Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso |
Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"
V edizione - 5 gennaio 2000
Terzo classificato
LA VALANGA
di Perin Isidoro
Via Marangona, 84
31030 ARCADE (TV)
Ludovico aveva comprato la casetta dei Pinti dopo che anche la vecchia Adele era morta, di vecchiaia s'intende, perché quei prati sparsi tra le rocce avare davano vigore e longevità a chi volesse viverci. Erano rimasti in pochi ormai, perché da quelle parti il turismo non attecchiva a causa della triste fama della valle delle valanghe. Il paese era al sicuro riparato dallo spuntone del Giglio sulla cui sommità era stato ricavato da secoli, su un fazzoletto di terra, il cimitero e mai a memoria d'uomo le slavine erano arrivate a lambirlo. La valle maledetta era dietro. Sul fondo vi scorreva il torrente che ogni anno si adattava a rifarsi la via. Il pendio percorribile era solo quello a nord, riparato dal sole e meno ripido. L’altro invece non aveva sentieri e ci si poteva avventurare solo d'estate.
Ludovico, figlio di Anna Marchesa di Consalvo, ultimo rampollo della dinastia dei Conti Vicendi di Venezia, era rimasto orfano della madre a soli nove anni. Suo padre il Conte Alcise lo aveva fatto studiare presso i Padri Cavansi a Possagno. Qui aveva cominciato a conoscere e ad amare la montagna attraverso le escursioni all'Archeson, sulle Meate e su fino a Cima Grappa. Durante l'estate tornava a Venezia nella vecchia dimora medioevale sempre più tetra e più vuota. I tempi del latifondismo e della rnezzadria stava scomparendo e con loro anche le entrate. Per mantenere un decoro consono al nome del Casato il Conte dissipava inesorabilmente le sue sostanze. Ludovico passava le giornate oziando per le calli o ammirando gli artisti che dietro S. Marco lavoravano cercando di sbarcar lunario. Gli piacevano i quadri del vecchio Stanga. Lui sì che dipingeva con passione. Le sue gondole parevano dondolare sulla tela e quando inquadrava “La Salute” la tirava su dall’acqua come se fosse una Venere nascente e il cielo sopra e tutt' intorno diventa intriso di misticità.
Un giorno il vecchio gli chiese:
- Ti piacerebbe provare a dipingere?
- Si! - Rispose timidamente il ragazzo - Ma non so... Non ho mai provato.
Stanga lo fece sedere su di uno scalino, gli mise una tela sui ginocchi e gli porse colori e pennelli. Ludovico arrossì, cominciò timidamente con l'azzurro e pennellò un mare calmo quasi piatto. Poi prese coraggio, intinse sul rosso prese a vergare sopra l'acqua un fuoco doloroso sul quale adagiò la Basilica della Salute protesa verso il cielo ceme una preghiera che sale all’infinito. Stanga rimase a bocca aperta davanti a tanto vigore e a tanta ispirazione e da quel giorno lo prese come aiutante per tutta l'estate.
Una giorno il ragazzo gli disse:
- Vorrei dipingere la montagna.
Il vecchio lo guardò pensoso e scosse la testa:
- La montagna si può solo copiare, non dipingere.
- Perché?
-Vedi figliolo: Nell'acqua ti puoi immergere, sentirla dentro e fuori il corpo e l’anima, con l'acqua puoi giocare, dissetarti, senza di lei non potresti vivere. La montagna é dura, triste. No! Con la montagna non si gioca, non si può immergersi. Stacci attento ragazzo! Potresti pentirtene.
Ludovico arrossì confuso. Suo padre non l'aveva mai redarguito in modo così autorevole. Non ricordava di non aver ricevuto mai un rimprovero e nemmeno uno scappellotto, come non aveva mai avuto un abbraccio, una pacca sulla spalla o una lode. Adesso accanto a quel vecchio burbero si sentiva più protetto e quando finiva un quadro c'era sempre un complimento, una carezza, un consiglio.
