Premio letterario nazionale "Parole intorno al fuoco"

I edizione - 5 gennaio 1996

 

Secondo classificato

 

L’ISBA DI ANJA

di Paolo Perlini

Via Lanaioli, n° 18

37135 - VERONA

Sembrava quasi una scampagnata. Se non fosse stato per i quaranta gradi sotto zero, per le gambe che sprofondavano nella neve fino al ginocchi e la fame cha attanagliava lo stomaco, poteva essere una tranquilla passeggiata.

Si procedeva lenti, come ad un corteo. Eravamo un’enorme lingua nera che procedeva all’infinito. Guardavo avanti, mi voltavo, ero proprio nel mezzo della lingua. Era Mario che aveva deciso così.

“Davanti bisogna combattere per far strada e dietro si rischia di essere presi dai russi.”

Avevamo perso la nostra compagnia a Nikitovka. Io e Mario eravamo riusciti a trovare rifugio in un isba isolata dalle altre.

“Giovanni! Guarda a la to sinistra, dedrio a qui alberi” disse Mario, sottovoce per non farsi sentire dagli altri.

“Ho visto. Fermemose un attimo, faremo finta de niente e dopo andremo.”

Io finsi di sistemare gli stracci che mi avvolgevano i piedi e Mario finse di aspettare me. Lentamente ci siamo staccati dalla compagnia. Ma la nostra manovra non sfuggì a Franco, un nostro compagno che aveva il vizio di mettere il naso dappertutto.

“Mario! Giovanni! Dove andasio, ostia!”.

“Ecco, ci siamo” pensai. “Adesso arrivano tutti”.

“Ghò da pissar” gridò Mario.

“E pissa qua, no? Gheto vergogna? Non te basta i chilometri che te fe par tornar a casa? No, te sevi farghene anca piassè per andar a pissar…”.

Mario, sotto la barba dura e impregnata di muco, neve e sangue, sorrideva e io facevo altrettanto.

Siamo entrati nell’isba dopo aver bussato. Ci aprì una donna che in mano teneva un bambino avvolto nelle fasce. Non rimase sorpresa. Nella sua lingua ci disse di entrare.

Mario non si fidava, impugnò il moschetto ed entrò con cautela. Non c’era nessuno, tranne una bambina di sei o sette anni che dormiva. La donna andò a riattizzare il fuoco, ci fece segno di accomodarci e poi ci chiamò alla finestra. C’era un uomo che avanzava verso l’isba. Cercava di saltellare e ad ogni passo sprofondava nella neve.

Mario bestemmiò. “L’è quell’imbranado de Franco”.

“Miga tanto imbranato” dissi io.

Franco entrò senza nemmeno bussare.

“Pensavi de fragarme eh? Bei amici che si. Gho da pissar l’ha dito, gho da pissar. Come se mi fosse insemenido. Bei amici…”.

Mario si avvicinò a Franco e gli misurò un pugno.

“Franco, poche storie. Ieri sera quando t’avemo chiesto un po’ de miele te fato recie da mercante. E quela volta che piuttosto de darne un toco de carne te maia tuta la pecora e te si sta mal come  un can? Come la metemo?”.

Franco stava zitto. Sapeva di aver torto. Non aveva mai diviso nulla con noi, neppure una galletta. Però non esitava a farsi avanti quando c’era qualche occasione. Era un’opportunista che se ne fregava dell’amicizia e dalle conoscenze cercava sempre di ricavare qualche vantaggio.

La donna intanto mise sul fuoco una pentola.

Mario si sdraiò sul letto senza neppure togliersi gli stivali. Diceva che era meglio così. Se li toglieva, poi non sarebbe più stato capace di indossarli. Io gli stivali non li avevo. Mi erano rimasti solo dei brandelli che avvolgevo in un paio di calzettoni e fasciavo il tutto con degli stracci tenuti da del filo di ferro. Quindi disfeci le fasce e mi guardai i piedi, erano gonfi e rosa. Mi chiedevo come facevano ad essere ancora sani. Tutto il giorno sprofondavano nella neve eppure non congelavano. Avevo visto molti compagni perdere le dita oppure il piede che andava in cancrena, ricoperto di piaghe e pus.

