Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale

Parole intorno al fuoco

VIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2003

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

 

Segnalato

 

IL SOLDATINO DI GESSO

 

di Luigi Toiati

Roma

 

Mi comprò quei soldatini che era il giorno del mio compleanno. Era giugno, e giù al paese c’era la fiera. Facevo nove anni. Sarà stato perché la sua partenza per il fronte in Yugoslavia era alle porte, mancava si e no una settimana, ma quel giorno il mio papà mi fece davvero un gran regalo.

Un regalo da città, anzi. Un carrettino pieno di giocattoli importanti si era spinto fin sulle nostre montagne, in città ormai vendeva poco, s’aveva altro da pensare che ai balocchi. Per noi, un villaggio di cinque o sei malghe, la vita scorreva, con i suoi drammi come in città, ma vita e morte sembravano sogno, e risveglio, e poi ancora sonno. La gente partiva al fronte, qualcuno convinto, qualcuno no, qualcuno tornava in licenza. Qualcuno non più.

Mio padre diceva di non aspettarsi granché di diverso in Yugoslavia: neve come da noi, sparare che già lo si faceva a lupi e conigli, e alla zuppa ci pensava l’esercito.

Mio padre era tenente, il signor tenente Brembani, classe ’21, divisione Taurinense…, alpino, con penna, stellette, cravatta. Chissà perché, aveva studiato. Nello zaino avevo già sbirciato quei tre o quattro libri in quella lingua che non era la nostra, né l’italiano. Solo i nomi m’erano familiari, perché c’era l’Orazio, come uno zio della mia mamma, e Virgilio, come il falegname senza due dita che faceva santi e sedie giù alla chiusa.

 

Quel bellissimo giorno si traversò l’alpeggio noi tre, io, il babbo, la mamma. Lei splendeva di sole, io tirato a lucido di brillantina guardavo ora lei ora il babbo che per la prima volta sfoggiava l’uniforme. Ronzii ogni dove, e frinire e stormire, cinguettare e cicalare, sciabordio di ruscelli e brontolar d’abeti.

Il paesino sembrava avvicinarsi lui, anziché noi andargli incontro “ venite…siate allegri” diceva. E noi, si, s’era proprio d’accordo. Papà notò subito il carretto cittadino, non per niente lui in città c’era stato di casa.

Mi fermai in estasi, timoroso anche a toccare. E guardavo, guardavo.

C’eran cavallini con le ruote e trottole per i più piccini, e bambole con veri capelli per le femmine. Io viaggiavo con la fantasia su trenini a molla, volavo in biplani col fascio Littorio in cartone e tela, scivolavo in cortili e torri di alti castelli di masonite e gesso.

Poi li vidi. Una scatola con 13 soldatini di gesso, marca Confalonieri. Alpini, santo iddio, me li sognavo dai secoli dei miei nove anni!.

Per essere precisi: 13 uomini e due muli, con un mortaio in sul basto. Due conduttori, quattro in marcia, due sparanti in piedi, due in ginocchio, uno sdraiato, uno che tirava la bomba…e l’ufficiale, l’ufficiale come il mio papà, con la sua pistola, che tirava a un nemico invisibile, che salvava la patria, era lì, il signor tenente Brembani.

Quello vero, quello in carne e ossa e grigioverde, era a pochi passi e fumava, soddisfatto perché la mamma aveva una bellissima pezza di stoffa ricamata, e non smetteva di abbracciarlo, e di dirgli quanto l’avrebbe trovata bella, alla prima licenza, con quel vestito che lei si sarebbe cucito, e roba così.

A guardarmi in viso mio papà rimase con la sigaretta a mezz’asta. Dovevo aver il viso da pazzo, come il nostro cane quando si rotola nelle carogne degli animali sbucate dalla neve in primavera. Mi guardò, guardò nelle mie mani la scatola magica e capì. Mi sorrise, e quel sorriso era un si.

Contrattò un po’ con il venditore e l’affare fu fatto.

La mamma era buona, e mi comprò anche lei tra rimasugli d’occasione che erano in una cassetta al prezzo di un soldo l’uno, un po’ di nemici che mi servivano, sennò il signor tenente Brembani e i suoi uomini l’Italia da chi la difendevano? Così ebbi due o tre inglesi, un calmucco con mezzo fucile, qualche pellerossa, e un po’ di pastori da presepe, con bastoni nodosi che avrebbero certo usato contro il nostro Re e Imperatore, se ne avessero avuto l’occasione.

Non so se fu il più bel giorno della mia vita, so che lo vedo con quel chiarore e nitore con cui mi si stagliano in questo momento le cime delle nostre montagne, da quella nostra casa che non ho più lasciato. Basta.

 

Si tornò a casa, e con le sue mani abili papà mi costruì una piccola fortezza, con cammini di guardia, merli, e un ponte levatoio, e un’intera foresta di alberelli con le chiome di cartapesta. Poi partì.

Per le settimane a venire, niente posta. La mamma si industriò a cucirmi tanti piccoli sacchetti che riempimmo di segatura, e così ebbi il riparo per i miei eroi di gesso.

Arrivò una lettera: tutto andava bene, s’avanzava. I partigiani, si sa, davano qualche noia, ma tutto sarebbe finito prima dell’inverno. Io aggiunsi qualche rigo di mio alla lettera di risposta della mamma, che mi raccontasse, dettagliasse, ogni combattimento, colpo su colpo.

