Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"

VII edizione - 28 ottobre 2001

80° Anniversario della Sezione di Treviso

 

Primo classificato

e Medaglia del Presidente della Repubblica Italiana

OTTOCENTO

di FRANCESCO PALOSCHI

Via Zanella, 3

30173 MESTRE (VE)

 

Guarda che giornata è venuta fuori. Incapaci. Come se tu non lo sapessi, che se il cielo si apre da ponente viene bello tutto il giorno. Niente. La predica, loro, dovevano fartela: fa ancora troppo freddo, e c'è umidità nell'aria, e portati l'ombrello, e ce l'hai la maglia di lana. Danno a tutti dei tu, quelli, e ti mettono pure le mani addosso.

Avevi conquistato la porta avanzando goccia a goccia col tuo bastone di faggio lucido, il tuo cappello con la piuma e il giaccone buono. Ed eccoli correrti appresso sventolando quel foulard insopportabile. Te l'hanno girato intorno al collo e l'hanno stretto di fretta, con aria rassegnata, come s'assolve alla più meccanica mansione di un mestiere deprimente.

E fatto che tu esca è una scocciatura, per loro. Vorrebbero farti marcire dentro quell'ospizio, ecco cosa vorrebbero. La tua salute... non ti sei mai fidato dei medici, figurarsi di quattro inservienti che s'improvvisano dottori! E il freddo? Quello vero nemmeno se lo sognano, loro. L’hanno mai provata una tormenta a duemila metri di quota? Non sanno cosa siano gli aghi di neve che ti perforano la faccia, affondare un passo alla volta contro un muro di vento lamentoso, la mantella ghiacciata che ti oscilla addosso rigida come un pezzo di cartone, rasentare gli abissi di una parete di roccia con la prospettiva di un telo tenda per riparo all’arrivo in vetta, sempre col terrore del fuoco austriaco e del flagello delle valanghe. Quell'inverno del diciassette ce l'hai ancora dentro... Gente che si lava cori l'acqua calda anche d'estate: sono convinti sia merito loro se. tu hai passato i cento. E si aspetterebbero pure la tua gratitudine!

"Qui a mezzogiorno, Ottocento, e attento a non farti prendere sotto per strada." Come a un cane. Non ti chiamano mai Giulio: tu per tutti sei 'Ottocento', un alieno del diciannovesimo secolo.

L’ultimo che ti chiamava col tuo nome è stato 'Trilussa'. Piace persino a te ricordare Antonio con quel nomignolo che gli avevano affibbiato. Antonio recitava a memoria un numero incredibile di versi del poeta romano. Te lo vedi ancora lì, in piedi, al centro del refettorio, la mano sinistra portata con stile sotto la gola, a declamare rime come fosse ai Parioli, col suo bel vocione roco e i suoi formidabili occhietti neri.

"Er porco e er somaro" annunciava d'improvviso ad alta voce, tirandosi su dalla sedia con solennità teatrale. La sala taceva. Robe da matti. Quella massa sbrodolante e sgangherata di vecchie dentiere si trasformava, come d'incanto, in una dignitosa platea. Lui attaccava adagio:

"Una matina un povero Somaro, ner vede un Porco amico annà ar macello, sbottò in un pianto e disse: - Addio, fratello: nun se vedremo più, nun c'è riparo!..."

Era un fenomeno, Antonio. Da ragazzo affrontava le crode più impervie delle Tofane come un moccioso che salisse su un ciliegio maturo. Nel luglio del diciassette - mentre stavate a snervarvi in trincea da sei giorni - il capitano Bossiani incaricò lui d'una perlustrazione solitaria delle linee nemiche, per stanare le postazioni di due laceranti mitraglie. L’azione sarebbe servita - disse Bossiani - per organizzare l'attacco decisivo sull'anticima del Piccolo Lagazuoi, ed era sicuro che Antonio, di fronte a quell'ordine pauroso, sarebbe stato tra noi l'unico a non fare storie. Era evidente per tutti che si trattava di una decisione scellerata, di un'impresa impossibile e probabilmente inutile. Il capitano Bossiani era notoriamente un codardo e un incapace e la truppa non riponeva in lui alcuna fiducia.

