Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

 

Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"

III edizione - 5 gennaio 1998

 

Secondo classificato

LA VIRTU’ DELLE FINZIONI

Di Enrico Brambilla

Via A. Moro, 3

24030 ALMENNO S. BARTOLOMEO (BG)

Luca p. 7 vv. 12/13/14/15: ... ecco che trasportavano un morto, figlio unico di sua madre, e questa era vedova ... E il Signore, vedutala, ebbe pietà di lei e te disse: - Non piangere più! - Poi. accostatosi, toccò la bara. I portatori si fermarono ed Egli disse. - Giovinetto, a te dico: levati. - E il morto si levò a sedere e cominciò a parlare. E Gesù lo rese alla madre.  

Molliche per i passeri, seminate religiosamente sul davanzale con le dita aduse a sgranare il Rosario. Martina accompagnava il gesto con un bisbigliare, un vaneggiare delle labbra che, nel mormorio cadenzato, poteva intendersi una soffusa, intima preghiera. I voti, richiesti ed esauditi, erano il frullare d'ali dagli alberi che ombreggiavano il pensionato, il bacchettare guardingo degli uccelli sulle tracce d'un alfabeto muto, sparso tra i riti della solitudine. Ad ogni briciola raccolta sull'arenaria, rispondeva un suono leggero, un “Tic tic...” telegrafico che l'orecchio attento di Martina componeva nel senso che dava risposta all'attesa.

Non che aspettasse chissà quali nuove, la donna, dopo una vita di pieni e vuoti, di giorni culminati infine in un mare di mancanza. Ma a quella data, a quella ricorrenza che sanciva il volgere di un altro anno, i suoi anni invecchiati sulle età lontane di mille e mille giorni tramontati, Martina tributava la trepidazione, un'ansia materna ed intima che, acuendo l'udito, le amplificava i suoni, i rumori, ogni scarto del silenzio, ogni traccia della vita supplendo così alla luce scarsa degli occhi. Ed il raspio dei passeri era facola di luce sonora nell'ombra ingannevole.

Misurò la stanza. Strascicando i piedi e tastando i confini delle pareti, Martina raggiunse il canterano. Impose le mani sulla radica dell'impiallacciatura, scorse il palmo sulle setole della spazzola, sulle forcine dei cecine, carezzò più volte, come per imprimere nella pelle l'immagine sfocata, il ritratto dei figlio in divisa d'alpino, prima di deporlo sui lini, il gesto ebbe la lentezza d'un rimboccare le coperte, tra le canfore e gli spighi dei cassetto. Sussultò e la ruga in fronte distese cangiando il volto da una mestizia sopita alla soavità d'una serena ora.

I passeri, volando via in gazzarra dal davanzale, colmavano il vuoto dell'attesa.

Acuì l'udito allo scricchiolare del ghiaino nel viale che suonava con la dolcezza d'un annuncio conosciuto.

Infine giungeva...

L'alba chiamava con un canto d'angelo dissolvendo il buio tra le fronde nude, le nebbie sospese come brividi alle rocce assonnate della montagna. Anselmo. appena ridesto con quel chiaro nell’anima e quel sereno nelle membra che pare carezza del buon riposo, colse nel profilo del monte, nelle cenge, nelle pareti improvvise , nelle come innevate ove accecava Il sole, i tratti di Martina, le rughe scolpite, l'asprezza dei naso, l'austerità dello sguardo perso che poteva dirsi fuso di ghiaccio tra palpebre scistose. Sorrise, Anselmo, e carezzò la montagna strizzando gli occhi, seguendone il rilievo dei picchi con l'indice puntato come il pennino nella traccia d'un grafico.

“Lo stesso taglio... - mormorò - Gli slabbri del canalone potrebbero esserne la bocca appassita...”

“Di che vaneggi?!... Di chi parli?...”

S'era girata sul fianco, Angela, il gomito piegato e la guancia nel palmo della mano. sorta nel vano della finestra a celare la visione della montagna con quella cascata di capelli che, appena screziati di bianco ed inanellati tra le dita, parevano un rabbuffo di tramontana, un groviglio di tormenta.

