Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale
Parole intorno al fuoco
VIII edizione - Arcade, 5 gennaio 2003
per un raccolto sul tema:
"Genti, soldati e amanti della montagna:
storie e problemi di ieri e di oggi"
Trofeo "Ugo Bettiol"
LA LUNGA MANO NERA
di Silvio Bordoni
Verdello (BG)
La striscia di luce sulla parete bianca stava per dargli fastidio. Così pure l’ombra del portalampade che si proiettava sul soffitto. Una sensazione che si ripeteva spesso, ultimamente. Quasi ogni sera. Quel letto antico, per lui sacro, e la stanza piuttosto disadorna, solo d’estate, poco prima del crepuscolo, ospitavano un timido raggio di sole che, di sghimbescio, filtrava attraverso la bassa finestra. Una stanza, in realtà, messa a sera, come a sera pareva ormai dirigersi la sua vita. Lui era l’unico della famiglia, ormai vicino ai sessant’anni, che si portasse addosso il capriccio o il peso o la fortuna di non essersi ancora accasato. Era giusto che sua sorella, la sola di loro rimasta in paese, occupasse le altre stanze della vecchia casa, assieme ai tre figli e al marito, quando questi, ogni fine settimana, le veniva restituito dalla pianura e dall’unico lavoro che la sorte gli aveva posto dinanzi senza alternativa. Purtroppo che si poteva fare in un paese di alta montagna! O andarsene o fare il putto, alla mercè del destino. Così come aveva scelto di fare. In tal caso, un’occupazione, anche di poco conto, non era facile da trovarsi. Giusto per sopravvivere. E lui, soprannominato l’orso del paese, l’aveva trovata, con un po’ di fortuna, due anni prima. Quasi per uno scherzo dello stesso destino, dopo una battuta di spirito, uscitagli davanti al bancone dell’unico bar del paese. Il turismo avanzava. Una lunga mano nera, oscura ai più, tranne che a qualcuno .- così si mormorava – che esercitava il potere sul piccolo paese, s’era calata su un’intera distesa di pascoli, ai piedi delle cime e a un’ora circa dall’abitato. Una mano potente, che nel giro di un anno aveva quasi sconvolto la zona. Fu così che, fra le altre cose, una nuova strada – che ancora sfuggiva alla perfezione delle arterie in atto in altre località più famose, ma che tanto sangue aveva tolto ai boschi e ai prati – s’era trovata a vivere una sua vita. Ebbene lui, scherzando una sera, nel portare il solito calice di rosso alle labbra, s’era spinto a dire al sindaco del paese, occasionalmente presente, che un uomo come lui, con tanti anni alle spalle di Svizzera e di Francia, avrebbe potuto fare benissimo il guardiano di quella strada, poiché era evidente che bisognasse starle dietro, come a una pecora indifesa e ribelle, se si voleva che apparisse comoda e sicura per i signori della pianura. Gli era andata bene. Da boscaiolo delle Alpi francesi e svizzere, ora, si portava addosso una nuova veste. Gli avevano persino messo a disposizione due tute da lavoro, addirittura luminose nel colore, anche se lui preferiva di gran lunga presentarsi alla sua creatura con la camicia di flanella o a torso nudo o con il vecchio maglione di lana-pecora. Certo, si stava affezionando a quella strada. Ne conosceva i punti deboli, alcune ferite qua e là, che si rifacevano ad intervalli sin troppo brevi; ma soprattutto di lei gli piaceva la pelle: una pelle non liscia e levigata. Né tutta eguale, com’era quella delle strade asfaltate, bensì una pelle ruvida ma viva, dove la ghiaia e i sassi e i ciuffi d’erba e il terriccio facevano strani scherzi, improvvise rivoluzioni, dopo la furia dei temporali, procurandogli sempre nuovo lavoro. In ogni caso, lui voleva bene a quella strada. Neanche fosse la sua sposa! A volte – era pur vero -, ricordandosi dell’antico paesaggio, le sussurrava che, forse, avrebbe preferito, in cuor suo, non ci fosse. Ma subito le chiedeva perdono. Non perché, per lui, lei costituisse una fonte di sopravvivenza: no! Semplicemente perché lei, in fondo, non aveva colpa. Non sempre la colpa è di chi nasce. Di chi si trova, a sua insaputa, al mondo. E questo valeva per tutto e per tutti. Quella nuova strada conduceva in alto, dove alcuni impianti da sci erano stati installati, in fretta e furia, ma che, in pratica – a differenza di quanto succedeva in altre località più popolate e meglio attrezzate – funzionavano di rado, a causa anche della scarsità di neve.
