Mato de guera - Gruppo Alpini Arcade


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Mato de guera

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVII EDIZIONE Arcade, 8 gennaio 2022
Segnalato

 
Mato de guera

 
di Stefano Talamini - Torri di Quartesolo (VI)





La montagna mi parlava. Penserete che sia matto - e lo ero. Càpita.
Càpita a chi, appena compiuti i vent’anni, è costretto a lasciare il suo borgo, i suoi campi, gli amici e la morosa per indossare una divisa da soldato, per venire buttato di qua e di là, a combattere in posti di cui non ha mai udito il nome, a sparare a gente che non conosce, a obbedire a comandi assurdi e suicidi.
Càpita – di diventare matto – se la granata ti esplode troppo vicino, se dell’amico con cui avevi parlato fino a poco prima ritrovi a fatica mezzo braccio e gli levi l’orologio per mandarlo a sua madre, perché nient’altro di lui è rimasto.
Càpita che ti catturino, che finisca in un campo di concentramento, che ti nutra per mesi di pane ammuffito e di un liquido sozzo che chiamano “suppe” e mentre tu provi a farlo andar giù “loro” ridano, di te e degli altri come te. Ridevano sempre. Urlavano o ridevano. Non li ho mai sentiti pronunciare una parola normalmente, come si farebbe con i cristiani. Solo urla, di quelle che si usano per le bestie, o risate di vassalli ubriachi.
E allora càpita che la testa cominci a girare piano, poi sempre più lentamente, fino ad arrestarsi su un punto fisso e da lì non riesca più a schiodarsi. Ripeti tutto il giorno la stessa litania di parole, in cui nessuno può pescare il bandolo del significato e a volte ti ritrovi a raccontarla a un altro come te, anche lui arenato su un suo recondito pensiero, e ve ne state lì tutto il giorno, a intessere un paradossale dialogo tra sordi.
Era stato facile perdere la strada della ragione, fu tormentoso il sentiero per ritrovarla. Mi salvò la Ninetta.
La Ninetta era la mia morosa prima che partissi e mi aveva aspettato. Quando in paese mi rividero e si resero conto di come mi aveva conciato la prigionia, tutti dissero alla Ninetta che poteva lasciar perdere, che le toccava rassegnarsi, che non sarebbe stato peccato se si fosse trovata un altro, un uomo “intero” anche dentro la testa. Ma la Ninetta – dura e irremovibile come la roccia in cima ai pascoli alti, dove c’eravamo scambiati il primo bacio e giurato l’amore per sempre – disse che no, che lei le promesse le avrebbe mantenute e che intero o a pezzi il suo uomo ero io. E appena ripresi un po’ di forza e la testa ricominciò a funzionare, mi sposò. Mi diede tre figli, uno dopo l’altro, due femmine e un maschio; così tra il pensiero dei lavori da fare e la famiglia da mantenere mi abituai a non pensare alla prigionia, ai supplizi e a quella notte…
Già, quella notte! Non ci pensavo di giorno, non ci pensavo nelle notti in cui facevamo l’amore – che era bello e travolgente, fare l’amore – e il mio corpo vibrava di eccitazione e non di paura. Non c’era più la paura, non c’era più la memoria ma solo il piacere del momento, la pelle della Ninetta, i suoi baci, la passione. Poi mi addormentavo e riposavo sereno fino all’alba. Ma le altre notti – quando non facevamo l’amore – il mostro che mi covava dentro si risvegliava, mi scuoteva le fibre del corpo, mi devastava la mente e allora gridavo: l’incubo di “quella notte” era tornato.
Ci avevano avvisati a metà pomeriggio, a me e ad altri cinque: l’indomani, allo spuntare del sole, saremmo stati fucilati. Restava una manciata di ore, cinque sigarette in cortese omaggio e la visita di un frate per fare il resoconto dei peccati e chiedere perdono al Signore. Noi sei tacevamo, non osando nemmeno rivolgerci uno sguardo; il frate sussurrava paterno le sue parole di consolazione; fuori, invece, “loro” sghignazzavano, perché la morte – anche quando tocca agli altri – bisogna pur esorcizzarla.
Quella notte i miei capelli divennero tutti bianchi, come li vedete ancora adesso. Io non conosco le parole per raccontarvi tutto ciò che mi trapassò l’anima in quelle ore di attesa, con la Morte seduta a fianco, io e Lei a contemplare l’ultima sigaretta, tenuta da parte per accenderla davanti a plotone e strappare alla vita ancora qualche secondo.
