Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"

VII edizione - 28 ottobre 2001

80° Anniversario della Sezione di Treviso

 

Trofeo Ugo Bettiol

per un racconto su tema di particolare attualità

 

L’ESCURSIONE

 

di Francesco Paloschi

Via Zanella, 3

30173 MESTRE (VE)

Eccoli, sono loro. Ma cos’ho fatto di male? Eppure sono anni che nessuno, qua sopra, muore più per causa mia. D'accordo, qualche piccolo infortunio è capitato, contusioni, anche fratture… per distrazione o incompetenza, tuttavia. Per quel loro disgustoso, ostinato senso d’onnipotenza e di sfida. In ogni caso direttamente non c'entravo.

Non ricordo neppure quanto tempo è passato dall’ultima frana. Non mi lascio più andare da un pezzo. Forse le valanghe? Dovrei scontare la pena per quelle? Via, erano tutte innocue. Qualche piccolo sfogo una vecchia montagna dovrà pure concederselo, e poi ho sempre controllato di non avere impiastri tre i piedi.

Niente.. Puntuale, il castigo arriva ogni ottobre.

Confesso che il sollevamento è stato meno traumatico. Tremila metri in altezza, migliaia di chilometri di esilio verso nord. Dal mio sacco amniotico tropicale di acque tiepide e serenità bentonica il mare mi ha tradito e si è ritirato, senza dirmi niente, millimetro dopo millimetro in silenzio mi ha venduto all'arsura, alle intemperie, all'aggressione subdola dei vegetali. Da allora non è stato che un calvario di spinte e schiacciamenti, costretta a svettare a quote sempre più angosciose, la mia bella pelle carbonatica sferzata dal vento e dal freddo, le mie viscere cristalline stritolate fra due continenti, roccia che mi si piega e mi si sbriciola dappertutto, e masse che si fratturano, che slittano, che si accavallano, e poi torrenti che incidono come rasoi, che mettono a nudo i miei strati e la mia intimità, e ghiaccio che come un tarlo consuma, e perfora, e gratta, e dirama... Ma almeno, dico, almeno la cosa è stata graduale. Non è troppo doloroso, dopo tutto, se ci metti una trentina di milioni d'anni. Fai in tempo ad adeguarti, intendo. Questi qui, invece, in una giornata sola mi sconvolgono.

Li sento salire da sud, il pullman divora tornanti e pendenze. Non esistono più le belle corriere discrete ed esitanti di una volta. Dovevano fermarsi a rifiatare, a bere acqua e sputare vapori, l'ascesa era una lotta di sbuffi e di ridotte. Oggi non c'è speranza che cedano. Quel ronzio implacabile del motore, quei retrovisori ad antenna d'insetto. Sono locuste ad alta tecnologia, non ci si può salvare. E questa "va gravida di larve voraci e micidiali. Senti, senti dentro che berciare fanno, con che razza di caos volgare e arrogante attraversano il silenzio dell'abetaia. Ogni nuova, annata è peggiore di quella che l'ha preceduta.

Ti chiedo perdono, montagna. Sono ancora io il responsabile di quest'offesa. Recidivo da quindici anni, non posso chiederti comprensione né intendo accampare scuse. Ammetto che è tutto accuratamente programmato, anche il mio cinismo davanti al tuo lamento. Lo sforzo maggiore è anzi proprio per questo, fingere di non sentirti: è l'unico dettaglio dell'escursione che non mi riesce abituale.

Questi ragazzi sono i peggiori che ti abbia mai portato. Sono il frutto disgustoso dell'urbanizzazione, il trionfo affermato della dottrina del consumo. Non ce n'è uno che non giurerebbe d'avere intorno dei pini, e credo terrebbero acceso lo stereo anche visitando un tempio religioso. E' tuttavia proprio per questo che non ho rimpianti e che l'anno venturo tornerò con altre classi.