Ma ora, un fatto nuovo stava per accadere. E quella sera, sdraiato sopra l’antico materasso a molle – solo come sempre – meditava. La luce accesa,anche se fioca, lo tormentava più di altre volte. Ogni sera, consumato un breve pasto e dopo aver fatto il consueto giro su e giù per il paese, esaurite le solite due chiacchiere con le solite facce e, talvolta, con la sorella, saliva volentieri nel suo abitacolo. Tutti quegli anni trascorsi da emigrante lo avevano reso quasi incapace di inserirsi appieno nel resto della sua gente che, peraltro, già gli pareva mutata e che - lui spesso se lo immaginava – lo considerava un po’ matto. Così si accovacciava volentieri sul letto: quasi come un cane, in attesa del sonno. E teneva per un po’ la luce accesa. Non che avesse paura: alla sua età e con tutte quelle esperienze alle spalle da emigrante solitario, non era proprio il caso! Lui, piuttosto, sapeva il perché di quell’indugiare tra luce e ombra, prima di concedersi al sonno. Soleva passar parola con le pareti della stanza, con i pochi oggetti sparsi qua e là. Che risultava immancabile, per esempio, era il lontano, immaginario ma vivo suono della fisarmonica. Uno strumento e un suono che, ogni volta, attraversavano tutte le cime conosciute, i pascoli tanto amati, gli anni da emigrante e, grazie a loro e alla sua fantasia, gli infondevano un senso di pace. E un calore e un profumo incontrastato di amicizia.
“ Quando qualcuno ti offende, quando ritieni che qualcuno ti abbia offeso, non farglielo capire con modi bruschi perché non capirebbe…” – “ Siamo tutti prigionieri. Il nostro carcere, se così vogliamo chiamarlo, è la vita, ma le celle della vita contengono tanta libertà se tu concedi agli altri tuoi compagni di avventura la stessa libertà di esprimersi che tu vorresti e se offri loro un sorriso amichevole ”.
Queste e altre espressioni di suo padre si mescolavano al suono della fisarmonica, così come i canti e i balli della gente. E in quel suo navigare tra i ricordi anche il sonno si accovacciava accanto a lui, quasi dispiaciuto di dover , di lì a poco, interrompere una magìa così sublime. Ma il padre e la madre erano le altre creature a cui indirizzava i suoi pensieri. Sì, i suoi due vecchi, morti da alcuni anni, cinque per la precisione: uno dopo l’altro, nel giro di pochi mesi. Da allora li aveva lì davanti. Appesi di fronte a lui, sulla parete bianca e spoglia. Visibili. Immutabili. Ancor vivi. Che gran bella coppia! Il padre, con i suoi baffi fiammeggianti: due uncini asciutti, imperturbabili, che lo definivano meglio di tante parole. Aveva fatto in tempo a studiare sino alla quinta elementare, prima che scoppiasse la grande guerra. Inoltre era considerato il saggio del paese. Ogni tanto, fuori dalla cascina – sotto il grande noce - , leggeva qualche libro, un po’ sgualcito, che il prete del paese gli passava, anche se lui, suo padre, non si nascondeva l’estro e l’istinto di dire la sua – quando, da alpino verace, gli saliva in bocca – a quel rappresentante di Dio sulla terra, che tuttavia rispettava. La madre, con la camicetta della festa, di pizzo bianco, che le cingeva il collo, come fosse neve perenne, custode di un corpo immacolato. Un pizzo fatto a mano. Delicato: pari alla dolcezza ubbidiente e dignitosa che traspariva dagli occhi. Poveri, cari vecchi. Ora parlava spesso con loro: più di quanto non avesse fatto durante la loro vita. Ah quella Svizzera e quella Francia! Quanto li avevano tenuti lontani da lui! Ah quella benedetta montagna! Quello stare fuori dal mondo! Eppure si pentiva, a volte, di quel suo pensare così della montagna. Di quella creatura verso cui, mai come ora, si sentiva attratto in modo così sconvolgente, tanto da non riuscire