Invece Antonio approfittò della nebbia che ristagnava quel mattino in quota e, senza esitare un momento, uscì strisciando allo scoperto. Rimase acquattato ad aspettare dietro un masso per circa un minuto. Gli austriaci non aprirono il fuoco, segno che non s'erano accorti di nulla.

"Giulio - lo sentisti chiamare, quel pazzo - se non dovessi tornare, dà quella busta a mia madre." Guardasti per terra: sotto un sasso c'era la busta bianca con dentro la lettera che aveva appena terminato di scrivere. La raccogliesti e te la infilasti velocemente nella tasca.

"Ma va, va, cosa dici... sta giù, Antonio, sta giù" dicesti a mezza voce da dentro lo scavo nella pietra. Antonio era già partito e aveva raggiunto, un po' correndo e un po' carponi, nascondendosi e sostando di roccia in roccia, la parete che saliva verso le postazioni nemiche. Lo vedesti arrampicarsi, superare un tratto a strapiombo e raggiungere una prima cengia. Di lassù sali ancora, e presto sparì nella nebbia. Aveva compiuto diciotto anni il giorno prima: avevate festeggiato a cioccolata e grappa, passandovi la bottiglia accovacciati in trincea.

Ricordi come fosse adesso: udisti una prima scarica di mitaglia austriaca; poi un'altra, e un'altra ancora; provenivano dall'alto, lontane, attutite dalla nebbia. Ma ti squassarono il petto più che se t'avessero colpito. Capisti che avevano beccato Antonio. Cercasti lo sguardo dei capitano Bossiani: il graduato abbassò gli occhi, e si mise a cercare chissà cosa nella borsa.

D'un tratto il fuoco cessò. Porca miseria! Non ci fu il tempo per lasciare andar giù neanche una lacrima, non ne avesi il tempo perché Antonio era già lì, ai piedi della parete, rannicchiato a riavvolgere la corda con cui s'era calato. Quattro balzi da lepre e fu con voi nel fossato. Disse ansimando: "Missione compiuta, comandante. Gli austriaci hanno tre mitraglie, nascoste dietro a dei pinnacoli - col dito indicò una direzione nella nebbia. Una è sicuramente inceppata, le altre due sono puntate giusto verso di noi."

Gli occhi adesso ti lacrimavano, 'sti disgraziati, fregandosene di tutti i tuoi sforzi di contegno. Ti asciugasti rozzamente, da uomo, usando la manica della giacca. Afferrasti Antonio per un braccio. Fissandolo dritto in faccia lo scuotesti energica- mente, senza riuscire a spiccicare una parola. Lui ti guardò con un sorriso fiammante. Tirasti fuori la busta e gliela schiaffeggiasti su quella sua testa di legno. Si mise a ghignare, diavolo d'un ragazzo. Allungò una mano e ti rubò una cioccolata dalla tasca della borsa.

Eravate li, a scherzare e a far la lotta come due mocciosi alla fine della scuola, quando vedeste che il capitano Bossiani era uscito dalla trincea. Se ne stava ritto in piedi sopra una roccia, le mani sui fianchi e la testa alta a dominare la montagna. Aveva l'espressione di chi avesse portato a compimento l'impresa della propria vita. Sentiva d'aver stanato il nemico invisibile e con gravità militaresca lo sfidava attraverso la nebbia. A denti serrati mormorò qualcosa: intendesti appena una bestemmia, mentre il vento urlava infuriato alle pietre. Alcuni ciottoli rotolarono su un ghiaione poco distante. All'improvviso da sopra fecero fuoco, una serie breve e secca di colpi. Bossiani s'accasciò come un sacco vuoto per terra, senza proferire lamento. Una pallottola gli aveva trapassato il cranio. Aveva ventitré anni e s'era programmato il matrimonio per la fine del- la guerra.