Non conosco luogo più sacro di questo. La foresta è preghiera anche solo a sostarvi in silenzio. Quante volte, montagna, mi hai ricevuto nell'ombra delle cattedrali d'abeti, custodito nei chiostri di pascolo e roccia, incensato col profumo delle resine e delle essenze. Ti devo sguardi di pace sul digradare dei crinali, i concerti dei colori sui declivi d'autunno, il fruscio d'ali dei rapaci nel gioco contro il vento. Mi hai donato radure soffici dove posare la tenda la sera e torrenti benevoli per svegliare le membra al mattino. Sei l'orizzonte su cui s'ossigenano gli occhi nella prigionia del cemento di pianura e fino a quando ti saprò presente, avrò la certezza di potermi liberare. Vedi, vorrei che i miei allievi apprendessero le scienze come strumento per gustare la bellezza. Vorrei sapessero che lo studio di una struttura, la conoscenza di un processo biologico, la comprensione di una reazione metabolica non turbano ma arricchiscono la contemplazione di un fiore. Come posso, però, parlare loro di natura senza lasciare che sia tu stessa a parlare?

Credono, gli inetti, che il quarzo che mi staccano a brandelli possieda chissà quale recondito valore. Altrimenti che ragione avrebbero, ogni sciagurata volta che arrivano, di frugarmi tra gli scisti del basamento per cercare di metterne in tasca qualche lente? Il pullman è parcheggiato davanti al camping Sass Maor, l'autista si fuma in pace una sigaretta. Le quattro rane sparute del Prà delle nasse li hanno osservati con sospetto fiancheggiare la torbiera. Orda di mocciosi! A San Martino, sotto i piloni della seggiovia, conservo un piccolo affioramento di vecchie filladi. Sono povere rocce fragili e stanche che ne hanno passate di tutti i colori. Neanche a farlo apposta proprio su quelle si accaniscono. Goffi come papere su dirupi da camosci s'arrampicano fino alla base dei piloni d'acciaio, e qui senza freni si danno al saccheggio. Spaccano i pezzi e li ispezionano dentro, ciò che non interessa lo gettano a terra, raschiano e divelgono come fosse roba loro. Là che assiste agli schiamazzi e allo scempio c'è la più nobile delle mie foreste. Gli abeti hanno fornito legname alla grande Repubblica marinara di Venezia, e si sono resi preziosi per la fabbricazione dei liuti Stradivari. Provo vergogna io per loro, sbarbatelli senza storia né rispetto.

Salendo col pullman avrete notato che il bosco ha cambiato aspetto. L’abete rosso ha lasciato il posto al larice, che come vedete si dispone in insediamenti meno fitti per esporsi meglio alla luce del sole. E' una pianta che si definisce eliofila, cioè bisognosa di luce. Bene, la parete che abbiamo di fronte, ragazzi, è una delle più spettacolari di tutte le Dolomiti ed è un libro naturale aperto sulla storia geologica di questa zona. Attenti, le rocce che la compongono e che vedete susseguirsi stratificate si sono formate sì sul fondo del mare - rocce sedimentarie, ricche di fossili, ricordate in classe? - ma è necessario che ci liberiamo di un equivoco: quassù il mare, assolutamente, non c'è mai stato! Sono state le rocce, per così dire, a salire. Andiamo con ordine, guardate, - va bene, tra poco pranziamo, ora cerca di seguire un poco -, dicevo dunque, bisogna distinguere...

Spiego loro come riesco la tua storia travagliata ma non pensare, montagna, che crescere per un uomo sia impresa di poco conto. Una genesi accorciata di duecento milioni di volte non comporta grande risparmio di fatica.

Racconto della tua antica litogenesi sul fondo del mare, così graduale e perseverante da protrarsi a cavallo di due ere, mentre gli esperti anfibi e i giovani dinosauri si contendevano il dominio delle terre emerse. Lavorasti con calma, strato dopo strato, il patrimonio grezzo di materiali fangosi. Costipasti alla base i sali bianchi delle secche, più sopra la coltre delle marne variopinte, impreziosire da conchiglie e stelle marine incastonate. Sulla parete più didattica che conosca, l'avvicendarsi dei gessi a Bellerophon con i calcari e le argille del Werfeniano espone le produzioni sedimentarie di stirpi di bacini e di organismi marini. Le scogliere al vertice del Cimon della Pala le tieni in alto con orgoglio come uno stendardo, a segnalare l'ultimo bastione di dolomia sul lato meridionale delle Dolomiti.