Misi ad asciugare gli stracci vicino al fuoco e poi spalmai i piedi di grasso. Franco riposava ma non dormiva. Rigirava tra le mani il medaglione d’oro che portava al collo. Diceva che gli aveva sempre portato fortuna Se lo tolse e cominciò a pulirlo con un fazzoletto. E facendo questo si addormentò.

Io ero troppo stanco e affamato per addormentarmi ed osservo la donna che scaldava una minestra d’orzo e preparava la tavola. Mi alzai per darle una mano ma con tono quasi severo mi disse di tornare a riposare.

Forse mi addormentai, soltanto un quarto d’ora ma era come se avessi dormito una giornata. La donna ci invitò a tavola e noi, senza farci pregare abbiamo iniziato a mangiare avidamente, il più in fretta possibile, magari poi ci scappava un altro mestolo di minestra. Non capivamo la lingua ma la donna ci disse di mangiare piano, senza fretta e per essere più eloquente ci mostrò la pentola che stava sul fuoco. Come minimo c’erano altri due piatti di minestra a testa.

La donna si chiamava Anja, il bambino avvolto nelle fasce Andrei e della bambina che dormiva non ricordo il nome da tanto strano che suonava. La bambina era ammalata. La sua fronte scottava e Anja la bagnava con delle pezze umide. Ma non sembrava niente di preoccupante, solo un po’ di febbre diceva la madre.

Anja era bella, due occhi azzurri e grandi, un volto da cerbiatto, alta e snella. Assomigliava ad una tedesca, soprattutto per i capelli chiarissimi. Ci disse che il marito era sul fronte, non sapeva dove, poteva essere anche dietro casa oppure morto. Sapeva che era di stanza a Stalingrado ed aveva ricevuto sue notizie una settimana prima. Durante l’attacco dei tedeschi era stato ferito ad una gamba ed ora di trovava in infermeria.

Il Paradiso. Dentro l’isba, al riparo dal gelo notturno, al riparo dalla colonna di soldati che transitava a qualche centinaio di metri, sembrava di essere in Paradiso. Erano trascorse tre ore da quando eravamo entrati e ci meravigliavamo che nessuno vedesse l’Isba.

“L’ho vista mi parché gò gli oci boni” disse Mario orgoglioso.

In effetti io non l0avevo neppure notata. Era protetta dagli alberi e il fumo che saliva dal camino veniva portato dal vento in tutt’altra direzione.

Ci addormentammo. Franco cominciò a russare per primo, Mario dormiva, bestemmiava, brontolava qualcosa. Teneva il moschetto vicino alla mano destra. “Bisogna sempre esser pronti” diceva.

Eppure, nessuno di noi due aveva ancora ucciso. Fino adesso la guerra era stata un gioco. A parte l’amara realtà dei compagni caduti, della fuga, il gelo, i congelati, non ci eravamo ancora trovati di fronte ad un nemico. Avevamo sparato tante volte, ma da lontano, senza sapere se il proiettile colpiva il bersaglio. Mario diceva che lo faceva apposta. Lo trovò in una trincea. Era vicino ad altri due russi uccisi. Lui piangeva, era giovane. Franco diceva che il russo sfilò dalla tasca una pistola ma lui fu più svelto e gli sparò. Ma di tutto questo non c’erano testimoni e nessuno sapeva se era successo veramente.

Mi addormentai vicino alla bambina. Mi ero offerto di bagnarle la fronte ma non so quanto durai. La mattina mi svegliai vedendo davanti a me il volto sorridente di Anja. Erano mesi che non avevo un così dolce risveglio. Mario era pronto, Franco stava sistemandosi i vestiti. Io non trovavo più le pezze che avevo messo vicino al camino ad asciugare. Subito mi prese il panico, quelle pezze erano la mia salvezza. “Dai, Mario, non schersemo…”

Mario neppure capì quanto avevo detto, stava pensando ai fatti suoi e controllava fuori dalla finestra. Anja mi si presentò con un paio di stivali russi, così robusti che solo a guardarli davano calore. Disse che erano per me ed io quasi piansi. Anja era felice di avermeli dati ed assaporava la mia gioia. Avvolsi comunque delle pezze attorno agli stivali perché qualcuno era anche capace di ammazzarmi per un paio di calzature simili.

