Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"
VI edizione - 5 gennaio 2001
Terzo classificato
HLEB
di Roberto Masiero
Mogliano Veneto (TV)
Facevo una fatica boia a estrarlo. Oramai non passava quasi più dal foro dei pozzo. Pozzo per modo di dire. Era impossibile evitare che quel secchio bastardo dondolasse. Ogni volta batteva sul bordo e gli spruzzi ghiacciavano quasi immediatamente. Forse era una punizione dell'inferno. Un maleficio. Per noi che li sfidavamo nella loro terra. Terra di antidio, protetta da chissà quali spiriti che resistevano incattiviti. Invisibili. Oramai si distingueva appena, sulla crosta ghiacciata del suolo, quel cratere sempre più ristretto. Ogni volta che ero di turno dovevo fare attenzione, ma era attenzione sprecata, madonna santa. Il secchio si stava strangolando con la sua stessa acqua, prima o dopo restava sotto. Madonna santa, che freddo! Anch'io mi sentivo di strangolare come quel secchio. Natale era appena passato. Buffo. Con tutto quel ghiaccio, là fuori, non avevamo quasi più neanche l'acqua per impastare il pane per la truppa. Chissà? Mi piaceva immaginare che a casa, malgrado la guerra, qualcuno aveva mangiato una fetta di dolce.
La linea del fronte lungo il fiume Dniepr, era lontana qualche chilometro. A noi delle retrovie ci apparivano mille. lo non c'ero mai stato in prima linea. Me la immaginavo bianca, infinita. Snervante come un'insonnia. Oppure me la figuravo come una serpe che fa finta di dormire. Ero destinato alla Sussistenza. A far pane. Nel campo giravano poche notizie. Bollettini ufficiali. Tutto bene. I russi erano sempre in ritirata. Non capivo perché eravamo piantati li da due mesi. Ammetto che ero sospettoso per carattere, ma in fondo era tutto così normale intorno. Ero proprio uno stupido santommaso. Ammetto che un poco mi vergognavo.
Giravano storie di eroi. Una ventina dei nostri aveva fermato nientemeno che i COSACCHI! Erano apparsi all'improvviso. Come generati da quella nebbia pulviscolare, aliena. Alti sui loro cavalli. Un battaglione, che sciabolava feroce nella penombra. Solo i bolscevichi potevano essere così feroci. Ma niente da fare con i nostri ragazzi. Altro che soldatini di piombo! Ci sentivamo protetti da tutto quel coraggio. In giro si disse che uno si era quasi fuso una mano col calore dell'arma. Non se ne seppe mai il nome, ma tanto bastava. Non era un soldatino di piombo.
Noi dietro avevamo più bisogno degli altri di quelle storie. Mi strangolava il senso di vuoto, l'attesa. Di tanto in tanto ci giungeva, ma attutito, il rumore delle granate.
Quello lo sentivamo fisicamente. Era come una minaccia sospesa, diffondeva intorno un'inquietudine soffocata, ma pungente. Una specie di promemoria tipo "non illudetevi". Eppure, quel senso di sottile paura, in quella apparente lontananza, era come se non ci appartenesse. Era un'altra cosa, rispetto alla nostra vita al campo. Temevo soltanto le incursioni dei caccia. Con la nostra contraerea che abbaiava inutilmente, come un cane da guardia legato. Allora via, a tuffarmi di corsa nel rifugio, a dividere lo spazio con i topi russi, spaventati anche loro.
Della prima linea intuivamo la violenza, accompagnando con gli occhi quei compagni che tornavano indietro distesi sulle barelle. Grandi burattini di pezza rotti, sembravano. Dopo la recita. Inservibili. Rattoppati come si poteva con le pezze sempre troppo chiazzate di rosso.
lo combattevo la mia guerra contro il fumo dei forni, che certe notti il vento respingeva indietro dal camino, giù giù per il tubo. Nemico anche lui, quel vento russo. Dentro al capannone, con l'aria impestata di un odore acre. Annullava il profumo del pane fresco. Catrame, catrame, madonna quanto catrame! Tossivamo tutti. Dalle quattro di notte a mezzogiorno. Anch'io sbottavo continuamente e impastavo e cuocevo, meglio che potevo, quel benedetto pane. Certe notti non se ne poteva proprio. Mi pareva di avere più catrame addosso che il fondo di una barca. Allora uscivamo. Fuori tutti a respirare. Notti nemiche da meno quarantatré gradi.
Guardando in alto quel cielo che sembrava un coperchio ermetico, (forse qualcuno ci chiudeva là sotto apposta), non potevo scordarmi di quelli che lo avrebbero mangiato già freddo ghiacciato, quel nostro pane, là nei fossi bui delle trincee. Che imbecille a lamentarmi! E allora via, dentro di nuovo a cuocerlo meglio che si poteva, quel cazzo di pane. Presto. E se le lacrime mi impedivano di tenere gli occhi aperti, davo quasi tutta la colpa al fumo.
