rapati a zero ed i capelli andavano ad alimentare le fiamme. Erano ridicole le sorelle con la testa rapata. Erano ridicole e piangevano anche se noi non le prendevamo in giro. Un pianto cheto il loro, rassegnato. Un pianto senza lacrime.
La mamma non poteva starle a sentire e dalla cucina implorava che la smettessero e qualche volta veniva anche a picchiarle, nervosa e sfinita. Adesso so che mia madre non picchiava i suoi figli, ma picchiava la Miseria, quella ostinata Miseria che ogni inverno veniva a stare da noi.
Con la bora e con la Miseria arrivavano pure le processioni.
La gente capitava in cucina quasi di soppiatto, le donne infagottate nello scialle frangiato e con il fazzolettone nero in testa, gli uomini con i giachettoni lisi ed i berretti calati sugli orecchi. Si mettevano tutti accanto al focolare dove le fascine si consumavano troppo in fretta. I fratelli più piccoli dovevano fare posto sulla panchetta e andare, ancora scalzi ed assonnati, a piagnucolare e ad impastare moccio sui gradini della scala.
Quando io entravo, le mani gelate e le orecchie bluastre dall’aver rifatto la lettiera alla Viola e dall’aver trasportato il letame nella concimaia, l’aria era pregna dell’odore della grappa versata sulla tavola. Avrei voluto scappar via subito, senza neanche scaldarmi, in cortile a fare la punta ai pali per la nostra piccola vigna, ma mio padre era pronto a fermarmi con un’occhiataccia: si faceva posto tra la gente che vociava, protestava e litigava cercando con mille scuse e mille ragioni di avere la precedenza, mi porgeva il fagotto dei coltelli e mi spingeva verso la tettoia dove c’era la mola.
La processione ci seguiva fino lì e qualcuno per accattivarsi le simpatie si metteva lui alla ruota e faceva peggio, perché mio padre voleva che ci fossi io a pigiare sul manico lustro, onde imparare come dovevano essere tenuti i coltelli nel rifare il filo alle lame.
Quando la confusione diventava litigio, quando volava qualche parolaccia e le donne protestavano per qualche bestemmia tirata giù da chi di grappa ne aveva bevuta troppa, mio padre metteva fine alla disputa pronunciando qualche nome e rimandando gli altri a casa con mille scuse e mille promesse.
Ecco, incominciava così la stagione dei maiali.
Non c’era alcuno in quel nostro paesino abbarbicato tra le bianche pietraie del Carso che sapesse scannarli e squartarli come mio padre.
Dopo aver affilato con gran cura i coltelli, si metteva in cammino. Io gli trotterellavo dietro reggendo il grosso fagotto unto e bisunto, senza badare ai refoli della bora che s’accartocciavano attorno alle mie gambette scheletrite. Arrivavamo nelle aie dove già fumavano i calderoni di rame appoggiati sui grossi massi dei focolari improvvisati e dove c’erano donne indaffarate che spettegolavano, ragazzi arrampicati dappertutto, uomini che aspettavano con le mani in tasca.
Per l’occasione gli stabbi erano sempre ben puliti e le bestie, dentro, neanche ci vedevano, i piccoli occhi seppelliti nel grasso. Ma forse presagendo la sorte, i loro grugniti assomigliavano alle grida disperate di condannati a morte che diventavano più acuti, terribili, allorché gli uomini si avvicinavano vociando. Le bestie allora si cacciavano impaurite nell’angolo più riposto, grosse e pesanti dovevano venir trascinate fuori a strattoni e spintoni. Quindi venivano rovesciate in mezzo all’aia dove mio padre aspettava in piedi, infilato in quei suoi pantalonacci tutti un pattume di sterco, di unto e di sangue. Io gli porgevo il coltello, sapevo quale, e poi mi spostavo, con lo stomaco già in gola per la nausea. Egli allora mi agguantava per la collottola e senza dire una parola mi rimetteva accanto alla bestia. Dovevo star lì, ad imparare come vibrare il colpo, con forza, rapido, da sotto in su, tra il collo e la spalla e come conficcarlo il coltello, più profondo, fino al manico e poi levarlo, brusco, per lasciare che le vecchie raccogliessero nelle pentole il sangue che zampillava schiumoso mentre la povera bestia grugniva sempre più debolmente, gemeva sfinita, rantolava sussultando, finché alla fine stirava le zampe a dismisura e ristava, inerte.
Appena apriva il grugno, lasciava vedere i denti gialli e la lingua spessa, la prima operazione era finita. Gli uomini soffregandosi le mani andavano a bere un bicchierino di grappa, mentre le donne cominciavano a rovesciare sul maiale, steso immobile di fianco sopra un tavolaccio, i primi secchi di acqua bollente.
Quando mio padre tornava le setole erano già ammorbidite. A rasarle si faceva presto, ma i conati di vomito mi salivano acidi proprio allora, perché anch’io, come gli altri uomini, dovevo passare il coltello a pelo sulla cotica mentre l’acqua bollente spesso mi scottava le dita ed il tanfo oleoso si spandeva attorno con le volute di vapore alzate dai refoli della bora.
Quando la bestia era pulita da sembrare, così rosea, il sederino di un neonato, mio padre faceva due tagli per tirar fuori i tendini dai garretti. Attraverso quegli squarci veniva passato un palo pelato e lustro, che serviva per appenderla, testa in giù, all’architrave del portone o ai rami di qualche grosso albero.