Non avremmo mai lasciato quell’isba. Ci sembrava di staccarci da qualcosa di sicuro, dal grembo materno. Avevamo trascorso dodici ore in Paradiso ma era nostro dovere partire. A casa ci aspettavano. Salutai la bambina che ora stava meglio e ci guardava in modo strano. Forse non si era accorta della nostra presenza. Diedi un bacio al piccolo e chinai il capo davanti ad Anja. Per rispetto non sapevo come salutarla. Lei diede ad ognuno un sacchetto con dentro qualcosa da mangiare, della frutta secca, semi di girasole.

“Su, andemo” disse Franco. “Non l’è al posto giusto par innamorarse!”.

Avevamo percorso duecento metri, forse meno. L’isba non si vedeva più e Franco si fermò. “La medaglia, boia d’un can, ho lassado là la media”. Niente da fare, non era disposto a lasciarla. “L’è el me portafortuna”. Così, camminando sull’orme lasciate siamo tornati verso l’isba.

Mario, incazzato nero camminava a passi veloci. Eravamo vicino all’isba e ci fece segno di stare giù. Ci riparammo dietro un albero. Quattro tedeschi erano fermi sulla porta di Anja. Non capivo cosa dicessero. Ma Anja era infuriata e non voleva farli entrare. I tedeschi sgozzavano, poi uno di loro la prese e la tenne ferma per le braccia. Un altro le strappò la veste ma si guadagnò un calcio in fronte. Anja urlava e il tedesco che la teneva ferma cercava anche i tapparle la bocca.

“Andemo” disse Mario ma io mi ero già buttato avanti.

I tedeschi ci videro arrivare e continuavano a sghignazzare. Ci fecero capire che c’era anche per noi ma prima toccava a loro. Mario puntò il moschetto, io feci altrettanto e Franco sembrava già sul punto di sparare.

“Lasciatela” dissi. “Raus, raus” gridai. I tedeschi non capivano, parlavano fra di loro, ridevano ancora. Ma lasciarono Anja. Con la testa facevano capire che se ne andavano. “Va bene, va bene italiani stupidi”. La mossa di uno di loro sfuggì a Mario.

Fingevano di andarsene ma avevano già impugnato la mitraglietta.

“Spara, spara!” gridò Mario. Io sparai chiudendo gli occhi, mi buttai a terra e sparai ancora. Sentivo Franco imprecare contro il suo  moschetto: “L’è inceppa, spara maledetto spara!”.

I tedeschi erano caduti, non ne restava uno in piedi. Due erano morti subito, altri due rantolavano e non si decidevano a morire. Uno dei due gridava come un ossesso, chiusi gli occhi e sparai l’ultimo colpo che avevo in canna.

Silenzio. Anja si era gettata a terra, Mario era ritto in piedi con il moschetto che fumava. Era durato tutto pochi secondi.

Qualche pallottola era passata tremendamente vicino alla mia testa e nell’aria si sentiva ancora l’odore di polvere da sparo. Franco era a terra, ferito. Il suo moschetto non aveva sparato neppure un colpo. Lo portammo dentro l’isba. Anja, impaurita stava ancora a terra, sprofondata nella neve, e piangeva. La presi, cercai di incoraggiarla e lei si alzò. Mi abbracciò forte, come se fossi suo marito e pianse appoggiandosi alla mia spalla.

Non c’era più tempo da perdere. Dovevamo nascondere i corpi dei tedeschi per evitare rappresaglie nei confronti di Anja. E c’era da medicare Franco. Una pallottola l’aveva colpito al polmone e un’altra alla gamba. Non c’era niente da fare.

“Tutta colpa de quela maledetta medaja” brontolò Franco. “Ma almeno avemo salvado la dona” disse accennando un sorriso. Poi mi fece segno di accostarmi e disse: “Quella storia del russo.. non le miga vera, non ho mai copà nessuno…”.

Non dissi niente, solamente sorrisi e lo strinsi forte.

“Va, va, che qua ghe penso mi…..”.

Salutai Anja per la seconda volta. Mi diede un bacio, forse il bacio più dolce che abbia mai ricevuto da una donna. Mi dispiaceva lasciarla sola ma c’era Franco che seppure ferito vigilava.

Dopo qualche ora, carichi di valore, io e Mario eravamo in prima linea a combattere per fare strada alla Tridentina.