Praderadego
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Secondo classificato
Praderadego
di Gian Domenico Mazzocato - Treviso
Praderadego:
l’orecchio popolare vi sente un etimo suggestivo.
Come dire il prato dei radeghi, il campo delle baruffe.
Gian Ugo Vardanega
La pojana ha un volto truce, ma l’animo è gentile.
Basta osservarla ad aprile,
quando cura e perfeziona il nido nuovo
in attesa che la cova si schiuda. E ama la libertà.
Lincoln J. Sachs
Vito amava quel viaggio.
Praderadego, spartiacque di tormenti e contese perché sul versante bellunese il faggio cresce abbondante e rigoglioso. Ma su quello trevisano no.
Si sa. Faggio vuol dire carbone dolce e ricchezza. Si tirano su con pazienza e perizia le cupole concentriche dei tronchi che bruciano lentamente. Lasciati lì per giorni a produrre belle palanche.
El fogo che no xè fogo, diceva la gente di montagna osservando il bruciare impercettibile dei faggi. L’odore asprigno, di more in fermentazione, si spandeva nell’aria in cui volavano sparvieri e astori.
Gli astori hanno ali piccole e rotonde, così tozze che pare vogliano lanciare una sfida al vento.
L’occhio acuto di Vito li sapeva distinguere dalle pojane brune: hanno la testa incassata tra le spalle, sembrano in collera col mondo. E la coda pare tagliata da un maldestro colpo di forbice. Ma hanno volo sicuro, quasi divino, immobili nelle correnti d’aria che vanno verso l’alto.
Il Praderadego era la strada degli zattieri.
Il camminare di Vito era spedito, tranquillo. Ogni sera di ogni giorno di lavoro che il buon Dio mandava sulla terra: il suo era un ritorno trionfale.
Da solo. Camminava senza compagnia perché, nella solitudine, la testa gli si gonfiava di pensieri. Buoni e qualche volta brutti, non importava.
Ma erano le sue cose, la vita. Sua madre, la sua montagna, il suo fiume.
Le fole che avrebbe raccontato. Non c’era sentiero che Vito non conoscesse. E ogni baita poteva essere un rifugio quando, sceso al porto di Falzè, intraprendeva la strada per tornare a Mel e lo sorprendeva un temporale. Risaliva il corso del Soligo fino a Follina.
Di lì piegava verso Valmareno e imboccava la strada del Praderadego.
Poi la discesa verso Mel. Quando arrivava a casa, alla Nave, era notte fonda. Qualche ora di sonno e poi di nuovo a guidare la zattera giù per la Piave.
Talora, invece di salire al Praderadego, imboccava la Val d’Arc.
Non erano in molti a conoscere quel posto selvaggio e misterioso. Lì, proprio a sbarrare il fondovalle, chissà quali crolli e quali acque avevano creato un incredibile arco di roccia. Quelli di Miane e quelli di Mel, dopo secoli di baruffe, avevano deciso che proprio lì passasse il confine tra i due paesi. Lo avevano anche inciso nella roccia, perché tutti sapessero e ricordassero.
Altre baruffe. Antiche e impiantate nel sangue. Era il 6 giugno 1838.
La data era familiare a Vito. Lui, in quel giorno, ci era nato.
Il nome, luminoso e breve come un lampo, sua madre glielo aveva voluto mettere per tenere lontano il mal caduto che aveva ammazzato suo padre prima ancora che lui venisse al mondo. San Vito era raffigurato nei santini come un giovinetto bello, andato martire col sorriso in volto. E la sua festa cadeva di lì a poco, proprio a metà giugno.
Quando il male sferrò l’attacco più cattivo, sua madre era in nove mesi. Non ebbe la forza di aprire la bocca del suo uomo e mettergli una scheggia di legno tra i denti.
Vito era nato pochi giorni dopo, nel dolore fisico e dell’anima.
Alla Nave, quattro case dove Terche e Puner si incontrano prima di andare a gettarsi nella Piave, non nasceva un maschio da molti anni. Tutti, a cominciare dal prete che lo aveva battezzato nella chiesa di Mel, trovarono che era beneaugurante chiamarlo così.