Mi dissero che fu verso le quattro di notte, quando il silenzio spettrale del campo venne sovrastato dal rombo di una squadriglia di bombardieri. All’improvviso percepimmo che là fuori tutti stavano correndo, grugniti tedeschi sbraitavano a destra e manca, il riflesso possente dei fari filtrava dalle strette finestre e si stagliava incostante sul soffitto; udimmo le prime mitragliate, via via più fitte, fino a coprire ogni altro suono e ogni nostro silenzio.    
Una bomba cadde vicino alla baracca dov’eravamo rinchiusi noi condannati. Mezzo tetto e una parete volarono via. Tutto quello che stava avvenendo fuori entrò come un tornado: le luci, i rumori, le urla, i manichini impazziti che sbrancavano di qua e di là.
Di cosa può aver paura uno che è già morto, un albero già tagliato che aspetta solo l’ultima spinta del boscaiolo per crollare a terra? Le gambe si mossero da sole, senza comando, e in un batter di ciglia mi ritrovai fuori. In mezzo a quell’inferno vidi che c’era un varco nella lunga parete di filo spinato: lo attraversai, graffiandomi le braccia. E corsi. Corsi verso il nulla, corsi nel tempo infinito di una vita che era già consumata, corsi – anche questo lo seppi poi – per un centinaio di metri. Poi la mia notte tornò buia e silente e caddi a faccia in giù, scivolando esanime nella fanghiglia fino a baciare la terra. E lì rimasi.
Mi risvegliai su una barella. A una spanna dagli occhi vidi un tizio che parlava una lingua sconosciuta ma che non era tedesco. Non capii di essere salvo, di essere stato raccolto dagli alleati che avevano appena conquistato il campo. Balbettai nome, cognome, reggimento e numero di matricola. E risprofondai nel limbo dell’incoscienza.
Una mattina, dopo che la notte avevo gridato più del solito, la Ninetta mi disse:
- Bortolìn, va’ qualche giorno in montagna, da solo. Prenditi su qualcosa da mangiare e stai un po’ in mezzo alla natura. Qui la natura è forte, più forte degli uomini e delle loro disgrazie, più forte anche della malvagità. Lei ti saprà aiutare. Non preoccuparti per noi: so badare sia alla casa che alle bestie e non mi pesa fare i lavori degli uomini. Fallo per me, fallo per i tuoi figli.
Così me ne andai in alto, con il mio zaino di polenta, formaggio e incubi. Il primo giorno e la prima notte stetti in silenzio; poi cominciai a parlare.
Parlai ai prati, raccontai ai fiori, narrai le mie vicissitudini a un ruscello, mi confessai con gli alberi, svelai i recessi del cuore alle marmotte e persino alle poiane che di tanto in tanto volteggiavano sopra la mia testa. Chiamai a consiglio le montagne.
E dopo tre giorni di pellegrinaggio e di domande sospese nel vento, la montagna mi rispose.
- Io mi ricordo. Sì, mi ricordo di te bambino che venivi fin qua sotto a inseguire il fischio delle marmotte. Allora, allora ti bastava un fischio per essere felice. Poi hai voluto colpire le marmotte e allora io te le ho nascoste. Perché non ti sei accontentato del fischio che ti dava la felicità?
Non so se mi addormentai o svenni.
Il giorno dopo, quasi all’ora del tramonto, la montagna mi parlò ancora:
- Io mi ricordo, sì mi ricordo quando ragazzo venivi qua sopra a cacciare il capriolo. Chiamai a riparo le femmine gravide e intanto il vecchio capriolo ti si offrì. Poi ti vidi festeggiare all’osteria, stupidotto, la conquista di una vittima sacrificale che si era consegnata volontariamente. E quanto ci mettesti per scorgerlo, lui che per farsi notare balzellava a nemmeno cinquanta metri da te!
Era vero, era tutto vero, ma a quel tempo non avevo catturato la verità.
Il terzo giorno, la montagna attese l’alba della notte per parlarmi:
- L’uomo è ciò che patisce e ciò che impara a compatire. Ma se ascolti e riascolti solo il male, il bene non trova tempo per farsi sentire. Cosa rimastichi in continuazione della tua vita? Le avversità, i dolori, le angherie del lager, la morte seduta al tuo fianco? Perché vuoi rivivere due volte, tre volte, mille volte il Male?
Rivivere: strano verbo. Vuol dire vivere di nuovo, vivere un’altra volta. Ma talora – era il mio caso? – significa l’esatto contrario: smettere di vivere, non vivere più, rimanere inchiodati a un evento passato e ritornarci sempre, senza fare altra strada o, meglio, ripercorrendo avanti e indietro lo stesso cammino, fino a scavare un solco da cui non si riesce più a uscire… Era questo il mio male? Era questo l’aguzzino che mi teneva prigioniero?
