Passo svelto e 'vanti 'ndare - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Passo svelto e 'vanti 'ndare

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVII EDIZIONE
Arcade, 8 gennaio 2022
Premio speciale "Rosa d'argento Alpino Carlo Tognarelli"

 
Passo svelto e 'vanti 'ndare

 
di Rachele Fattore - Roma



 

Le note della fisarmonica erano una mano protesa lungo le strade silenziose e fresche nella sera del Buso. Arrivavano come un flebile battito di cuore per farsi via via più intense a mano a mano che ci si avvicinava.
Appena le sentivo, di nascosto buttavo via l’acqua della tinozza: - Vago al torente tóre un poca de acqua. - dicevo a mia madre. Ero una bambina ribelle e benché fossi la più piccola di cinque fratelli non ascoltavo i richiami di nessuno di loro; ero una puteleta ma ne avevo già viste tante.
C’era sempre aria di festa laggiù, una festa sobria e fatta di poche cose. Sulla strada vuota di macchine rischiarata appena dalla luce dell’osteria, il vociare si faceva sempre più denso fino a farsi fiato, i passi cominciavano a farsi ballo, la malinconia gioia di qualche istante.
La solitudine del Falzarego si stemperava piano fino a diventare finalmente una smorfia che assomigliava ad un sorriso. In quella gola che ai pellegrini di secoli prima era sembrata l’antro dell’inferno ora la musica rianimava i cuori che poco avevano da star allegri.
C’era il Tiberio con i suoi occhi storti, c’era Maria piena di lentiggini e poi paesani e foresti. Chi parlava di affari, chi si scambiava sguardi, chi passava le ore in compagnia davanti ad un bicchiere di rosso: venivano da ogni dove per quella musica e per la spensieratezza di una sera.
Quando poi Attilio metteva via la fisarmonica e la moglie chiudeva la porta, noi tutti tornavamo mesti ma rinvigoriti alle nostre case; la musica finiva, però il richiamo dei 4444 gradini poco lontani sembrava una presenza feroce che di anno in anno, di generazione in generazione, passava a chiedere il conto. Spesso mi giravo verso il buio del bosco e con le braccia puntate ai fianchi facevo un grande sberleffo. L’ho sempre e comunque vinta io!
Erano inverni lunghi e senza tante pretese, il caldo del camino, il profumo di mamma e le mie marachelle in paese incolpando sempre qualcun altro. Ormai i carabinieri mi conoscevano e conoscevano anche quei poveracci dei miei amici che a turno cercavo sempre di incolpare. Mi mettevo a seguire mamma quando succedeva, ma lei diceva che dovevo prendermi le mie responsabilità. E così fu anche quando lei non ci fu più.
***
I primi segnali di disgelo segnavano il tempo della nostra partenza. E così con l’arrivo della primavera anche la baracca costruita da nostro padre si rianimava. Era così tutti gli anni, fino alla prima neve autunnale. La casa di Gallio si svuotava e ci si trasferiva a più di duemila metri di quota, lontani centocinquanta chilometri da casa, per fare ferro.
Per arrivare al Falzarego la strada era lunga e più di una volta mi è toccato di farmela a piedi, da sola con soli dodici anni sulle spalle e il coraggio che toccava far venir fuori. Ora dopo ora scendevo per la strada che era stata di tronchi, soldati e profughi giù giù fino a Val Stagna. Talvolta facevo un tratto di strada con qualche commerciante che scendeva in pianura per vendere lana e formaggio; altre volte incrociavo i pastori con le greggi che salivano in quota a pascolare. E io scendevo per raggiungere mio padre e i miei fratelli. Da Valstagna prima un treno per Bassano, poi una corriera per Cortina e poi un’altra ancora verso il passo. A riuscire a prenderla quella corriera!
A quel tempo noi puteleti di questo nome avevamo solo l’aspetto e null’altro più.
Quel giorno forse avevo calcolato male i tempi o forse era troppo tardi e basta e l’ultima corriera era ormai partita da Cortina. Mi prese un grande sconforto al cuore ma il ricordo della voce di mamma che mi spronava mi fece coraggio.
C’erano sempre le gambe, quelle che non mi abbandonavano mai. Passo svelto e ‘vanti ‘ndare!  Come gli animali selvatici avevo imparato a conoscere le scorciatoie in mezzo al bosco. Facili di giorno quando la luce filtrava attraverso le fronde dei pinnacoli verdi, difficile di notte quando le ombre lunghe degli alberi impaurivano e il silenzio della notte amplificava i più minimi rumori.