Crebbe bene, il ragazzo, senza i segni premonitori del male. La notte, sua madre si svegliava di soprassalto, la fronte sudata e il cuore in bocca. Ma lui dormiva tranquillo, il sonno era profondo.
Sulla vallata volava l’allocco dagli occhi grandi e tenebrosi. Aveva urla stridule ma rassicuranti e perfino allegre. Un buon presagio.
Vito veniva su che pareva impossibile stargli dietro. Bello, con gli occhi color dell’acqua e con le braccia muscolose che sembravano fatte apposta per impugnare un’atola e manovrare le zattere sulla corrente del grande fiume.
Sognava e aveva progetti. Imparò a leggere, a scrivere, era veloce nel fare le somme. Un po’ di scuola gliela fece il prete. Gli insegnava che tanti secoli prima i Romani antichi avevano fatto passare di là una via importante per raggiungere le Alpi e le terre più lontane, per andare verso i confini del nord dove premevano i barbari invasori. E Nave, dove lui era nato, traeva il nome da una parola antica che alludeva alla felicità di quel luogo: una pianura attraversata dalle acque e circondata dai monti, in cui era bello vivere e mettere su casa, anche se la povertà era tanta.
Il prete, nel trovar Vito così pronto, pensò persino di farlo entrare in seminario.
Ma Vito amò da subito la corsa irruente della Piave, il Cordevole immenso che vi si immette proprio davanti a Mel, il Veses che scende da santa Giustina, insomma tutte le acque che scendono in pianura, convogliando verso Treviso e Venezia la ricchezza delle montagne e delle vallate.
Fu zattiere a vent’anni, abile nel cogliere qualsiasi variazione nel filo della corrente, un bogolo strano, un gorgo improvviso.
Spesso lo chiamavano all’imbarco di San Felice, un po’ sopra Mel. Bisognava fare di conto e alle svelte. Di là transitavano infatti i rifornimenti e gli attrezzi per i minatori della val Imperina, dove i padroni erano trevisani, i Brandolini, che avevano il loro feudo dall’altra parte delle montagne, a Valmareno.
Vito scendeva la Piave con maestria straordinaria: Cesana dove si immetteva ribollendo la Sonna, Caorera e poi il passo di Quero-Vas. Lì le sponde erano così vicine che si poteva tirare una catena da una parte all’altra per riscuotere con più comodo il pedaggio.
Poi i passi di Segusino e Fener dove entrava il Tegorzo scendendo dalla val d’Alano. Poco oltre, il fiume di montagna rallentava la corsa per entrare in pianura e i passi si moltiplicavano: Onigo, Bigolino, Covolo e poi quello di Vidor sovrastato dall’abbazia di santa Bona. Quindi San Mama, Ciano e infine il porto di Falzè, a nord del Montello, dove gli zattieri della Val Belluna ricevevano il cambio da quelli di pianura.
Nell’esistenza di Vito c’era solo il fiume. Ogni giorno un’avventura.
A trent’anni non si era ancora fatto la morosa E dire che le ragazze se lo mangiavano con gli occhi quel ragazzone alto e moro. Sul viso abbronzato gli occhi azzurri erano due gemme splendenti.
Sua madre smise di preoccuparsi il giorno in cui Vito le chiese di rammendargli i calzoni e le portò alcuni gomitoli.
Con la lana verde voleva un giaccone nuovo e con quella rossa una fusciacca che si vedesse di lontano. Bella lunga, da girarsela attorno due volte e che ne avanzasse tanto da farne uno svolazzo, quasi una bandiera. Era incuriosita la vecchia, ma non lo faceva vedere.
Semplicemente raccontò a suo figlio come le ragazze di Mel fossero più furbe di quelle di Miane, perché dopo tanti anni di discussioni inutili si era deciso che il confine passasse nel punto in cui si sarebbero incontrate due ragazze di vent’anni partite dai rispettivi paesi al cantar del gallo.