“Nulla... Nulla... - replicò Anselmo - Pensavo alla vecchia Martina, a quanto il suo viso sia di pietra... Ai suoi anni, infiniti come la montagna lì fuori... E della montagna ha forse la stessa follia, al punto che mi piace pensare come Lorenzo sia passato dal grembo di una madre all'altra, da una di carne ad una immensa madre di roccia... Pazze uguali, queste madri!... Mutevoli, ora lagnose, ora ilari, ora chiare, ora scure... E se la montagna prima vaneggia di tempeste e subito s'imbelletta di sereno, così Martina prima piange e poi sorride, prima pare rinsavita poi sconforta in una foschia senza tracce... Queste madri così simili...”

“Te ne ricordi. vero?... - aggiunse Angela, il tono illanguidito nel calore delle coperte - E la disgrazia?... Quanti anni sono trascorsi dalla valanga che sconvolse il figlio e la mente di Martina?...”

Calmo, il silenzio riprovò un respiro di sonno, toccò le palpebre incerte sul segno della luce che, filtrando dalla finestra, sospingeva l'ombra a rannicchiarsi nel cantoni. la notte a riporsi sotto le battute dei mobili.

“Bisognerà che vada, che non manchi…”

Si ritrovarono a dire all'unisono, Angela con la sua voce incantata, Anselmo il tono sospiroso ed una incrinatura di malumore che seguiva la memoria della slavina crollata giù dalla parete della cordata.

Sgomberata dai sogni, intenta agli abituali atti della vestizione, asole e bottoni s'infilavano per il prestigio delle dita sino alla rigidità del colletto inamidato, la mente dell'uomo aggiunse gesto al gesto, rievocò la camicia aperta sul petto che un marmo gelido opprimeva.

Aveva gli occhi dei vinti, Lorenzo, arrovesciati come stanchi di vedere ancora e la bocca spalancata senza preghiera nel tampone di neve che otturava le narici, che tappava come un cotone le orecchie, che raggelava l'anima in una carne di vetro. “Sono ingrassato... - sussurrò flebile Anselmo - ... L'ultimo bottone mi sega il pomo d'Adamo... “ disse con un filo di voce tremula infilato tra le labbra come il gambo reciso d'un fiore passo. Angelo gli aveva posta una mano sulla spalla, leggero petalo della comprensione che sbriciolava il travestimento della banale osservazione.

Diceva:

“Non più d'allora, non più di sempre... Sei lo stesso, lo stesso peso... Solo meno forte, qualche anno in più e quelle che chiami debolezze da non mostrare ma che ti si affacciano negli occhi in una chiara tristezza...”

S'era fatto sottile il confine tra il sospiro e la finzione.

Angela ne colse nel palmo poggiato sulla spalla la consistenza di pianto e spronò: “Farai tardi... Giù in città, la vecchia Martina t'aspetta ... Falle gli auguri anche da parte mia... quanti anni compie? ... Ottantatré?!... Tanti!... E non dimenticare il cartoccio dei dolci ... E’ così golosa! Proprio come una bambina viziata...

“E’ a lei che pensavo...”

Anselmo s'era volto porgendo alla destrezza della moglie il nodo della cravatta. La seta, delicata nelle spire del collo, infiorò la camicia bianca d'un azzurro cielo di montagna.

Aggiunse, l'uomo fatto semplice dal gesto carezzevole di Angela: “A lei ed a Lorenzo ... A lei impazzita per il figlio morto... Era un brav'uomo, Lorenzo ... Amico d'infanzia e compagno d'arme, alpino come me... Buono, bravo, generoso, disponibile... Aveva un solo difetto, sai?...”

Anselmo sorrideva con un incanto di parole trepide.

“Il cappello... Il cappello da Alpino. Non lo levava mai, nemmeno a letto... Non glielo portò via neppure la valanga... E mi conforta, sai, pensare che così composto nel gelo della tomba, almeno avrà caldo il capo e che lo riconoscerci fra mille se venisse il giorno ultimo, quello dei Giudizio...'”

“Che tetraggine, Anselmo, che brutti pensieri!...' s'allarmò Angela, nel petto fiorito come uno spino il riflesso d'una pena ribelle alle stagioni finite, alle incredule resurrezioni.

Continuò aiutava il marito ad infilare le maniche della giacca rinserrandolo in un abbraccio, la voce tiepida come un sogno: “Quel che è stato è stato e sarà quel che sarà... Ad ogni giorno basta la sua pena e la tua, oggi, è quella del buon samaritano...”

“Già... - Anselmo scrollava il capo - Samaritano che vestirà panni non suoi fingendosi figlio di una madre non sua.”