Ecco la tua panchina. L’aria è pulita e tiepida, finalmente ti siedi un po' e te la godi tutta. I salici sono sempre i primi ad inverdire, a starci sotto sembrano accarezzarti le spalle. Li senti come avvolgerti, coi loro lunghi rami penduli, le loro foglioline tremule. Ti abbracciano come si abbraccia una persona, perdio, non come appena si sfiora un vecchio, un po' per riguardo e un po' per schifo.

"Una mattina un povero Somaro, ner vede un Porco amico annà ar macello, sbottò in un pianto e disse: - Addio, fratello: nun se vedremo più, nun c'è riparo!..."

Ah, che commediante era Antonio. Modulava la voce in modo da condurre l'ironia a toccare il culmine nel finale. Recitava l'ultima strofa sbracciandosi e torcendosi non si sapeva come (coi dolori che si portava sulla schiena! ... ), e strappava l'applauso scatenato di tutto il refettorio:

"Bisogna esse filosofo, bisogna: - je disse er Porco - via, nun fà lo scemo, che forse un giorno se ritroveremo in qualche mortadella de Bologna!"

Soddisfatto come un discolo si sedeva e ti guardava, mentre la sala intera rideva e batteva le mani. Vi sorridevate, voi due, senza bisogno di dire nulla. In silenzio vi versavate del vino e buttavate giù assieme, d'un fiato.

Antonio se ne andò a settembre, un pomeriggio di tre anni fa. Si sentì mancare salendo le scale - era il solo che si ostinava a non usare l'ascensore -, si piegò sulle ginocchia e rovinò da basso fino alla base della rampa. Così ti raccontarono. Tu, in quel momento, stavi in giardino ad aspettarlo: un minuto prima sedevate assieme sotto il grande olmo vostro confidente. Parlavate di montagne, di alte vie, di memorabili cantate sotto la neve; quando d'un tratto disse: "Torno subito, aspetta qui, Giulio. Vado su a pigliare una certa foto..." Si alzò. Vacillando penosamente, con quella sua sciatica che lo opprimeva, andò via. Succedeva così ogni qualvolta gli saltasse in testa qualche idea stramba, e non c'era verso di fermarlo.

Aspettasti, e poi t'accorgesti che in casa c'era movimento. Corresti dentro come può correre un vecchio. Antonio era lì, steso immoto sul pavimento. Nella caduta se l'era fatta addosso, e aveva perduto una scarpa. Era morto, tu lo sapevi che era morto; gli inservienti allontanavano i curiosi, che era già stata chiamata l'ambulanza. Quando arrivarono gli infermieri fecero spostare tutti. Caricarono Antonio sulla lettiga arricciando il naso per il fetore. Si vedeva bene che per loro quello era un morto da nulla. Per quelli là era perfettamente normale che un vecchio cadesse dalle scale. Che invece Antonio fosse un leone, che Antonio arrampicasse come un gatto, che per Antonio ci volesse altro che una scala, lo sapevi solo tu, e mai svelasti ad alcuno quelli ed altri vostri segreti.

Il tuo modo di non arrenderti è quello di camminare, misurando ogni passo e distribuendo gli sforzi. L’importanza è non stancarsi di andare. Vai su e giù per il corridoio d'inverno, ma appena fa più caldo esci all'aperto. Tre mesi fa, dall'altra parte dell'isolato, hanno incominciato dei lavori. Da dietro i vetri hai seguito a lungo il braccio meccanico della gru, mentre roteava maestoso come un'aquila in ricognizione sopra i tetti. Sentivi il rombare forzato delle ruspe, il tonfo metallico degli escavatori, il ronzio monotono delle betoniere. Ora, finalmente, a quel cantiere sei quasi arrivato. Hai stimato un percorso di circa cinquecento metri, che al tuo passo ha significato un'ora esatta di strada, compresa la sosta alla panchina. Ma ne è valsa sicuramente la pena. I cantieri sono un'attrazione. Sono fatti apposta per i vecchi e i pensionati, che osservano quello che gli altri non hanno il tempo di fermarsi a guardare.

