Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"
II edizione - 5 gennaio 1997
Secondo classificato
L’ORCHIDEA DI LANDEMANN
di Roberto Curatolo
Via Forze Armate, 260/12
20162 MILANO
Si favoleggiava che sul pianoro sovrastante la cengia del Bes sbocciassero, nella bella stagione, fiori splendidi e rarissimi, alcuni dei quali dotati di poteri miracolosi.
Il vecchio Ernesto raccontava ogni tanto della leggendaria orchidea di Landemann. Era stato un tedesco, un accanito appassionato di botanica, capitato in vacanza da quelle parti più di cinquant’anni prima, a parlargli di quel fiore introvabile e di quanto ne dicevano gli alchimisti medievali, delle sue capacità di esaltare la memoria al solo odorarlo e della sua facoltà di precipitare nel passato remoto chi ne mangiasse il pistillo. E, considerati il clima e la particolare conformazione del territorio, l’originale studioso tedesco riteneva possibile che in quelle forre o tra quei dirupi o in cima al Bes, si potesse rimanere abbagliati dalla sua vista.
A cercare l’orchidea ci avevano provato in tanti ed Ernesto – per quanto lo negasse – più di tutti. Si sapeva unicamente che era di colore viola cupo e che cresceva in splendida solitudine. Ora Ernesto non la inseguiva più, che del passato remoto nulla ormai gli importava.
Attilio l’alpino, tra i paesani, era sempre stato il più ardito. Aveva imparato ad arrampicare, per così dire, naturalmente; poi, seguendo qualche rocciatore di passaggio, aveva appreso l’uso di corde e chiodi. Ma il Bes, tenebroso sperone inviolato, non ci si era mai provato a scalarlo, soprattutto da quando un paio di alpinisti erano volati giù e la sua fama sinistra s’era diffusa anche nelle valli circostanti. Aveva però ipotizzato che, con un lungo percorso di aggiramento, la cengia potesse essere aggredita più agevolmente da sud-ovest e che, superando pochi passaggi rischiosi, si sarebbe potuto raggiungere il pianoro dell’Eden.
Era una limpida giornata di maggio il venerdì in cui Mariano sparì dal paese. Nessuno l’aveva visto quel giorno e gli ultimi riscontri della sua presenza risalivano alla sera prima, quando con gli uomini del villaggio s’era trattenuto al bar dell’albergo vuoto di turisti.
La Florinda, sua madre, non l’aveva udito rientrare né – pur levandosi all’alba – l’aveva incrociato il mattino seguente.
Nessuno si era preoccupato fino a sera, dato che Marino era solito menar le vacche ai pascoli e ricondurle all’alta malga solo dopo il tramonto. Non vedendolo tornare, la Florinda, si era agitata e non la si teneva più quando si accorse che mancava una coperta, la ghirba dell’acqua e un po’ di provviste dalla madia. Se l’era sempre tenuto vicino quel figlio non ancora ventenne e non ricordava notte in cui Mariano avesse dormito fuori casa.
Incinta, era tornata al paese, scacciata in malo modo da quella famiglia irriconoscente. A sedici anni aveva preso servizio in una casa immensa del centro di Milano sgobbando duramente e senza mai avanzare richieste. Quasi dodici anni di pavimenti e di cucina e tra i suoi monti era tornata solo per i funerali della madre. Per pudore – proprio per pudore – non aveva saputo negarsi alle attenzioni notturne del padrone prima e del signorino poi. Finché l’arrogante giovane non l’aveva ingravidata e la padrona, una volta accortasi della pancia, l’aveva cacciata con grande sdegno. E mentre la signora la ingiuriava, ipotizzando manfrine con fornitori e operai, lei non ebbe nemmeno la forza di dirle che tutto si era svolto nelle mura di casa.
Mai nessuno aveva scucito una parola dal suo segreto e anche con Mariano era sempre stata evasiva, nonostante le sue timide insistenze.
L’aveva cresciuto con un amore fondo come il cielo delle notti estive, eppure era stata severa con lui, reprimendo spesso il suo desiderio di abbracciarlo, di coccolarlo quanto l’istinto le dettava. Lo voleva autonomo e coraggioso, ma non aveva esitato a catapultarsi in strada e a prendere per il collo il ragazzetto che canzonava Mariano dandogli del bastardo.
Nessun uomo l’aveva più sfiorata e Mariano, dentro casa, non aveva inteso mai voce maschile. Florinda, in cuor suo, aveva sempre recisamente rifiutato l’eventualità che al figlio mancasse la figura paterna: lei si sentiva in grado di ricoprire entrambi i ruoli e non aveva mai dubitato della giustezza delle sue sensazioni.
Gli uomini si erano radunati davanti all’albergo, pronti a partire. Le fiaccole già accese marezzavano di ombre i volti segnati dalla fatica e dal sole; nonostante aleggiasse un’intensa preoccupazione i comandi venivano impartiti a mezza voce e alle congetture si preferiva il silenzio.
Dopo circa due ore di cammino giunsero alla malga. Tutto era in ordine, ma agli esperti non sfuggì che le mammelle delle vacche erano esageratamente gonfie e i secchi del latte vuoti: Mariano, certo, non era stato lì, quel giorno.