a comprendere a fondo il perché di quel richiamo così struggente. In realtà un motivo c’era. Anzi più di uno: come sempre in tutte le cose. E il suo cuore, più di ogni altra ragione, lo avvertiva, nel profondo del suo consumarsi. Si doveva modificare – così erano stati gli ordini misteriosi - il tracciato della strada. Non solo, ma addirittura aggiungerne un pezzo, lungo più di due chilometri, che collegasse il paese con l’altro situato sotto il versante ovest della montagna. Ma non era quella l’unica verità. La nuova strada, grazie a una incomprensibile deviazione, sarebbe dovuta proseguire verso l’alto. Su pascoli nuovi, a lui ben noti, liberi da impianti da sci. Ed era ciò che più stava a cuore a quella mano misteriosa, il cui resto del corpo non si sapeva a chi appartenesse. L’idea era quella di edificare, anzi far sorgere con la grazia e la magìa di un fungo, una specie di zona residenziale sul confine tra i pascoli e la pineta, comprendente alberghi, mini abitazioni, piste di pattinaggio e persino – così si mormorava – dei negozi venditutto. Roba dell’altro mondo! Invece di favorire e mettere in atto il ripristino della vecchia ma redditizia agricoltura di montagna – come aveva asserito, ancor prima di morire, suo padre - , ridando in tal modo il sorriso alle baite, ormai del tutto abbandonate, e ai pascoli, infestati di erbacce e complici – loro malgrado - , assieme all’acqua del cielo, di smottamenti pericolosi, ecco invece, nuovamente, il vezzo di pensare solo a coloro che non erano nati lì. E poi alla fin fine, a che cosa e a chi sarebbero servite tutte quelle novità? E pensare che in passato ci stavano mucche e capre e pecore e muli; il via vai dei montanari e le baite e i boschi in bello stato. E, d’inverno – talvolta anche prima - , trionfava pure il grande silenzio bianco della neve. Ma, in fondo, a lui che gliene importava! Lui chi era? Chi erano gli altri suoi paesani? Alcuni di loro, però, tiravano da quella parte. Parevano d’accordo con quella grande idea, bisognava ammetterlo. Più gente, più movimento – dicevano – voleva dire più commercio. Miglior vita. Ma sarebbe stato proprio così? Simone ne dubitava. E se tutto , poi , fosse finito in una bolla di sapone? Tranne i soldi, naturalmente, tanti senza dubbio, andati a riempire le tasche di qualcuno che – come era accaduto in altri posti – manco più poi si sarebbe interessato a quella fetta di mondo, ormai deturpata e sfruttata. Ah quali pensieri! Si chiedeva, a volte, se per caso, sotto sotto, non ci fosse, da parte sua, anche un po’ d’invidia e gelosia. Ma di che? Della nuova strada? O di quella stessa che tanto amava e che, una volta subìto il manto di asfalto, non gli avrebbe più richiesto le sue cure? Le sue premure. Non l’avrebbe più così dolcemente salutato, al levar del mattino. Oppure gli rodeva dentro, sotto la cenere del suo cuore, quell’altro antico amore? : il destino, cioè, ormai segnato, di quella sua poca ma cara proprietà ereditata. La vecchia baita, con il noce a far da sentinella, il pezzo di prato attorno e un po’ di bosco. Ah! – dimenticava - : pure il quadrato dell’orto e il pollaio che aveva realizzato accanto. Ma se anche fosse stato questo il suo più grande rammarico, che cosa potevano dire tutte quelle sue creature? Mica potevano parlare, loro! E se anche avessero potuto, non sarebbero comunque riuscite a farsi capire. Il loro modo di esprimersi, come, del resto, quello di tutta intera la montagna, era antico. Pari al linguaggio del pettirosso solitario, che con il suo insistente tic-tic sorprendeva e salutava le albe e i tramonti, e chiamava tutti i suoi montanari a innamorarsi, sempre di più, dei boschi, dei pascoli. Delle cime eterne. E del silenzio.