Scopri che come un fungo sta venendo su una palazzina. Riscatta un terreno fino allo scorso autunno usurpato dalle erbacce e dai topi. Quando arrivi c'è già un discreto pubblico. Ti guadagni un posto di prim'ordine a lato di un mucchio di sabbia. Gli spettatori hanno le schiene un po' arcuate e le teste bianche incassate tra le spalle, le mani dietro la schiena o le braccia conserte, le gambe leggermente aperte. Qualcuno è venuto in compagnia di un consumato cagnolino, che approfitta delle occupazioni del padrone per annusare un po' intorno. Assieme a loro ti metti a contemplare quel brulicare vitale e magnifico di macchine e' di uomini. Con tutte quelle prediche idiote sul freddo, in questi mesi ti devi essere perso una bella parte di spettacolo. E' buffo, però, come uno corra e si agiti tutta una vita per poi finire sempre a guardare cantieri dalle recinzioni.

Quegli operai sono esattamente come eravate voi alpini. Avevate anche voi altri spalle splendide come le loro, e braccia, e muscoli come i loro. Sicuro. Appoggiata a un muretto tengono la bottiglia col vino, voi invece infilavate la borraccia fra i sassi. Ma c'era lo stesso vino, ed era lo stesso sudore, e le stesse faticose bestemmie. I camion portano e scaricano di continuo i materiali; con le pale si distribuiscono le malte sulle carriole. Rivedi l'affaccendarsi energico con cui voi tiravate su fin sulle cenge gli attrezzi, il tavolame, i sacchi di ghiaia e i cannoni, con l'ausilio delle carrucole e delle corde. In questa primavera di città, tra i vani ventosi dei piani alti, tra le finestre senza infissi, sulla cima delle impalcature, quegli operai inspirano e bruciano la stessa aria frizzante che gonfiava i vostri polmoni nell'azzurro estivo delle Tofane.

Costruiscono e installano e montano e innalzano. La forza ad un tempo muscolare e cerebrale con cui voi aprivate buchi nella montagna. Provavi un'euforia liberatoria quando le mine scoppiavano facendo saltare in aria la dolomia. Dalle gallerie uscivano lingue di fuoco, la roccia tremava e si sbriciolava ed era un rotolare di pietrame dappertutto. Ti piaceva attendere in silenzio il diradarsi del fumo dopo la deflagrazione e capire gradualmente come aveva agito l'esplosivo. Entravate nella caverna a testa bassa, e davate vita al cadenzare preciso e operoso dei picconi. A lavorare così ti sembrava di rifarti come uomo. Buon dio! Con gli orizzonti infiniti che vi donavano le cime in quel paradiso di nuvole e roccia, possibile non foste capaci che di abbruttire tutto col sangue, e di nascondervi gli uni gli altri come ladri? Scavare e costruire. Caverne, gallerie, trincee e camminamenti: era l'unica attività che reputavi degna d'essere chiamata umana in quell'inferno primordiale di divise e di pallottole. Ecco, ti senti legato agli uomini di quel cantiere da una comune forza costruttrice. E' un agire laborioso e mai finito, il vostro. Tra di voi ve la intendete cosi, in una complicità per cui non servono contratti scritti, ma che vi fa incidere insieme il corso del tempo. Oggi, Giulio, oggi sei ancora vivo. Sai che quel cantiere è anche il tuo.

Ti si avvicina un omone in canottiera. Fa passi enormi e mentre avanza sembra sia annoiato a morte. Noti in lui una statura che non ricordi esistesse ai tuoi tempi. Ti fissa con uno sguardo a metà tra l'impietosito e l'arrabbiato. Ti spiega frettolosamente che lì non ci puoi stare, che è pericoloso. Ti, chiama ‘nonno', ti prende per un braccio e ti accompagna più in là di trenta metri. Tu avresti mille cose da dirgli, ma niente da fare: resti muto come un sasso. Ti lasci portare. Infine quello si volta e se ne va via.

Di voltarti indietro a guardare non te la senti più, non ti sembra il caso. Meglio che t'incammini verso l'ospizio, c'è un sacco di strada da fare. A pranzo, al venerdì, danno sempre il dolce, porzioni da diabetici e dementi. Pensi che ne chiederai due fette, già. Ovvio che non te le daranno, ma non importa. Capiranno bene chi sei, altro che minestrine.