Lizavèta l'avevo incontrata proprio grazie al fumo. Con i miei compagni Antonio e Sandro avevamo scovato un ricovero nel villaggio. Nelle tende al campo uno ci poteva dormire solo se aveva già deciso che voleva morire assiderato. Non era il caso nostro. Preferivamo che fosse la sorte a decidere come. Ci era andata bene. Alloggiavamo in un appartamento di una palazzina semivuota. Si stava da dio e ci stiravamo come gatti, al calore della stufa di ghisa. Di lusso. Stesi sul pagliericcio, quando si poteva. Un giorno la stufa si era tanto commossa per noi disgraziati e aveva preso a vomitarci addosso fumo anche lei. Basta, basta! Ci precipitammo al piano di sotto. Vivevano ancora dei civili. A gesti gli facemmo intendere che volevamo invitarci dentro. - Freddo, freddo - dicevamo, battendoci le braccia incrociate.
Inizialmente la famiglia dell'ingegnere ci accolse con rassegnazione. Cercammo di essere dei nemici educati. Vivevano in tre, in quella casa. Lui, che avrà avuto quasi sessant'anni e leggeva molto, la moglie piccola, ma efficientissima e silenziosa, e poi Lizavèta. Dovevano averla messa al mondo tardi. L'altro figlio più grande era stato richiamato, ma era sempre con noi in cucina. Ci guardava senza invidia dalla foto sulla credenza. Lei aveva solo ventidue anni. Quando usciva fuori indossava un fazzoletto bianco. Solo dentro casa si poteva scoprirla in tutta la sua grazia. Con quei capelli foltissimi e bruni. che si intrecciavano come onde disordinate, malgrado gli sforzi della spazzola. Precipitavano morbide sul viso di panna. Aveva un certo modo di guardare, curioso e piacevolmente infantile, ma allo stesso tempo ostile. L'avrei corteggiata volentieri, ma eravamo nemici. Il suo modo di guardare accentuava senza illusioni quella barriera. In compenso, di giorno in giorno, il nostro rapporto col resto della famiglia faceva progressi.
Certamente eravamo ruffiani. Forse avevamo semplicemente bisogno anche noi di una famiglia adottiva. Magari ci bastava una bugia.
Quando c'era l'occasione, facevamo per loro dei lavoretti. Roba semplice, per sdebitarci, tipo portare dentro il carbone. Qualche volta risparmiavamo un po’ di rancio e lo portavamo al nido. Ci avevano assegnato una stanzetta con un letto vero. Loro dormivano tutti e tre nell'altra. Stretti. lo avevo in mente un posto migliore per Lizavèta, ma non era il caso di proporlo.
Nelle ore libere stavo con l'ingegnere. In qualche modo ci capivamo. Mi piaceva il suo modo di ragionare. Non parlavamo mai di politica.
Una sera mi prese da parte. Era seduto di fronte a me e mi chiedeva qualcosa. Veramente non lo guardavo diritto in faccia. Puntavo un po' più in alto. Cercavo Lizavèta che spazzava Iì intorno. Di quando in quando mi pareva che anche lei mi cercasse un attimo con gli occhi.
- Non è un caso, - mi dicevo. - Non è un caso! - Intanto l'ingegnere doveva ripetermi due volte le cose, se voleva che gli rispondessi. Avevo la scusa della lingua. Ad un certo punto tirò fuori una scatola di legno. La teneva nascosta dietro ad uno scaffale di libri. L'aperse. Ne trasse fuori alcune immaginine sacre e me le mostrò ad una ad una in silenzio. Mi impressionò il santino dove era rappresentata la Madonna. Più scura di viso, più contadina, ma vestita più riccamente di quelle nelle nostre chiese. Bella. Col suo bambinello splendente d'oro anche lui. L'ingegnere mi fece intendere che loro erano gente di fede. In quegli anni dovevano tenerlo nascosto, come se si trattasse di una colpa inconfessabile.