Il tempo galantuomo si portò via in breve tempo sia il Conte Alcise che il vecchio Stanga. Le lacrime di Ludovico poterono scendere solo per il suo grande amico. Suo padre era troppo lontano per sentirne il distacco. Avrebbe potuto continuare vivere tranquillamente a Venezia coi suoi dipinti. Il talento non gli mancava, ogni angolo della sua città gli riempiva il cuore di malinconia e gli faceva cogliere quelle sfumature dolorose che trasparivano dalle sue tele. Decise di fuggire, di là per non affogarvi dentro l'anima. Vendette ogni cosa e rifugiò nella vecchia casa dei Pinti sotto lo spuntone del Giglio. La gente del posto lo guardava con diffidenza: non doveva essere tanto normale uno che da Venezia veniva ad abitare quassù.
- Si metterà nei guai! Non conosce questi monti. - Dicevano tra loro i vecchi seduti presso l'unica osteria dei paese durante le lunghe serate che precedevano l'inverno.
- E' brutto! - bisbigliavano le comari fuori della chiesa. - E dev'essere anche “Ebreo” perché non viene mai a messa.
In effetti la natura non era stata generosa con lui: magro come uno stecco, poca barba, capelli radi, occhi grandi e tristi sul viso affilato e le orecchie a sventola. Camminava sempre curvo col berretto di lana in testa, sembrava avesse sempre freddo.
Era destino che anche qui dovesse incontrare il “Vecchio Saggio”. Come a Venezia era stato Stanga, qui, a oltre mille metri di quota, fu il vecchio Gedeot ad interessarsi a lui. Guardava con sospetto e con stupore i dipinti che uscivano dalle sue mani e dalla sua anima. Non riusciva ad afferrarne il contenuto però ne restava affascinato.
- Cosa vuoi dire questa strana cascata?
E' il dolore che precipita a valle, come una valanga, e porta con sé i detriti di un amore infinito.
Ludovico non si avvicinava mai alle donne. Dopo la morte della mamma non avrebbe mai potuto amare nessuna. Se si fosse innamorato e l'avesse perduta non avrebbe retto al dolore. Per questo era rimasto solo.
- E questi abeti piegati in modo cosi drammatico?
- E' la forza della vita che ci trascina quando non ci si rassegna al destino. Sai Gedeot, mi piacerebbe dipingere la forza di una valanga. L’hai mai vista tu?
- Si! - Rabbrividì il vecchio - Ma quella ~ una forza che gela anche l’anima e te la porta via per sempre.
Il suo pensiero corse lontano, alla sua Ginetta, a quella maledetta primavera del quarantacinque, quando lui e i suoi compagni si erano rifugiati in su sulle grotte del Pipinto, Era nevicato troppo al primi di Marzo ed era pericoloso muoversi. Ma la Ginetta sapeva bene di cosa avevano bisogno quei ragazzi maldestri e coraggiosi. Pochi mesi prima si erano cimentati in un'azione di guerra più pericolosa per loro che per il nemico. Volevano far saltare la linea dell'alta tensione che passava sopra la valle. Si procurarono un gancio da pagliaio e sull'asola della presa legarono un fil di ferro. In piena notte salirono sopra la forcella del Ciampalt, dove si trovava il punto più basso della campata. Dopo aver fallito alcuni lanci, finalmente il gancio rimase impigliato, ma solo sul primo cavo e il fìl di ferro penzoloni, per loro fortuna, incrociò i tiranti del piccolo filare di viti selvatiche curate con amore dal vecchio Nanni. Il corto circuito che ne segui illuminò a giorno la vallata e li fece fuggire spaventati saltando come caprioli prima che iI tedeschi arrivassero per cercare invano di capire cosa fosse successo.
Decisero di festeggiare l'atto eroico con una lauta cena, praticamente una piccola braciola di maiale a testa. Gedeot, verso la mezzanotte mise la carne sul fuoco e, nell'attesa della cottura e dell’arrivo degli amici, si rifugiò nel calduccio della stalla. Fu richiamato dal rumore del coperchio caduto a terra. Terrorizzato, col cuore in gola, tornò cautamente in cucina, ma quando inciampò sul gatto in fuga con la braciola in bocca, non resse lo spavento e svenne. Gli amici lo trovarono così lungo disteso mentre la teglia sfrigolava ormai irrimediabilmente bruciata.
Il giorno dopo partirono, per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi, in su verso le grotte del Pipinto.
