Pennacchi di fumo
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Segnalato
Pennacchi di fumo
di Mauro Perfetti - Quassolo (TO)
Dove c’erano baite e fienili ci sono le casette, una nastro di asfalto nero è al posto della bianca stradina, le piste da sci hanno eroso boschi e pascoli.
Albino tornava spesso con la mente dov’era nato, rivedeva pennacchi di fumo che dai comignoli dei tetti salivano ad accarezzare le chiome degli alberi, pensava a sua madre vestita di scuro e ai suoi fratellini dagli occhi grandi e stupiti costretti a crescere troppo in fretta e a scoprire le cose del mondo prima del tempo, come dovevano fare i bambini della montagna.
Rivedeva suo padre chino a falciare l’erba. Pover uomo, il babbo, era scampato a una guerra tremenda, con migliaia come lui era salito su un lungo treno diretto al confine, poi sulle montagne, tanti giorni senza il cambio per dismontare, le pallottole che invisibili arrivavano prima dello scoppio, ta-pum, ta-pum, colpivano un sasso, un corpo umano o il basto di un mulo, come certi canti descrivevano meglio di un inviato di guerra; aveva visto morire i suoi amici abbracciati a grovigli di filo spinato, sotto i colpi della mitraglia, dilaniati dalle schegge delle granate che esplodendo alzavano sinistri pennacchi di fumo, altri suoi compagni erano morti sotto la valanga; qualcuno era anche andato fuor di testa, nessuno di quelli tornati a baita riusciva più ad essere lo stesso di quando era salito sul lungo treno, tanti di loro avrebbero trascinato un fardello insopportabile per il resto dei loro giorni.
Il babbo aveva anche dovuto vedere uno dei suoi figli partire per un’altra guerra, per un nuovo teatro di studiata macelleria fra uomini.
Albino, con migliaia come lui, era salito su un treno diretto a un porto di mare, laggiù, dove l’orizzonte era piatto tutto intorno. Una nave di ferro lo aveva quindi portato a una vicina terra straniera ricoperta di montagne, non erano alte come le sue quelle montagne ma quando le aveva viste aveva avuto la sensazione che avessero un qualcosa di già visto, di familiare.
In quel posto di guerra, non frotte di soldati che correvano incontro a reticolati e bocche di mitragliatrici ma un guerreggiare fra boschi e dirupi; pattuglie che davano la caccia a quelli che chiamavano ribelli; agguati, lunghe guardie notturne, incursioni, sorveglianza di punti strategici, scorte a convogli che trasportavano munizioni e viveri; colpi di armi pesanti e leggere, miagolio di pallottole che colpendo le rocce si impennavano, vorticavano e si perdevano lontano, quando non raggiungevano qualcuno e gli laceravano le carni.
Nei villaggi, povera gente. Bambini, tanti bambini straccioni si aggiravano intorno agli accampamenti degli stranieri venuti da lontano, aspettavano un po’ di cibo e quasi mai rimanevano delusi. Donne, vestite di scuro senza un’età che si potesse dire, sguardi fieri, quasi di sfida, Albino le incrociava su strade fangose, con incredibile equilibrio portavano cesti ed ogni sorta di altre cose sulla testa, ritte nella quotidiana fatica del vivere e nell’orgoglio di donne e di madri. Uomini, tutti vecchi, le facce rugose, le bocche sdentate nere di tabacco, sedevano su rassegnati asinelli già stracarichi di fascine, oppure oziavano accovacciati da qualche parte, fumando.
A quella gente erano venuti a fare la guerra? A quei pezzenti? Perché? Per che cosa? I ribelli che dovevano combattere sulle montagne, chi erano? I padri e i fratelli più grandi dei bambini straccioni? I figli e i fratelli delle donne vestite di scuro e dei vecchi che oziavano fumando? Per quella gente i ribelli erano forse patrioti? Patrioti, ribelli, “così è, se vi pare”, una sola verità per tutti che non poteva esserci.
In un agguato i ribelli avevano ucciso alcuni invasori e rubato le armi. Si erano poi dileguati sulla montagna, irraggiungibili. La compagnia del battaglione era subito stata mobilitata, non per espugnare una postazione nemica, conquistare una cima, difendere un avamposto, le pattuglie dovevano raggiungere le misere case sulle colline, gli ovili, i fienili, le stalle, ogni luogo dove si svolgeva la vita della gente di quelle contrade. Rappresaglia, l’ordine dal comando era giunto perentorio.