“ Non abbia paura Don Mario “ – aveva detto un giorno sua madre, fuori dalla chiesa, a quel prete novello venuto dalla pianura, un po’ spaesato, apparentemente timido e certamente lontano dai rumori della sua città – “ Qui, il silenzio, ha due anime; una, che ti fissa per parlarti; l’altra, che sta in attesa della tua parola. Fidati di noi, Don Mario,. E fidati, soprattutto, del silenzio “.
Certo, quelle sue cose, appartenute prima ai suoi due vecchi e che, ora, erano sul punto di sparire, lo rendevano tremendamente triste. Peggio, lo ferivano a morte. “Vedi, caro Simone “ – aveva insistito il sindaco, che si diceva avesse studiato presso la scuola di fondo valle e frequentato classi superiori a quelle di suo padre – “ Come fai a non capire? E’ una normale operazione tra due parti. Come quando tu ed io abbiamo discusso il tuo posto di custode della strada. Loro vogliono semplicemente allungarla, asfaltando, s’intende, anche quella che già c’è e che tu chiami la tua strada – così mi dicono in tanti. E questo tuo attaccamento mi fa piacere. Il prezzo che ti offriamo non è da buttar via, coi tempi che corrono. Cosa te ne fai di quei quattro muri cascanti? Per passare con la nuova strada, che porterà a noi più turisti, bisogna per forza buttar giù tutto. Non ci sono altri punti dove poter passare.Tra l’altro è un posto, il tuo, un po’ pericoloso. Anzi, piuttosto pericoloso. E’ tutto in discesa, con il torrente addosso”.
E, a quel punto, lui aveva osato guardare male il sindaco. Puntargli contro uno sguardo non certo convinto e remissivo. Ah se ci fosse stato ancora suo padre! Il prato in discesa? Ma quanti sono i prati in montagna che non hanno una pendenza? Il sindaco, come se niente fosse, aveva tirato diritto.
“ Proprio adesso t’è venuta la smania del possesso? La voglia di lavorarci sopra? Bisogna guardare in faccia al progresso! E’ anche un fatto di cultura “.
Cultura? Che parola grossa per lui. L’aveva sentita pronunciare più di una volta, in televisione, giù al bar, ma nessuno mai gli aveva spiegato cosa volesse significare in realtà quella parola. Quale verità e innocenza contenesse.
L’ombra del lampadario si muoveva sul muro della stanza, come se seguisse il fluttuare dei suoi pensieri. Simone sentiva il sonno occupargli pian piano gli occhi. Forse, di quella sottile ma pressante presenza, lui non ne avvertiva l’intento amichevole. Del resto, quella sera, non voleva arrendersi. Dormire significava quasi morire: lavarsene le mani, mettere il cuore in pace. E perché doveva aderire a quel tipo di pace? Perché scomparire sempre? E se poi dopo la cascina e il prato e un po’ di bosco, gli avessero portato via anche il lavoro? Con i mezzi moderni lui poteva non servire più come custode di quella strada. Non accadeva forse così anche in tanti altri settori della vita lavorativa? E quanti erano coloro che, di punto in bianco, anche in pianura, si ritrovavano sul lastrico! “ Abbiamo sbagliato tutto e tutti! “ – confessò a se stesso, restando immerso nelle coperte, quasi a sentirsi più sicuro, come gli accadeva da bambino, ma, al tempo stesso, più clandestino. “ Il nostro amore dov’era e dov’è, verso la montagna? “ . No! Sarebbe stato come emigrare un’altra volta dalla sua terra. Peggio! : abbandonarla definitivamente. Contribuire a distruggerla. Massacrarla. Non poteva permetterlo, ora che si sentiva veramente suo figlio. Che i suoi due vecchi lo perdonassero in quel momento! Perdonassero quell’idea che si stava facendo strada in lui. Ah se avesse potuto spiegargliela a voce! In fondo, la cascina l’avevano tirata su loro. E se non proprio tutta loro,nella fase iniziale, i loro padri. E se tutte le cascine dei vecchi o dei padri dei vecchi fossero state abbattute, chi li avrebbe più ricordati? E le loro anime dove mai si sarebbero rifugiate? E senza quelle anime vaganti sui pendìi delle montagne, le montagne stesse sarebbero rimaste orfane e mute. E sole.