Chiarisco al gruppo che il sollevamento è faccenda assai più recente, un processo cenozoico chiamato orogenesi che in modo impercettibile continua tuttora, frutto dell'avvicinarsi dell'Africa all'Europa. Ciò che la tettonica erige e costruisce, l'atmosfera nel contempo provvede a livellare: l'ultima fase della tua esistenza è un lavorio certosino di ghiacci e torrenti, un picchiettare di raspe e scalpelli lungo le valli e per le creste ventose.

I ragazzi non reggono troppi dettagli e anno dopo anno tendo a semplificare. Preferisco dilatare il tempo dell'osservazione e li disperdo tuo malgrado ai piedi delle evaporati. Sperimentano rigando con l'unghia che anche una roccia può rivelarsi tenera, inseguono concentrati indicando col dito la continuità tortuosa degli strati impiegati. E' la scuola migliore anche per me stesso, che me ne resto a distanza ad osservarli. Raccolgono e indagano alla base della parete, vengono a sottopomi i campioni con insolita serietà e insieme ragioniamo sul riconoscimento. Mentre dico che molti ciottoli li ha deposti il torrente, che questi sono porfidi, queste altre arenarie, mi accorgo che porteranno a casa qualcosa di diverso, che non sarà semplicemente un pezzo di gesso in un sacchetto.

D'autunno ci facciamo compagnia, io e i cervi. Gli umani spariscono d'un colpo alla fine dell'estate, tornano a farsi vivi imbacuccati e smaniosi di divertimenti quando la neve viene a riparare i prati dal gelo. Da settembre fino a Natale rimango sola con loro, i grandi e fieri ungulati, che mi raccontano di viaggi lontani e di gustose saghe familiari. Sono ospiti pacifici e discreti, ne ho accolto con piacere il ritorno a Paneveggio alla metà del secolo scorso. C'è chi provvede a nutrirli e proteggerli, io mi limito ad offrire lo spazio necessario. Per il resto s'adattano con poco, mantengono un'aria libera e distinta anche dentro la recinzione.

Hanno un modo signorile di accettare i giovinastri, non sembrano infastiditi dall'impudenza. Quelli si agitano dietro la rete porgendo gli avanzi del panino e s'inventano i richiami più ridicoli, neanche chiamassero delle bertucce allo zoo. Dall'ombra sotto le fronde i cervi non si scompongono, li osservano a distanza e lasciano fare. Un maschio paziente e regale avanza verso la recinzione e si concede agli sguardi. Ruota lievemente il capo ed espone le coma ampie e tornite, fa notare che il velluto sui palchi è lacerato e che sul collo sta crescendo la criniera. I consueti preparativi stagionali. Chissà se queste cose a scuola le insegnano e chissà se agli alunni interessano.

Ci sono due femmine ancora più magnanime che sentono il dovere di accettare un boccone. Fiancheggiano silenziose il recinto e si chinano a raccogliere un resto di merendina, e i fili d'erba strappati e infilati attraverso la rete. Sarà che la vecchiaia mi ha irrigidito ma non mi riesce di accoglierli con altrettanta apertura.

Dopo aver pranzato disseminati sul prato si spostano lungo il sentiero dietro la segheria. Mi auguro non salgano sui tronchi accatastati, pivelli di città che non distinguono il pericolo. E che non si sognino di montare tutti sul ponte sospeso, perché quel trabiccolo regge fino a un certo punto. Possibile debbano farmi stare in pena in questo modo? Mi si crepa la roccia al pensiero. Scavato nel porfido c'è uno strapiombo di ottanta metri, e quel torrente senza pietà risputerebbe i corpi chissà dove. Quassù di questi tempi non gira più nessuno: chi li ritroverebbe? Speriamo abbiano riguardo almeno dì se stessi.

A gruppi di otto, raccomandando d'evitare oscillazioni, li accompagno sul ponte di corde d'acciaio teso sopra la forra del Travignolo. Il fragore rabbioso del torrente mi costringe ad alzare la voce per farmi sentire. I ragazzi sono saturi di spiegazioni e allergici, dopo il pasto, a qualunque genere d'impegno. Il tenore culturale di una gita scolastica segue, fisiologicamente, un andamento di ripida discesa. So tuttavia che il sapore dell'avventura riesce a risvegliare l'interesse. Ne approfitto per mostrare l'acqua che scava e leviga le ignimbriti, che salta di pozza in pozza, che perfora come un trapano dove ruota vorticosa e che deposita sabbia laddove rallenta. Immagini, sempliemente. Spendo poche parole, giusto l'indispensabile, lavoro sull'incisività di immagini ed emozioni. Recupereremo tutto sui banchi con calma, l'escursione all'aperto diventa un album di fotografie mentali dal quale attingere esempi per le lezioni in aula. Così accade che la tua presenza, montagna, si dilata fino a casa, mi prendo la libertà di declassarti a sussidio didattico. Il mestiere d'insegnante porta a fare lo stesso di ogni cosa. semplificare e ridurre per poter spiegare. Devo ancora capire, te lo dico in confidenza, se si tratti di un furto o di una donazione.