Il taglio sul ventre cominciava dalla coda, passava in mezzo alle due file di capezzoli, arrivava all’ombelico, ancora più giù, fino al collo, e dapprima era soltanto una linea verticale appena visibile che s’allargava poi, sanguinolenta e spessa. Ed io dovevo star lì, con tutti quei coltelli in mano, e quando il ventre si apriva e mio padre vi infilava dentro prima una mano, poi anche il braccio a levarne il fegato ed il cuore fumanti che le donne aspettavano per preparare la merenda, quando le interiora cadevano dentro i catini e dalla cassa vuota si espandeva il lezzo untuoso ed i gatti attorno miagolavano isterici, inebetiti, mi mettevo a piangere.
Mio padre mi guardava stizzito, spesso con la mano sporca di sugna e di sangue mi mollava una sberla. Allora appoggiavo a terra i coltelli e correvo da qualche parte a rigettare mentr’egli taroccava inferocito: buono a niente che non sei altro, ché questo neanche è mio figlio, ma uno sputtanato da qualche signore, inutile che me lo porto dietro, non combinerà mai niente in vita sua, giuda d’un giuda!
Intontito, vergognoso, me ne stavo in disparte a fissare gli altri ragazzi che strillavano e si pigiavano attorno alla pozza di sangue per disputarsi la vescica, a guardare le donne con le maniche rimboccate e le mani affondate nelle interiora, ad osservare gli uomini che tenevano aperto lo squarcio del maiale dove mio padre lavorava con movimenti svelti e misurati finché la bestia penzolava divisa in due parti.
Una volta eravamo da Zaneto Tamburo nel piccolo cortile della sua stalla sul Pian messa come un balcone sulla vallata. Sua moglie Meneghina, già curva e vecchia poverina, con grande cura aveva raccolto il sangue per fare le “mule orbe”, i sanguinacci, con le mandorle e l’uva raccolta l’8 settembre, il giorno della Madonna del Zesteleto e lasciata appesa ad appassire nell’angolo più ventilato della soffitta. Mi aveva difeso Meneghina, e dagli insulti di mio padre e dalle risate di scherno dei suoi due figli grandi come una montagna. Dopo essermi vuotato lo stomaco a ridosso della muriccia, non resistetti più e scappai. Corsi a perdifiato lungo i sentieri, su e su verso i boschi di querce, verso il sole livido, quasi violaceo, con le lacrime che mi rigavano il volto e non sapevo se erano per il freddo che mi offendeva gli occhi o per quella disperazione che mi tenevo dentro.
Mi fermai da qualche parte, verso Salvamana, oltre il rudere della Madonna della Traversa. A ridosso di due mandorli stecchiti e grigi caddi sfinito sulle foglie secche. Supino spalancai le braccia. C’era un sole tiepido e stavo bene sdraiato sull’erba bruciacchiata dalla brina con attorno tutto quel silenzio, le pietraie dei dossi che brillavano e si perdevano come una cavalcata all’infinito, su e su verso le lontane montagne innevate. Raccolsi in giro un po’ di frasche ed accesi un fuocherello.
Non so quanto tempo rimasi a gettar sterpi sullo scoppiettio allegro. Era dolce starsene lì al sole accanto alla fiamma, guardare le pietraie e grattarmi. Perché nonostante la spidocchiatura di qualche giorno prima, il calore aveva fatto uscire dalle pieghe della maglia sforacchiata quegli insetti che mia madre non poteva far scomparire perché mai riusciva a cacciare da casa nostra la signora Miseria.
Mi levai la giacchettina, anche la maglia. La rovesciai sulle ginocchia. E fu come un gioco. Acchiappavo i pidocchi e li gettavo tra le fiamme. Un attimo dopo scoppiavano. Puf, puf, puf: era come se, di volta in volta, sparisse un po’ della mia pena. Puf, puff, pufff… pareva che il gioco non dovesse finire più perché immensi erano la mia rabbia, il mio cruccio, la mia disperazione.
Non so come accadde: una manica penzolò sulla fiamma, si accese, la maglia diventò subito torcia. Nell’alzarmi di scatto, anche la giacchettina cadde sulle braci. Terrorizzato, inebetito, rimasi a guardare come la stoffa veniva divorata dalle fiamme.
Mi scossero delle grida rauche. Mio padre a falcate rapide veniva su dalla vallata balzelloni, le braccia ancora sporche di sangue e gli occhi lampeggianti di rabbia. Per lo spavento impietrii, caddi in ginocchio, m’accucciai, diventai un fagottino, il capo nascosto tra le braccia.
Le grida s’avvicinarono: vagabondo che non sei altro d’un mangia pane a tradimento, ti metto a posto una volta per tutte, se non faccio uno sproposito oggi non lo faccio più!
Vidi le sue scarpacce sporche di terra rossa impastata a sangue ferme ad un palmo dalla mia testa e mi feci ancora più piccolo del fagottino che ero, nascosi la testa fino ad affondarla nel pietrisco.
Un’eternità in quella posizione.
Ad un tratto sentii come mio padre mi agguantava per la cintola, con uno strattone tentava di rimettermi in piedi. Mi divincolai con tutta la forza della disperazione finché mi accorsi che anch’egli era mezzo nudo come me.
- Toh, prendi! – mi disse porgendomi la sua maglia. – Infilatela e va a casa. Dritto, di corsa!
Ancora spaventato non m’azzardai ad allungare la mano.
- Prendi la maglia ti dico, giuda d’un giuda!
Me la gettò e poi se ne andò senza aggiungere altro giù per il sentiero stretto tra due muricce mezzo franate. Singhiozzando m’infilai la sua maglia, lunga era, come un camice, ancora calda. M’avviai verso casa.
E fu l’ultima volta che vidi scannare un maiale in quel mio paesino con le vecchie case cadenti messe a difesa delle dolinette di terra rossa tra le pietraie del Carso.