Angela accostò i lembi della vestaglia, le mani strette al petto in una preghiera convinta: “E calzerà il cappello da Alpino perché la finzione sia completa ed una vecchia pazza continui a credere nella vita per i giorni che Dio le ha concesso...”

Caffè, caffè nella casa appena lasciata, gusto di caffè sulla bocca della moglie, profumo di caffè in macchina ed il candito leggero dei bignè che levitava attorno al cappello deposto sul sedile accanto alla guida.

Il viale dei pensionato, con lo sbuffo dei cipressi, pareva una serra di penne nere.

Anselmo fermò la macchina, scese, raddrizzò il cappello in testa con l'istintualità d'un gesto mai dimenticato, s'avviò nello scricchiolare del ghiaino che cantava con la musicalità di versi sopiti all'ombra vecchia dei cipressi. Note di passeri svolazzavano intorno...

“Lorenzo, figlio mio!...”

Martina tese le braccia come rami che bevono il sereno. Seduta, le mani s'arrampicavano come l'edera tastando il corpo di Anselmo chino in avanti, il volto, il cappello che cade di sbieco sull'orecchio sotto la carezza tremula. Così tremante ed una ilare alterazione nel tono che voleva essere riso benevolo ma suonava quale una lallazione d'infante, la voce della donna continuò: “Il cappello!... Ah! Ah! Ah!... Ma non lo levi proprio mai, Lorenzo...”

“Sì... madre...”

Alle carezze, a quel farsi certa della vita, ai baci, alla gioia, a quella ricerca di membra giovani e forti, al tasto di carne della propria carne, Anselmo aveva risposto con quel “Sì... madre...” rimasto ultimo appiglio sincero nella recita che sosteneva. “Madre” e non “mamma”, ché la deferenza, veramente sentita, impediva all'uomo di prostrarsi nella totale finzione connessa alla pronuncia di quel secondo termine, intimo solo per gli infanti, proprio unicamente ai figli.

Si fecero teneri gli sguardi, le parole, domande e risposte che sussurravano stupite del tempo che fu, “Ricordi quando eri giovane, Lorenzo?... Quando partisti soldato?... Tua moglie? E i figli, come stanno? Baciameli...”

“Sì, madre... Sì vi mandano tanti auguri ed un abbraccio...”, frasi spezzate come un pane nella calda finzione d'una finzione diventata amore. Così assecondando, dopo l'iniziale imbarazzo mascherato nelle nocche strette tra le mani della vecchia, Anselmo allentava la malinconia trovando nel cuore una spontaneità che suggeriva musiche filiali, affiati sinceri. Vicino il volto della donna, ne poteva sentire l'alito d'amido, la voce di brina serale, Anselmo attento ne colse la mappa delle rughe, il gioco della luce folle negli occhi oranti, l'espressione tutta che tendeva ad un miraggio antico, ad un riflesso sospeso nella memoria e che combaciava ai tratti di Anselmo quelli lontani di Lorenzo, alla voce viva il timbro dell'altro suono spento, alla sagoma del corpo forte dell'uomo quella rivestita di vita del figlio perduto. Parlarono a lungo, scoprendosi vivi delle stesse esistenze.

E risero anche, l'uno della donna golosa che il labbro umettava cogliendo le briciole dei dolci, l'altra dell'uomo preoccupa d'un'ingordigia fanciulla, d'una golosità monella.

Il bignè, l'unico rimasto infine nella stagnola, pareva il bacio alla guancia porta nella consueta richiesta fatta di promesse, di preghiere materne sul limite del tremore: ”Torna presto, figlio mio... Riguardati...”

Salutava sonoro il ghiaino dei viale sotto i passi di Anselmo che, rivolto alla finestra, scorgeva le mani di Martina tese ad abbracciare un'aria d'oblio santificato...

Silenzio e sotto il ticchettio della sveglia sulla soglia dei vuoto.

Martina staccò dal davanzale, misurò la stanza poggiandosi alle pareti, passò le mani sulla radica del canterano, aprì il cassetto e ripose la foto del figlio sul centrino inamidato.

Sospirò. Volse alla tavola e, delicata, tolse il bignè dalla stagnola che crepitava come il ghiaino del viale.

“E’ per te. figlio mio... - diceva la donna ponendo il dolce come un voto esaudito a piè dei ritratto - L'ha portato Anselmo che non ci dimentica  ... E’ per te, Lorenzo caro.”