Ma quella di Mel, che si chiamava Teresa e aveva lunghe trecce nere, fece vegliare il moroso e questi scosse il gallo inducendolo a cantare ben prima dell’alba. Teresa si avvantaggiò e l’incontro avvenne proprio sotto l’arco di roccia che tagliava la Val d’Arc. Teresa aveva fatto un patto col diavolo.
I rádeghi. E barufe, insoma, e barufe vece come el tempo incalzava sua madre. E Vito pensava al Praderadego. Il suo Praderadego.
Nessuno seppe mai chi fosse la morosa di Vito. A chi gli chiedeva qualcosa rispondeva con un sorriso. Faceva il misterioso. Era buono e gentile.
Un giorno, poco sotto al Praderadego, Vito trovò, impigliata nei rami di un acero, una pojana con l’ala spezzata. Era aprile, la stagione in cui le pojane fanno il nido per la nuova covata. Lo imbottiscono di muschio e foglie. E continuano a rinforzare i bordi anche quando le uova sono schiuse. La pojana è unica nel difendere i suoi piccoli. Però, chissà perché, porta male.
Di certo, per la pojana di Vito non ci sarebbero stati nuovo nido e uova da covare.
Si era intestardito a curarla. Ci aveva messo passione anche se tutti gli ripetevano che era uccello del malaugurio.
Era stato bellissimo il giorno in cui le aveva fatto spiccare il volo. Giusto un anno dopo.
Al mattino se l’era messa nella giubba di lana verde e per tutto il giorno, mentre timonava la zattera, l’aveva sentita pulsare contro il cuore. Tornò proprio sul posto dove l’aveva trovata. A sera, nel bosco, si sentivano gli odori di marcita dell’estate vicina.
La pojana gli era uscita di mano, toccandolo un’ultima volta, dolcemente, con gli artigli duri. Ma non si era allontanata.
Da quel giorno diventò Vito della pojana. L’uccello lo seguiva, alto nel cielo, quando scendeva lungo la Piave. Gli si poggiava sulla spalla quando si fermava a far colazione, lo precedeva con volo veloce oltre le anse del fiume, quasi a esplorare i pericoli che si nascondevano al di là delle curve.
A sera, la madre di Vito alzava il fuoco sotto la zuppa quando sentiva la pojana aliare attorno alla casa e poi la vedeva posarsi vicino al lume, sopra la porta. Il figlio avrebbe fatto sentire, di lì a qualche momento, il suo passo traballante.
I vecchi di Mel continuavano a dire che l’uccello non prometteva niente di buono.
Ed era un peccato, aggiungevano, perché un uomo come Vito era una ricchezza rara, destinato a diventare un grande contafole.
Il giovane uomo era come il fiume su cui scendeva ogni giorno: raccoglieva ciò che sentiva raccontare.
Le fole sono un altro modo di vedere le cose, più vero, anche se più misterioso.
I racconti di Vito indussero ragazzi di Mel a guardare con occhi diversi quello strano rospo dal ventre giallo che metteva nido nelle lame di montagna e tra maggio e giugno riempiva le notti delle praterie con ululati d’amore.
In realtà era un grido di attesa. Quando il sole estivo seccava l’ultima goccia delle lame, l’ululone si liberava finalmente della sua pelle di rospo e tornava il folletto birichino che giocava tiri birboni.
La gioia più grande, i folletti la provavano quando andavano a ballare tra le rovine delle vecchie malghe abbandonate. Che non erano resti di muri, ma veri e propri cerchi magici dove, nelle notti di luna piena, i folletti progettavano con ghigni tremendi gli scherzi da giocare nei giorni a venire.
Poi con la brutta stagione, alle prime piogge, i folletti erano condannati, in un giro che durava dalla notte dei secoli, a tornare rospi.
Ma la fola che a Vito riusciva meglio era quella dell’allocco. La allungava, le faceva imboccare strade imprevedibili, la riempiva di invenzioni sempre nuove.