Dopo otto chilometri ero stanca, preoccupata che mio papà si desse pensiero per il mio mancato arrivo, con il buio che diventava pece lontano dalla strada. La luce concessa da uno spicchio di luna, gli scricchiolii del bosco, i predatori a caccia e le prede con il cuore che batteva come il mio, sempre più rapido. Ma avanti bisognava pur andare. Continuavo a mettere in fila passi svelti, più che potevo, poi finalmente una luce e i battiti diminuirono anche se avevo ancora il fiatone.
Quella casa la conoscevo e bussai forte alla porta. Giglio e sua moglie mi aprirono scompigliati appena dal primo sonno.
-   Rinetta ma cosa feto qua sola a ste ore? -
-   L’ho persa la corriera. Mi go paura ‘rivar fin su! –
-   Dai, vien co’ mi che te meno casa! -
Salii sulla motoretta del Giglio così rumorosa in quel silenzio assoluto che temetti potesse smuovere qualche masso. Mi strinsi forte a lui: il maglioncino non fermava l’aria di montagna e non volevo rischiare di ruzzolare giù. Non ci volle molto e quando fummo a casa non vidi l’ora di stendermi al caldo. Guido, Benito e Dario dormivano di già; accostai le mani alle braci per riscaldarmi il viso poi mi intrufolai tra di loro a ricercare ancora un po’ di calore. La ceba non era comoda come il letto della casa al Buso ma ero così stanca che mi addormentai subito. L’indomani sarebbe cominciato il nostro raccolto.
La prima volta che vidi le cime maestose del Lagazuoi e delle Tofane fu una meraviglia: mi fecero sentire piccola ma piena di vita. Ma le estati seguenti quando aprivo la porta della baracchetta mi chiedevo quanto avremmo camminato ancora, cosa avremmo trovato in quei giorni che si portavano via la spensieratezza delle nostre estati.
Al mattino ravvivavo le braci della forneletta con qualche piccola fascina e preparavo la polenta per il pranzo. La rivendita di pane era troppo lontana e anche a conservarlo sarebbe stato troppo duro da mangiare.
Sacca sulle spalle, sgalmare ai piedi, piccone e badile e via a scalare le montagne arrampicandosi su rocce ripide, cenge che tagliano le pareti e si arrestano sopra l’abisso di roccia, sentieri e trincee per raccogliere rame, ferro ed ottone – quelli rimasti - da rivendere. Ero io la più piccola, perciò i miei fratelli si arrampicavano prima di me. Ci legavamo con una cinghia dei pantaloni, corde non ne avevamo. Quando sentivo i sassi scivolarmi da sotto gli scarponi, seguivo il loro precipitare per poi coprirmi gli occhi terrorizzata. Erano vertigini che non mi potevo permettere.
-   Rina no stà vardare indrio che te ve xò! - si raccomandava Benito.
-   Caschemo tutti se te fè cusì! – lo imitava Dario.
Loro sembravano avere più coraggio di me o forse dovevano solo far finta, per scacciare anche la loro di paura. Allora io cercavo di guardare verso le cime e un poco mi passava, finché una marmotta mi distraeva con il suo richiamo.
Passavamo tutto il giorno a sondare il terreno con la verga, rigirare pietre, alzare falde di muschio e mettere le mani nel fango. Ci inoltravamo nel buio umido delle trincee fino a quando i nostri occhi venivano sopraffatti dal buio. Senza torce e con tanta paura, a sperare che una feritoia illuminasse un poco la galleria per non scivolare nel fango, per non inciampare nei resti di qualche soldato.
Con quella curiosità di bambini che non ripara dalle cose brutte, anzi, ti ci butta proprio in mezzo.
Le montagne lassù erano piene di divise, bastava alzarne una con un bastone per trovare il ricordo macabro degli anni passati. I miei dodici anni mal sopportavano il peso di quei ritrovamenti, ma bisognava far su ferro e allora si scansavano la nausea, la paura e le lacrime e scavando si prendeva tutto quello che era rimasto. I corpi trattenuti per sempre nell’abbraccio delle montagne alla lunga non ci fecero più effetto, o almeno così sembrò. La spinta alla sopravvivenza aveva dato freddezza ai nostri cuori come protezione degli animi. Io cantavo, cantavo per scacciare i demoni, sempre. Cantavo quelle canzoni che riempivano di allegria i miei inverni.
Salita dopo salita, gonfiavamo i sacchi di iuta con i metalli fino a che non pesavano troppo per essere sollevati. Un mulo non potevamo permettercelo, una stalla e il fieno nemmeno. Così trenta, quaranta chili li caricavamo sulle nostre spalle.
Quando ad arrampicarsi sulle montagne c’era pure papà, le giornate erano molto più movimentate. Era lui ad occuparsi del recupero dell’esplosivo.
-   Scampé putei - tuonava il suo vocione.
Noi correvamo a nasconderci dietro un masso e lui faceva brillare la bomba di turno. Stretti e rannicchiati l’uno contro l’altro, le labbra in preghiera perché lui non si aggiungesse alla lista dei necrologi, le mani aperte a tappare le orecchie aspettavamo una pioggia di sassi e tutto era finito.