Bisognava proprio che spegnesse quella luce. Ormai non gli andava più di vedere l’oscuro fascio sinistro muoversi sul bianco del soffitto. Come una lunga mano nera. Guardò i suoi due vecchi, e solo allora gli sembrò di sentire una voce amica. Soffusa.
“ Parla – tu che ancora puoi – alla nebbia, che talvolta sale dalla valle e che anche tu ben conosci… a quella dolce nebbia che a volte ci dava fastidio ma che spesso era utile alla salute e ai nostri pascoli… ebbene chiedile “ – diceva quella voce – “ di nascondere il nostro piccolo cuore, che ancora lì vaga. Non per spegnerne del tutto il suo lume, bensì per preservarlo da tanta cecità “. Nessun’altra parola l’avrebbe tanto consolato come quell’implorazione! Si commosse, come non mai. E si decise. Bastava non farsi vedere. Nessuno avrebbe saputo chi era stato. No, che ingenuità! Doveva farsi vedere, invece! Eccome! Altrimenti nessuno avrebbe capito. Ma sì, che gli avessero pure tolto il suo lavoro! Avrebbe lasciato la sua amata strada. Occupato, magari, un posto in galera. Del resto, lui non godeva di alcuna immunità. Che gliene importava. Molto meglio la prigione, con la coscienza a posto, che la libertà, con un grosso nodo in gola e un instancabile rimorso. Sarebbe stata una prigione ancor più tremenda. “ Sfuggire a se stessi è come navigare su una barca a vela in pieno oceano “. Chissà perché gli era venuto quel pensiero. Forse, tali parole, le aveva sentite dire da qualcuno in terra di Svizzera o di Francia, anche perché lui, il mare, non l’aveva proprio mai visto in vita sua. Sorrise ai suoi vecchi e spense la luce.
****************
Dopo quella sera, Simone trascorse una settimana di quasi assoluto silenzio. In paese tagliava corto con le parole, quasi timoroso che la sua idea potesse sfuggirgli. Pareva, a volte, essergli seccata la gola, al pari di certe sorgenti sopra i pascoli, d’estate. Una settimana di incubi. Ma la decisione era ormai già stata presa. Ogni alba di quei sei giorni, peraltro, gli aveva infuso forza e coraggio. Così il sole, nel suo sorgere.
Persino la nebbia densa e chiara, sopraggiunta puntualmente dopo un temporale, gli aveva allontanato ogni dubbio: lui le aveva parlato. Ora non si sentiva più un uomo solo. L’orso del villaggio. Si sentiva un popolo: un intero popolo fatto di uomini e natura, che chiedeva e reclamava giustizia. Certo, c’erano infinite ingiustizie al mondo: piccole e grandi. Ma ciò che può apparire, all’inizio, non di grosse dimensioni, piano piano si sviluppa come un tumore e diventa devastante. Per lui, che, ora, serenamente e strenuamente si sentiva di agire in nome di tutti, quel che stava per accadere attorno, che toccava il suo presente e il suo passato, gli appariva già devastante.