- Madonna, - pensavo, - che faccenda terribile. - Non potevo sottrarmi dal pensare che ero Iì a combattere anche contro l'ingegnere. Per coerenza dovevamo farci del male. Tra noi, stessa fede stessi principi. Cominciavo a pensare di trovarmi in un assurdo gioco di dama. Qualcuno daltonico aveva distribuito le pedine senza criterio. Senza dividere per colore. Bianchi e neri insieme dalla stessa parte. Bianchi e neri contro. Le idee si mescolavano confusamente nella mia testa. Non era più così facile riconoscere i nemici. Per un soldato era pericoloso. - Per lui è peggio ancore - riflettevo. Perdente in ogni caso, in quella strana partita. Se vincevano i suoi, era costretto a imbavagliare per sempre le cose in cui credeva, Non c'era alternativa. Poteva forse augurarsi che la sua terra fosse spartita tra i nemici, cristiani che - in grazia di Dio - magari gli accoppavano un figlio? Brutta faccenda. Ero convinto che nei eravamo dei liberatori, ma un po' mi sentivo prigioniero anch'io. Troppe contraddizioni, per la mia povera crapa.
Mi mostrò il santino di un frate incappucciato. Col saio nero. Spiegò che era San Sergio. Era così buono, venerato proprio come il nostro Francesco. Poco importa se uno ammansiva un lupo e l'altro preferiva l'orso. Mi venne spontaneo di baciare quell'immaginina. Lo feci con devozione, anche per rispetto all'ingegnere. Solo in quel momento mi accorsi che si era avvicinata anche Lizavèta. Era sorpresa della fiducia che mi dava suo padre. Mi sfilò di mano il santino col San Sergio.
Lo fece con dolcezza. Lo baciò anche lei con incredibile tenerezza. Oh Dio! In quel momento preciso mi sentii devoto, devotissimo a quel monaco. Non sapevo quasi niente di lui, ma doveva essere proprio santo. Per me quel bacio era un segno. Ohoh! Anche San Sergio era dalla mia! Improvvisamente mi sembrava che tutto quel patire in quella terra fredda era stato un niente, tutto quello che accadeva era giusto, se quello era il prezzo che avevo dovuto pagare per incontrarla. Mi incantavo a pronunciare, sillabandolo, il suo nome bellissimo: Li-za-vè-ta.
Ero riuscito perfino a lavarmi un poco, prima di ritornare a casa di Lizavèta, quella notte dei trentuno dicembre millenovecentoquarantuno. Avevamo finito il turno alle dieci. Antonio e Sandro erano con me. Amici. Avevano rischiato grosso per la mia follia. Sotto il pastrano avevo nascosto il mio pacchetto caldo. Venne lei ad aprire. Uhuh! Lizavèta aveva anche invitato due amiche. Tutti eravamo pieni di speranza, come succede ogni volta che si può ricominciare da capo. In fondo desideravamo le stesse cose da punti di vista opposti. Ci unimmo al coro, come potevamo, quando intonarono le loro canzoni. L'ingegnere ballò una sola volta con la sua piccola moglie. Per loro improvvisammo noi il ritmo di uno slow. Le ragazze osservavano in silenzio, Era uno slow appassionato. Cantavamo tenendo bassa bassa la voce, come una radio appena accesa. Eravamo meglio dell'orchestra di Pippo Barzizza. Credo che fossero commossi per noi ragazzi. Quel figlio continuava a sorridere dalla foto sulla credenza, ma si sentiva proprio che mancava. Ad ogni ballo ci scambiavamo le ragazze. Lizavèta profumava di pulito. Ogni volta che dovevo lasciarla era una privazione. A mezzanotte brindammo tutti con un’unghia di caffè. Le ragazze sparsero in testa a tutti una manciata di grano, secondo la tradizione. Chissà da quanto l'avevano conservato. - Auguri, auguri. - Impiegai non poco a spiegare a Lizavèta che avevo una sorpresa per lei. Non era abituata ai regali. M seguì nell'altra stanza. Presi da sotto il pastrano il mio pacchetto.
- Buon anno, - le dissi, baciandola in punta di labbra sulla fronte. Lizavèta prese il mio dono. Aprì curiosa il pacchetto. Anche lei era emozionata.
Sgranò gli occhi, quando vide quel mazzo di fiori. Era profumato. Fatto di pane fragrante. Con le corolle delle margherite spolverate di farina. Impastato da queste mani di soldato.
- Hleb!, - disse lei. Le sorridevano anche gli occhi, mentre stringeva al seno quei fiori. Mi carezzò sulla guancia.
- SI, - dissi io. - E' pane. - ll cuore traditore mi bombardava in gola. Le presi quella mano e la racchiusi nella mia. Tenendole così unite che sembravano un'unica mano, accennai ad un segno di croce. Fu un gesto istintivo, forse per timidezza.
- Nel nome del Padre, - dissi quasi balbettando.
- Vo imia otza, - lei ripeté nella sua lingua.
Ci abbracciammo forte. Intorno c'era odore di pane e di pulito.
Nota: fuori testo. Le parole in lingua russa sono Hleb, che significa pane; Vo imia otza, i sina i sviatago duha è la formula completa per il segno di croce: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.