Ho i minuti contati, come sempre. Sbrigarsi a finire le osservazioni dal ponte, ripercorrere il sentiero in salita, rispettare l'appuntamento con l'autista sulla strada. Poi, in viaggio, non si potrà evitare una pausa bagno a Fiera di Primiero, non si potrà sorvolare il traffico del tardo pomeriggio, non si potrà non rispettare l'orario di rientro concordato in Consiglio di classe e comunicato ai genitori. Comprimere la dimensione geologica del tempo naturale dentro gli orari strozzati della civiltà moderna. Ecco il miracolo dell'escursione.

Il pullman ci aspetta col motore acceso. Esigo che siano seduti tutti prima di contarli. Li conto due volte, per sicurezza, andando e venendo nel corridoio fra i sedili. Smonto per controllare che niente sia rimasto a terra, spingo in bagagliaio gli zainetti che debordano dal mucchio e chiudo con un colpo secco il portellone. Tutto a posto. Il tanfo stomachevole di gasolio mi rovina l'ultimo respiro d'aria pulita. Pazienza. Tomo a bordo e mi abbandono nel mio posto in prima fila, di fianco al collega d'italiano, un uomo buono che si è prestato a venire. Finalmente do l"'andiamo" all'autista. Sono esausto, com'è giusto: mi pare il minimo della pena. Scusami ancora e grazie, montagna, con te aumenta anche quest'anno il mio debito infinito.

Sono partiti. Il pullman valicherà il passo Rolle tra qualche minuto e presto scenderà per la valle del Primiero. Vadano, vadano anche loro. Rari umani coraggiosi hanno provato un crepuscolo d'ottobre ad alta quota. I pochi che vengono in questa stagione spariscono da basso prima del calare del sole. Non sanno cosa perdono.

Se l'alba è la festa solenne della luce e incede accompagnata dall'orchestra degli uccelli, il tramonto di un giorno autunnale osserva un cerimoniale austero. Le tinte calde all'orizzonte si estinguono in fretta, la roccia si raffredda e la foresta si oscura sommessamente. Non c'è dolcezza nel tramonto d'ottobre, nessuno spazio a romanticherie. L’aria si fa cruda e rarefatta. Le cime degli alberi sostano immobili, il sottobosco tace e aspetta. Come a rimpiangere un'armonia rubata si levano versi solitari e inquieti. Prima che il buio si risolva a scendere, quassù bisogna fare i conti con l'incertezza. E' lì che si coglie il valore del tempo.

Non importa, attenderò da sola, come ho già fatto miliardi di altre sere. Dubito conoscano anche il senso dell'attesa. Seguiteranno a credere, probabilmente per sempre, a tutte le fesserie che sentono raccontare, che la vita effimera di una persona è un niente, al confronto dell'immensità delle ere geologiche, del lento fluire del tempo universale... Fossero rimasti ancora un poco soltanto: il crepuscolo viene apposta per svelare il contrario. Qui non ci sarà foglia o insetto, né rivolo d'acqua o alito di vento che si presenterà dinnanzi alla sera senza avere reso onore ad ogni istante del giorno vissuto.

Facciano pure, buttino l’occasione e non si guardino indietro.

Attenzione su quel tornate! Dico, non cercheranno mica delle grane proprio sulla schiena di una vecchia montagna? Guarda che manovre, quei pullman assurdi sono sempre più lunghi e le curve della strada rimangono strette. No, meno male, pare che l'autista sappia il fatto suo. Mi auguro sia ancora lui, il prossimo anno. Chissà mai, forse i nuovi venuti non avranno tutta questa fretta di scappare.