Era quasi buio. Le case, sotto di lui, si preparavano alla notte: alcune addossate tra loro e al lume di un lampione; altre più sparse, sul pendìo della montagna. E senza lume. Ma sopra ci stava la luna: una luna da poco apparsa e, per la verità, un poco pallida. Da sembrare morente: come cosa che appartenesse o che stesse per appartenere a un altro mondo. Eppure irradiava una luce strana: chiara e velata. Forse erano gli occhi di lui, umidi di lacrime sottili e per nulla invadenti, a farla apparire tale. Se si dovesse distillare una lacrima – così pensò in quegli istanti – si potrebbero di certo trovare, dentro a quelle sue infinite particelle, tutti i silenzi e le angosce e le gioie dell’intero mondo. Non ricordava quando aveva pianto l’ultima volta. E dire che in quel momento lui non intendeva farlo. Non ne capiva il motivo. Erano loro, le lacrime, che avevano deciso di scendere sulle gote fresche della sera. Sospinte da chissà chi. Simone era solo, ma faceva piano. A tratti si fermava a guardare. In su e in giù. Verso il cielo e sul paese. Esitava, non perché provasse paura per quello che stava per fare, ma perché non aveva mai guardato il suo paese così. Il cielo, così. S’incuneò a fatica tra le due lamiere della baracca, messa in piedi dall’impresa appaltatrice dei lavori. Sapeva di trovare quel che cercava. “ Mio Dio, era proprio del tutto fuori di testa! “ . Così, senza dubbio, avrebbero detto di lui, i suoi compaesani, inventando, assieme ai giornalisti e agli immancabili spioni della T.V., anche le cause: la solitudine e quel suo modo di stare al mondo. Risalì ancora per poco la strada, sino al punto in cui avrebbero dovuto deviarla: quella sua strada, con la quale gli piaceva spassarsela, al punto da perdere ore e ore a strappare l’erba e le radici dai cigli. Anche là dove, in realtà, non se ne vedeva traccia alcuna. A pochi passi, ora, la sagoma della sua cascina – la si scorgeva nella penombra – pareva osservare i suoi movimenti. Dargli il benvenuto. Sotto di lui, una macchia irsuta di rovi copriva un salto di una decina di metri. Il prato attorno cessava la sua scomoda pendenza al culmine di un masso, che ora s’intravedeva appena ma del quale Simone conosceva bene l’esistenza, accompagnata da teneri cespugli di muschio che, qua e là, lo avvolgevano. Da ragazzo, mentre suo padre si trovava nelle vicinanze, soleva sedersi sull’orlo del precipizio e, con i piedi penzolanti nel vuoto, guardare giù nella valle. Contemplare le case e immaginare l’ignoto, soffiando, nel contempo, gioiosamente, sulla piccola armonica a bocca. La strada, che prima non c’era, passava ora, in quel punto, sopra il letto del torrente: quello stesso che, come allora, si strusciava contro la roccia e si buttava al di sotto. Girò dall’altra parte. Fece un saltello e si trovò dentro come niente. La visibilità non era delle più adatte, e neanche la luna, seppur nella sera inoltrata, lo aiutava molto in quel punto. Fece qualche passo a tentoni e s’incuneò sotto il ponticello. Nel riporre i due candelotti usò l’accortezza che la miccia non venisse a contatto con la poca acqua. Sudava. Come quando lavorava di piccone e di carriola. Ma stavolta il sudore era gelido e lo sguardo un po’ appannato. Quando tutto fu a posto – ne aveva fatti di quei lavori sulle montagne della Francia e della Svizzera – raccolse le forze, risalì il breve greto del torrente e sedette un attimo sullo stretto sentiero che conduceva alla cascina. Chiuse gli occhi e si ritrovò col pensiero nella sua stanza: in quella che era stata la culla della sua idea. Un’ombra scura si allungava ancora sulla parete, quasi che – in sua assenza – volesse prendersela con i due vecchi, sempre e comunque saldamente appesi alla parete. Se li sentiva vicini. “ Fai bene figlio! E’ ora che qualcuno faccia qualcosa! “. Il tono perentorio di quella voce lo rincuorò. Suo padre era più vivo che mai.