Partì quindi la Ginetta al mattino presto, alle cinque, per non essere vista dai fratelli Tino e Gheri che parteggiavano per i fascisti. Passò lo spuntone del Giglio e poi giù in fondo fino al sentiero del Calvario per salire sulla sinistra della montagna dove minore era il pericolo. Giunta quasi a metà della vallata avvertì un rumore e si mise In agguato. Poteva trattarsi di qualche bestia. Prudentemente si abbassò verso il fondo della valle dove nessuno si sarebbe arrischiato e, al chiarore dell'alba, scorse nitide le due figure: l'avevano seguita. Con tutta quella neve non era stato difficile. Risalì allora dall'altra parte verso il costone maledetto, ma i due continuavano a pedinarla. Ancora duecento metri e sarebbe uscita dalla zona più pericolosa per la valanga. Si fermò col cuore in gola, fece appello a tutte le sue forze e lanciò un grido che squarciò la valle. Gedeot e i suoi amici lo sentirono e ne Intuirono la gravità. Le rocce rabbrividirono sotto la neve e cominciarono a scrollarsela di dosso mentre la Ginetta correva in su, verso le grotte del Pipinto, dove avrebbe avuto salva la vita. Ma la valanga. inesorabile e immensa, la carpì assieme ai suoi nemici. Fu l'unica volta che la neve si fermò addosso alle mura del cimitero. Gedeot lo fissava tristemente. La tomba della Ginetta era la penultima da destra sulla parte alta. Dormiva con la testa volta alla montagna: così riposava meglio. Non si era più sposato e viveva con la sorella rimasta vedova troppo presto.
- Ti auguro di non dipingere mai una valanga.
L’inverno diventò una miniera di ispirazione per Ludovico: quei freddi contorni addolciti dal bianco chiarore della neve nelle notti di luna, quei strani paesaggi luccicanti nel riverbero del meriggio gli facevano ricordare le carezze della madre, i suoi orecchini dorati, le sue ciprie bianche e lo facevano struggere di malinconia.
La cascata di ghiaccio, invece, lo faceva rabbrividire. Gli trasmetteva una gelida durezza, la chiara lontananza di suo padre.
Ai primi di Marzo nevicò ancora. Era una cosa normale lassù, ma non per Ludovico che correva su. sopra il paese a dipingere come un forsennato.
- Vacci piano figliolo! E' pericoloso.
Il vecchio Gedeot lo richiamava invano. Lo spettacolo toglieva il fato e forse anche il senno. I dirupi con le macchie scure della roccia spiccavano sulla coltre bianca. Il cielo color cobalto, il luccichio sotto, dove i raggi di sole giocavano con la cascata di ghiaccio. Non resistette alla tentazione di gridare di gioia come un bambino. Portò le mani a megafono sulla bocca e diede voce. L’eco si sparse nella valle e le rocce si destarono dal silenzio dell'inverno. Lassù una nuvoletta bianca si mosse a fianco del monte, poi più larga, più grande.... sempre di più. S'udì uno strano fruscio mentre l'onda bianca scivolava giù dal pendio fino a risucchiarsi il bosco. Il brusio divenne tuono minaccioso, urlo disumano, strepito; la brezza divenne vento, uragano, follia. L'estasi di Ludovico divenne tremore, panico. rimorso. Si rese conto che quell'immensità stava risalendo la riva dalla sua parte e si mise a correre terrorizzato. Sentì il rumore sempre più vicino, vide la nebbia bianca salire sopra la sua testa, infine si trovò a nuotare in mezzo a quel mare freddo e bianco. Si sentiva bruciare e accecare gli occhi ma continuò a remare con tutte le sue forze. Gli sembrava di stare dentro al ventre di una balena finché si sentì scaraventare in alto per ricadere in mezzo alle chiome di un vecchio larice. L'uragano cessò e lui si stupì di essere rimasto là a mezz'aria, solo, come quando la mamma era morta. Scese come un automa e si incamminò barcollando verso valle. Le squadre di soccorso lo trovarono cosi e se ne andarono brontolando. Rimase solo il vecchio Gedeot che si avvicinò con calma. In mano reggeva la lunga pertica da valanga. Lo guardò fisso negli occhi, alzò la mano destra e la calò con forza sul volto di Ludovico.
La guancia fredda si colori di rosso e il calore scese in fondo al cuore per scioglierlo in lacrime liberatrici
- Dio! Come sarebbe stato bello aver avuto un padre così!