Così, da quel momento, la saga del tenente Brembani e del suo plotone d’alpini (e someggiata) prese vita.

Ogni sua lettera arrivava censurata (si poteva mica dire delle infamie degli uomini di Tito!), ma mi bastava ad imbastire storie su storie. E così a Korenica il plotone del tenente Brembani resisteva dietro ai suoi sacchetti preziosi contro forze preponderanti, che lanciavano micidiali piselli secchi dai loro cannoncini di latta, al coperto di foreste di cartapesta. Ma di notte il tenente con un pugno di valorosi ti fa una sortita, e gli inchioda i cannoni, a quelli, che, scemi, pensano a rinforzi, s’impaurano, e scappano.

Finché la stagione resse, sassi e avvallamenti erano le mie gole e montagne di Croazia. Avanzammo su Gospic, Otocaz, sgominammo torme partigiane, eravamo inarrestabili. O meglio, i miei alpini in gesso lo erano.Sul far della sera accendevo minuscoli fuochi per far scaldare il plotone del tenente Brembani al suo bivacco… con sentinelle all’erta tutt’intorno, naturalmente.

 

Poi arrivò l’inverno, e dovetti farmi montagne in casa con la tovaglia di cucina accomodata su pile irregolari di libri.

 Il signor tenente Brembani di gesso ora guidava l’assalto dei suoi uomini contro postazioni di partigiani, ora si difendeva, accerchiato ma vincitore.

Il tenente Brembani vero cominciò a scrivere meno e a raccontare poco. Era angustiato, lo si capiva, stavolta la censura tagliava di cancrene, fame, ustascia voltagabbana.

Ma io me lo portavo vittorioso su e giù per le montagne, convinto com’ero che fino che c’ero io ad animarlo, a dar vita al coraggio del Brembani in gesso, a lui, quello vero, non gli sarebbe mancato mai, e non gli capiterebbe mai niente.

Le lettere arrivavano di rado, in mucchi sempre più arretrati come dire per via dei collegamenti. Ma soprattutto scarne, e senza più sugo per le mie strategie. Ma il mio tenente Brembani era sempre in vetta, pistola puntata, uomini giubilanti, morti yugoslavi spalmati tutt’intorno.

Poi giorni, settimane, mesi, entrò la primavera e se ne andò, entrò l’estate. Niente.

Io persi il tenente Brembani. Mia madre aveva visto, disse, il gatto con qualcosa in bocca, ma non ci aveva fatto caso. Non avevo più il mio tenente. Cosa sarebbe successo a mio padre?

 

Lo sapemmo ai primi di settembre: il laconico “disperso” sulla cartolina consegnataci dalla Maria della posta ad occhi bassi diceva tutto e niente.

La mamma non rideva più, e io avevo smesso di giocare con i miei soldatini, giravo irrequieto per casa o nei boschi, immaginavo assalti e contrassalti, ma poi mi buttavo a leggere fumetti. Come poteva essere? I due Brembani dispersi? Loro, con il loro coraggio, che li tirava fuori da ogni impiccio, e con quella furbizia che si ritrovavan? Naaah…era mica possibile…eppure…

Lo trovai. Nel fienile. Il gatto ci aveva giocato, lo aveva mordicchiato e sadicamente gli aveva mangiato una gamba. Ora correva su una gamba sola, ed era assai malconcio. Ma perbacco, ancora puntava la sua pistola tutta sana, come sana era la piuma sul cappello. Allora, come il mio papà mi aveva raccontato dell’Enrico Toti gli feci una stampellina in legno con uno stuzzicadenti.

 

Da quel giorno, nelle mie storie, il signor tenente Brembani avrebbe preso la strada di casa. Indietro, verso casa, sulla sua gamba buona e sulla sua gruccia di legno, penna sul cappello! Quel giorno la radio disse qualcosa d’armistizio e per giorni e giorni veniva su gente a parlare con la mamma, concitati, di tedeschi che a valle davan di matto e sparavano a tutti, di paesani armati sui monti, di alleati che da nemici s’eran fatti buoni e che davano cioccolata a chi si portava bene.

 

Il signor tenente Brembani di gesso tornava, guidava il suo plotoncino verso casa, si difendeva dalle imboscate, dava giù busse a chi gli sbarrava il passo. Indietro, verso casa. I partigiani yugoslavi rotolavano giù come birilli, terrorizzati dall’eroe con una gamba sola e dai suoi alpini scalmanati. Via, verso casa.

 

Fu a metà ottobre. Ero in piena imboscata, la mamma urla, corro. La vedo incollata ad una macchia grigioverde, riconosco i suoi occhi, mi guarda, lo guardo. Gli corro incontro, ci abbracciamo. Lui non avrebbe mai più potuto corrermi incontro, con la sua gamba sola, l’altra amputata dopo lo sbando da un medico croato impietosito. Ma non fa niente, né per me né per la mamma. Lui è qui.

Poggiò il suo cappello con la piuma sul tavolo, e da quel giorno, ai suoi racconti di sera, dopo che di giorno s’era rifatto contadino, pur saltellando su di una gamba, ai suoi racconti le mie storie fiorirono, ripresero vita. E che vita.

Avevo riportato il mio papà a casa, lo avevo fatto passare per imboscate e agguati, gli avevo ridato coraggio.

Lo avevo chiamato.