“ Simone stai attento! Tieniti a distanza o ti farai male! “. Così, teneramente e con apprensione, lo redarguiva la madre. Riaprì gli occhi. Guardò la cascina. Gli sembrò che si fosse fatta più grande: divenuta un insieme di cascine. Un intero paese: come se, un vento speciale, che dietro di sé non lasciava alcun rumore, soffiasse, all’improvviso, dentro le inferriate del fienile. Tra i vetri semirotti della stalla, gonfiando i muri e il tetto. E un sogno. L’antico sogno. Provò a stendere la mano sull’erba: era umida, come i suoi occhi, ma non ancora bagnata di rugiada. L’accarezzò. Il leggero brusìo dell’acqua si diffondeva come la cantilena di una ninnananna. Si levò in piedi. Era giunto il momento. Frugò nella tasca e ne trasse una scatola. Il primo fiammifero di legno si spense quasi subito. Si chinò e accostò la scatola al suo corpo. La miccia era lì. Davanti a lui. Attaccò al secondo tentativo. Sollevandosi, ripose la scatola nella tasca: le mani gli tremavano. Si passò il fazzoletto sulla fronte gelida. E ora via! Doveva risalire in fretta, ma un pensiero improvviso lo colse. E se quando dal paese, a seguito del fragore, si fossero mossi per accertarsi dell’accaduto, non poteva forse qualcuno – giunto sul posto in fretta e furia e con la strada che aveva ceduto e il buio della notte imminente – cadere nella voragine? Questo non poteva permetterlo! Certe immagini televisive gli si fecero incontro. E davanti gli si presentò la figura del terrorista. Se ne parlava spesso, ultimamente, nel bar del paese. Ma lui sempre aveva pensato, e talvolta anche apertamente asserito, che – secondo lui – non si doveva fare di ogni erba un fascio. L’idea che tutti, al mondo, potessero essere tacciati da terroristi non lo convinceva. Gli sembrava un po’ troppo comoda. Bisognava distinguere terrorismo da ribellione. C’era – secondo lui – anche chi, al mondo, era costretto a opporsi – certo, senza fare vittime innocenti - per combattere e contrapporsi a delle grandi ingiustizie. Quello che stavano facendo alla sua montagna, per esempio, quella sì, gli sembrava una forma di terrorismo: contro la natura e un diverso destino degli uomini. Mio Dio, che beffa! E se, per davvero, l’avessero preso per un terrorista qualunque? : l’uomo orso del paese, diventato improvvisamente folle a tal punto. No! Lui si sentiva d’essere solo un piccolo rivoluzionario. Macchè!: un semplice povero ribelle che voleva far conoscere a tutti un’ingiustizia – senza, per questo, fare del male a nessuno. Con lui seduto davanti alla cascina ad attenderli – meglio ancora, sul bordo della strada, per evitare loro un tragico incidente - , con lui testimone e protagonista e, per di più, reo confesso, avrebbero capito. Il sangue gli saliva in gola. Doveva raggiungere il masso al più presto. Fece per muoversi ma non gli riuscì. I piedi sembravano diventati di pietra. “ Forza Simone, per Dio, dài che ce la fai! “ , urlava qualcuno dall’alto. Si mosse finalmente un poco. Ancora un paio di metri ed avrebbe rimediato. Un bagliore, nel frattempo, si sprigionò dal basso. Il corpo ricadde poco più in là, unitamente a del terriccio e ai sassi. Sul letto umido del prato. Scivolò alcuni metri più in giù e poi si mise per traverso. Gli occhi si mossero, ma finirono quasi subito per restare spalancati. Giusto sopra di loro stava la luna pallida: quasi morente. Pronta a dissolversi nel nulla, come se ormai non servisse più a nessuno. Come a nessuno sarebbe servito quel tentativo consumato sotto la sua luce, così stranamente desolata di quella sera. Ancora una volta gli uomini non avrebbero capito. Forse un giorno: in modo diverso. Tutt’attorno il buio riprese ad allungarsi: come una lunga mano nera. A farsi sempre più prepotente. Invincibile. Il tutto, lì: in quel pezzo di mondo dove ormai, a quelle ombre sempre più vicine alla notte, stava per cedere, definitivamente, anche la sera.