Nei boschi sulle alture alcuni pennacchi di fumo cominciarono ad alzarsi oltre le chiome degli alberi. La pattuglia di Albino raggiunse il suo obiettivo: una povera abitazione di povera gente che campava con le povere cose che solo una montagna povera poteva dare, una modesta casa di pietre e tronchi sovrapposti con un ovile accanto e un piccolo ricovero per gli animali da cortile, ma per tirarli su chissà quanta fatica, quanto sudore versato da quella gente. Di capre lì non ce n’erano più e neanche quei tre o quattro conigli e galline che avevano scorrazzato sull’aia fino a poco prima. Gli uomini del posto nella loro tempestiva fuga - ogni individuo valido poteva essere considerato un ribelle - dovevano anche aver nascosto gli animali in qualche anfratto nelle zone più impervie del monte. La risorsa vitale della famiglia era stata messa in salvo dalla predazione da parte di stranieri invasori perennemente accompagnati dai morsi della fame, compagna fedele dei soldati in tutte le guerre. Una donna incinta vestita di nero e tre suoi bambini dagli occhi grandi e stupiti erano i soli esseri viventi, erano là, muti, immobili come statue davanti alla loro casa, oggetti senza valore in attesa della sorte riservata ai vinti e ai più deboli.
Albino e i suoi commilitoni erano gente di montagna, di poche parole e di fatti concreti. In baita lontana avevano lasciato mamme vestite di scuro, sorelle, fratelli e figli con stracci addosso e zoccoli duri ai piedi. Sapevano qual era la cosa giusta da fare. Sradicarono alcuni cespugli verdi e dei ciuffi d’erba secca, li ammucchiarono un po’ lontano dal caseggiato verso valle e gli dettero fuoco. Alimentarono poi il falò con altri arbusti finché un gigantesco pennacchio nero si alzò verso il cielo, oltre le cime degli alberi. Chi dal fondo valle avesse guardato in quella direzione avrebbe pensato che fosse la casa a bruciare, non della vile sterpaglia. Così è se vi pare.
Anche quella guerra finì. Albino ritornò a baita. Un duro lavoro come solo la montagna sapeva regalare ai suoi inquilini, la famiglia, il ricordo di coloro che erano partiti su lunghi treni diretti ai confini del dolore e della disperazione e che mai erano tornati furono le sue sole ragioni di vita degna, insieme all’accendere un fuoco amico dove serviva un po’ di aiuto e di conforto, tutte le volte che si poteva, in silenzio, sapendo di fare la cosa giusta.
Di anni ne erano poi passati, tanti. Le cose sulla sua montagna poco alla volta erano cambiate. Tutto era diventato più facile, anche se non tutto era rimasto così bello come ai tempi della sua giovinezza. Le baite si erano trasformate in anonime casette, al posto dei muli rombavano trattori fumanti, il torrente scorreva tra ferro e cemento. I bambini, ben vestiti, andavano alla scuola con l’autobus che fermava sulla strada asfaltata, dove un tempo c’erano solo prati fioriti. Le donne indossavano abiti di tutti i colori e frequentavano le piste da sci, che avevano eroso boschi e pascoli.
Intanto le nuvole di fumo non avevano mai cessato di alzarsi sulle montagne e in tutto il resto del mondo. Non solamente dai comignoli dei tetti, sui giornali Albino leggeva, e la televisione gli mostrava, di ordigni sempre più infernali che esplodendo alzavano sbuffi simili a lugubri pennacchi. Villaggi e città con le loro case ed ogni frutto della fatica di generazioni in pochi secondi diventavano cumuli di macerie, tombe per esseri viventi e fine di ogni speranza. Fra le rovine si aggiravano donne vestite di scuro e bambini dagli occhi grandi pieni di paura, ultimi fra gli ultimi che si aggrappavano alla vita in luoghi ormai privi di umanità, destinati ad alimentare colonne infinite di derelitti erranti fra nude vette e gelidi ghiacciai di inumana apatia, facili prede in loschi traffici e nutrimento per biechi profittatori in ogni latitudine del pianeta Terra.
In una ruota che girava senza fine, con alti e bassi, a chi toccava, toccava, rifletteva Albino, come un po’ era anche stato nelle sue vallate quando le guerre avevano portato via gli uomini e le loro forti braccia lasciando tutto il peso del vivere alle donne, ai vecchi, ai bambini, che una volta cresciuti se ne erano fuggiti altrove alla ricerca di un’esistenza un po’ più facile.
Così funzionavano le cose nel mondo dei vinti, sin da quando due incoscienti addentarono una mela proibita in un giardino dove tutto era bellezza, pace, armonia; ma se le cose fossero andate fino in fondo come dovevano, confidava Albino, nel giorno del gran finale una porta d’oro si sarebbe aperta in cielo, dall’altra parte tanta luce, montagne lussureggianti di boschi e di pascoli, torrenti dalle acque cristalline, alberi ricoperti di frutti, cori armoniosi di uccelli e tanta, tanta pace. Un austero Signore dalla candida barba fluente circondato di angeli si sarebbe affacciato e, rivolgendosi agli uomini di ogni tempo in trepidante attesa del gran giudizio, con voce solenne avrebbe proclamato: “Entrino le donne vestite di scuro e i loro figlioletti dagli occhi grandi e stupiti, gli altri abbiano ancora un po’ di pazienza, i miei collaboratori stanno finendo di esaminare i filmati dei pennacchi di fumo, poi indicherò uno ad uno chi altri ancora potrà entrare. Così è. Così sia”.