Si consultarono, cercando di ragionare con calma: il percorso dal paese alla malga non era accidentato e non si correvano pericoli di cadute; non avendolo incontrato sul sentiero, si poteva escludere un malore per strada. Giovanni, il guardaboschi, sottolineò l’importanza di quella coperta sottratta a casa: era dunque probabile che Mariano avesse pensati di dormire all’aperto, ma allora perché non avvertire la madre? Perché non comunicarlo agli amici? Forse il suo progetto non poteva essere confidato. E in tal caso c’era di inconfessabile in quel programma? Qualcosa di poco pulito o qualcosa di troppo audace?
Attilio l’alpino non aveva voluto seguirli: immaginava che sarebbe stata una spedizione a vuoto. Bussò dalla Florinda: attraverso la finestra la vide inginocchiata a pregare.
“Florinda”, le chiese “ti aveva mai parlato della cima del Bes?”
La donna lo guardò con occhi dolenti. “Sì” rispose, “sì, ma come tutti.”
“Ti ha mai parlato delle storie del vecchio Ernesto?” la incalzò Attilio.
“Si, quelle favole lo estasiavano quand’era più piccolo. Una volta, era quasi estate, avrà avuto undici, dodici anni, mi portò un mazzo di fiori colti qua e là per la montagna: erano tutti viola, tutti diversi ma viola. Mi domandò se, secondo me, lì in mezzo ci fosse anche l’orchidea di cui parlava Ernesto. Gli dissi che l’orchidea non esisteva e lui si arrabbiò e poi mi accorsi che piangeva. Non mi piaceva che credesse a quelle fantasie.”
Attilio l’alpino la prese per le spalle e la confortò: “ Non disperare, domattina presto andrò a cercarlo sul Bes.”
Lei lo guardò spaventata: “Lo sai che lassù non ci si può arrivare… nessuno c’è mai arrivato!”
“Ci proverò, Florinda, io penso di sapere perché ci si è azzardato.”
Attilio preparò lo zaino; poi si coricò, le mani dietro la nuca e gli occhi ai travi del soffitto. Ripensò a quel ragazzo dal profilo delicato e dallo sguardo indifeso; si ricordò di quella sua domanda ansante: “Passato remoto quanto?”
“Fino all’inizio della vita” gli aveva risposto Ernesto.
All’alba era pronto e, benché non avesse dormito, non avvertiva la minima stanchezza. Camminò e s’inerpicò per quasi sei ore; aveva aggirato lo sperone e, come aveva sempre pensato, l’ascensione da sud – ovest era decisamente più praticabile. Salvo un paio di corti muri arrivò in cima senza inciampi.
Issandosi come metà corpo sull’ultimo scalino di roccia, oltre il bordo della cengia, quasi si lasciò cadere per l’emozione: davanti a lui si allargava una distesa ondulata di erbe e di fiori, un tappeto multicolore di incontaminata bellezza.
Brancolò nelle alte erbe occhieggianti di fiori per interminabili minuti, inebriato da profumi sublimi. Si abbandonò supino, a braccia larghe, inebetito verso il cielo.
Ripresosi dallo stupore, si mise a correre di qua e di là, chiamando Mariano a gran voce. Nulla, nessuna risposta. Giunto sul vertice di un modesto rilievo, si avvide di un prato, a non più di duecento metri, in cui il viola cupo dominava sul verde: stesa, bocconi, riconobbe la sagoma del ragazzo. Si slanciò con impeto verso quel corpo non lontano, sfilandosi nella corsa zaino e giacca. Girò Mariano su un fianco: l’aspetto composto, non presentava ferite. Il viso era leggermente bluastro e dalla bocca fuoriusciva qualcosa che assomigliava a una radice masticata. Attilio gli sollevò il busto inerte e lo abbracciò, lasciandosi andare a un pianto dirotto.
Passò un tempo lungo prima che lo posasse nuovamente tra i fiori. Fu allora che si guardò attorno e notò che il prato era disseminato di centinaia di orchidee. Non ne aveva mai viste così tante assieme, non ne aveva mai viste di quel tipo. Si chinò per osservarne una con attenzione e, divaricandone i petali ricurvi, si accorse che difettava del pistillo. Una seconda, una terza: anch’esse senza pistillo.
A decine di orchidee mancava il pistillo. Mancava a tutte quelle che controllò. Forzò a fatica la bocca di Mariano. Era colma di pistilli. Solo allora si rese conto di essere in mezzo ad uno sconfinato prato di orchidee di Landemann.
Arrivò al villaggio nella notte di domenica, il corpo di Mariano sulle spalle. Poi, prima di informare la Florinda, svegliò il vecchio Ernesto e gli disse:
“Il ragazzo è morto. Era in un prato di orchidee di Landemann, con la bocca piena di pistilli.”
Il vecchio restò immobile, bianco di dolore.
“Cercava il padre… le sue radici…” bisbigliò, le rughe più profonde che mai.
“Perché è successo?” gli chiese Attilio. “Che cosa ci hai tenuto nascosto?”.
Il vecchio sembrò aprire un libro segreto. “Il tedesco mi disse che bisognava andarci piano: che gli ovuli dentro al pistillo contenevano un lattice velenoso che faceva passare quietamente dal sonno alla morte. Conveniva essere moderati nell’assunzione, diceva, bisognava contentarsi di brevissime incursioni nel passato remoto. Osservava che in un pozzo è meglio calarsi con una corda piuttosto che tuffarcisi dentro.
Io non gli credevo e questo particolare della favola non l’ho mai raccontato.”
L’alba rischiarava il cielo quando Attilio l’alpino s’alzò dalla sedia e si avviò barcollante verso la casa di Florinda.