A pranzo una piccola pausa tra le rocce: una fetta di polenta abbrustolita, un pezzo di formaggio e talvolta una fetta di salame. Se le nuvole non cominciavano ad ammassarsi all’orizzonte ci concedevamo una pausa cercando un po’ di comodità tra rocce e cardi. Quando poi il sole cominciava piano a spostarsi dietro alle cime verso l’ora del tramonto era l’ora di andare.
Alla sera tutte i nostri sentieri si ricongiungevano alla baracca.
Di nuovo polenta, di nuovo formaggio, magari un buon piatto di minestrone con fagioli, cipolla, erbe di montagna, se eravamo fortunati un pezzetto di lardo e gli spaghetti spezzettati. Papà alle volte tardava. Al termine dei lavori di manovalanza si fermava in osteria e un bicchiere di rosso dopo l’altro lasciava lungo la strada i pensieri per poi unirsi al nostro sonno ciucco sfinito.
Le notti passavano così. Con la natura di fuori che rimaneva di veglia e noi dentro immersi nei nostri vapori, con i rami di pino che attutivano la durezza del legno ma non ammorbidivano il sonno per i nostri corpi già provati dai carichi del giorno.
Finché una notte dei colpi insistenti non ci svegliarono.
-   Cosa galo ‘desso ch’el vien bàtare a sta ora. – brontolò mia sorella Elvira convinta che fosse il giovane pastore invaghito di lei.
Papà si alzò e andò a vedere ma quando aprì la porta non c’era nessuno. Nessuno nei paraggi al di là dei grilli e forse qualche volpe raminga. Rimessosi a letto lui si riaddormentò subito, ma di lì a poco i colpi continuarono. Secchi e scanditi come un codice di un telegrafo. Io, con gli occhi sbarrati nel buio, non riuscivo a quietarmi. Continuarono fino a quando non riuscii a riprendere il sonno, sfinita, aggrappata ad un braccio di Elvira.
L’indomani di buon’ora papà andò a interrogare il pastore che giurò di non essersi mai spinto fin lassù. Quando tornò, mentre preparavo la colazione, gli chiesi cosa fossero stati quei colpi. Lui allora uscì per fare il giro della casa e quando rientrò era scuro in volto.
-   Ma sìo mati! Ma cosa catelo su?!?! –
-   Parchè? – rispose Elvira.
-   Vedio miga che i xè osi de morto! – la rimproverò. - È per quelo che i se fa sentire. –
Dal ferro veniva pane, dalle ossa nomi perduti e nuovi militi ignoti per cimiteri e ossari.
Che ne sapevamo noi infondo della differenza tra ossi e ossa. Raccoglievamo tutto perché tutto ci faceva guadagnare qualche soldo. Che fossero di capriolo o di chissà che altro, da quel giorno nessuno di noi le raccolse più. Papà risalì sulla montagna e le ripose vicino ad una croce di ferro. Recitò qualche preghiera ed io, che lo seguivo, vi posai un mazzetto di fiori raccolti lungo il tragitto.
***
Passavano così le mie estati, una dopo l’altra. Lassù in montagna, quando non eravamo nel mondo dei morti, tendevamo agguati a lepri e agnellini rimasti indietro da greggi che rientravano a valle, uccidevamo serpenti e guardavamo le montagne attraverso sassi forati dai proiettili. Ci rincorrevamo sui prati, ci nascondevamo tra le rocce, ci schizzavamo con l’acqua gelida del torrente.
Raccoglievamo stelle alpine per venderle ai villeggianti lungo la strada e la domenica l’unica festa era quella di un pasto un poco più abbondante negli alberghi, dopo aver rassettato le stanze e dato una mano in cucina.
Sono nata con una guerra alle spalle e una guerra davanti. La mia famiglia era tornata da un profugato clemente, aveva raccolto i cocci, rianimato macerie, ricominciato da capo e non soltanto una volta. Ed io avevo lo stesso sangue: caparbio e quel tantino ribelle ed incosciente, quel che bastava per farmi pesare meno il carico da novanta di quegli anni.
Se chiudo gli occhi rivivo tutto e i ricordi si fanno amari come le bacche di ginepro. Poi però sento una musica lontana, come di fisarmonica e il cuore si quieta: laggiù, da qualche parte, c’è ancora Attilio che suona.
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Note in appendice
Questo racconto è liberamente ispirato dalla vita della signora Rina Lunardi la quale ringrazio dal profondo del cuore per l’accoglienza, la disponibilità e soprattutto per la possibilità di raccogliere una testimonianza preziosa relativa ai tempi del profugato e dei recuperanti dopo le due guerre mondiali. Si tratta di ricordi preziosi ai quali dar voce per ricostruire la nostra storia e tramandarla alle generazioni future.
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