Infatti l’albero dal quale, a starci bene attenti, si vede a volte affacciarsi con i suoi grandi occhi tondi l’allocco, non è un albero come tutti gli altri.
È un albero in cui si può entrare. Per tuffarsi in un altro mondo.
Vito c’era stato, naturalmente, e poteva raccontare per filo e per segno quello che aveva visto, di caverna in caverna.
Le prime grotte erano piene di tesori, di oro, di perle, di monili e bastava accendere un ramo intriso di resina per vedere sfavillare montagne di metalli preziosi. Ma non bisognava lasciarsi fuorviare o distrarre. Infatti Vito non era ricco e per sbarcare il lunario doveva ammazzarsi di fatica tutti i giorni sulle zattere. Se uno si fermava alle grotte dei tesori, si perdeva il meglio.
Le grotte successive erano tanto più spettacolari e interessanti. Ospitavano i grandi laghi da cui nascevano tutte le acque della montagna, della Val Belluna e della Val Lapisina e anche tutte le acque che per via misteriosa andavano ad alimentare le risorgive di pianura. Perché tutti i fiumi, dal più grande e impetuoso al più povero rigagnolo, hanno un’unica madre, una sola sorgente. Proprio lì, sotto la montagna.
Poi era bello vedere gli aceri, i larici e i faggi dalle parti delle radici. Si capiva come la linfa nutriva ogni ramo, ogni più piccola foglia. Ma lo spettacolo più incredibile erano le fondamenta dei grandi castelli di Cison, di Follina, della Valmarena e delle mille rocche, possenti o minuscole, che presidiavano montagne e colline.
C’erano passaggi segreti attraverso i quali ci si poteva introdurre in ogni castello e conoscere i segreti dei padroni. Vito, quando gli veniva l’estro, raccontava di delitti rimasti ignoti, di persone murate vive, di prigionieri sepolti nelle segrete. Anche l’arco di roccia che chiudeva la Val d’Arc aveva radici profonde e proprio lì sotto i diavoli organizzavano i loro convegni per discutere su come tenere accese la rivalità e le baruffe tra Miane e Mel. E che dire dell’abbazia di Follina con i suoi immensi muri sotterranei?
Quante cose aveva conosciuto, Vito. I ragazzini sognavano e sgranavano gli occhi. E rabbrividivano di paura quando raccontava i misteriosi labirinti celati nelle fondamenta dei castelli.
Non c’era dubbio. Sarebbe divenuto il più memorabile contafole della vallata. Ad ascoltarlo sarebbero giunti da oltre il Praderadego, da oltre il San Boldo, dal Combai, da Tovena e da Premaor, da Belluno e anche da più lontano.
Ma è proprio vero che la pojana porta male. Una sera d’autunno la mamma di Vito (era ormai vecchissima e i suoi occhi non vedevano più) sentì l’uccello sbattere le ali sulla porta.
Era inquieta da qualche ora senza sapere perché. Le ore passarono senza che risuonasse il passo di Vito.
Lo zattiere bravo a contar fole non tornò mai più. A sua madre si spezzò il cuore, qualche mese dopo. Vito, si disse, era precipitato nella gola stretta e impervia che separa il castello di Zumelle da quello di Castelvint, in un passaggio noto a lui solo. Voleva abbreviare il viaggio. O forse cogliere il fiore raro e bellissimo che sboccia una sola volta all’anno e solo in quella gola orrida.
Anche la pojana non si fece mai più vedere.
Però i ragazzini di Mel erano sicuri che Vito stava vagando tra le grotte immense, sotto l’albero dell’allocco. Prima o poi sarebbe riemerso per raccontare la fola più lunga, più incredibile, più luminosa che mai si fosse sentita.
E per molti anni i fanciulli della Val Belluna, fattisi uomini e poi vecchi, aspettarono una pojana che aliasse leggera sulla porta della casa abbandonata, alle foci di Terche e Puner.
Vito sarebbe arrivato di lì a qualche minuto, col suo passo rapido e traballante da uomo del fiume.