Il quarto giorno la montagna tacque e io pensai che avesse smesso di parlarmi. Camminai fino a sfinirmi, giunsi nel punto più distante da casa e alla sera, accucciandomi in una culla d’erba al margine di un boschetto, mangia lentamente l’ultimo boccone di formaggio. Ero solo, lontano da casa, lontanissimo dalla Ninetta e senza cibo. E la montagna taceva.
L’indomani – l’indomani di una notte senza sonno – mi misi in cammino per tornare. Ero stanco, frastornato e la testa stava ricominciando a ronzare irrispettosamente.
Attraversai una vallata amara, dove il dio dell’acqua non aveva voluto donare nemmeno una sorgente. A mezzogiorno il sole picchiava forte ma continuai a camminare, con i miei fantasmi al fianco. Vidi le montagne arrossarsi e poi sfumare nella sera di zaffiro. Sentii gli uccelli sospendere il loro canto. Fu presto notte.
Stavo sdraiato sotto un larice antico, alto e solitario, inebetito dalla fame, dalla sete, dalla solitudine, bramando un sonno che non veniva, che non voleva quietare il rumore dei miei pensieri, quando la montagna mi parlò:
- Lo senti questo vento? Scompiglia le fronde, piega i foraggi, a volte spezza i rami; se è impetuoso più del solito, abbatte gli arbusti e talvolta persino gli alberi. Però il vento disperde i semi, li porta lontano, fa crescere piante dove non v’è nulla. I boschi crescono grazie al vento, la vita si diffonde per merito del suo soffio. Il vento della guerra tra gli uomini ti ha portato lontano, ti ha divelto dalla tua terra e ti ha accumulato con altri come te, disseminati in Germania, in Russia, in Albania... Ma Bortolìn ricordati: il seme cresce sempre più in là di dove è nato. E quello dove pativi come si chiamava? Campo! Non lo sapevano, ma lo chiamavano così perché credevano di seminare morte e invece seminavano nuove vite. La tua è venuta su un po’ storta, ma sei ancora in tempo per raddrizzarla. Lo so bene io, che ogni tanto sento cadere un pezzo (ed è un dolore, immagina che dolore perdere un pezzo di te) ma poi vedo che con quel pezzo costruiscono case, lastricano strade, erigono muretti protettivi! Guarda solo per un poco a quello che hai perso e pensa cosa farne, ora che sei tornato.
Vivere, rivivere… Andare, ritornare… Ma dove ero andato? A cosa ero tornato? Il consiglio della montagna era esigente: costruire! Ma prima ancora: pensare! Così trascorsi un’altra notte insonne, seduto vicino a un fuocherello che avevo acceso, posando di tanto in tanto un pezzo di legna per mantenerlo vivo. Mi scaldai di quel legno che vedevo diventare cenere e che al primo vento sarebbe volato via, nel nulla. Rivivere allora non mi parve più l’altera presunzione di far tornare il passato, ma la volontà di fare nuovamente un gesto antico. Non potevo far tornar legno la cenere, ma potevo mettere legna nuova sulla brace. Ma dovevo far presto, prima che i tizzoni si spegnessero per sempre.
Il sesto giorno la voce nella roccia narrò:
- Quando stavi seduto, contemplando nella mano, come se fosse una reliquia, la tua ultima sigaretta, quella notte, sì proprio quella notte, quando pensavi di aver ormai perso la vita e sentivi in tutta l’anima la pesante carezza della morte, quella notte tu ricevesti il grande dono di assaporare il senso e il privilegio dell’esistenza. Fuggisti – disperato e fiducioso – dall’oppressione della morte o dalla seduzione della vita?  
A questa terza domanda che mi fece la montagna trovai, pian piano, una risposta. Ma, credetemi, per quanto mi sforzi di condividerla, non trovo parole che mi soccorrano, che mi aiutino a farmi capire. Forse solo chi ha vissuto una storia come la mia, forse solo un altro “mato de guera” – di qualunque guerra in cui il destino si sia preso la briga di trascinarlo – potrà comprendere. Quello che riesco a dirvi è che la strada non passa né da una parte né dall’altra del bivio, ma c’è un sentiero nel mezzo, tra rovi e mughi, che rivela un panorama diverso, più ampio e più vero. Forse è una faccenda da matti, ma forse no.  
Il settimo giorno, nell’ora in cui il sole non proiettava ombre, la montagna mi raccontò:
- Un bambino correva su e giù per i pascoli; e mentre correva era felice, godeva del sole e della pioggia, della salita e della discesa. Un giovane baciò una ragazza e le promise amore eterno; la ragazza credette a quella promessa e lei stessa la mantenne: fortunato quel giovane! Un soldato fu mandato a combattere e sopravvisse a molte battaglie sanguinose. Un prigioniero sfuggì per miracolo a una condanna senza possibilità di appello. Un reduce tornò al suo paese e trovò ad attenderlo una grande festa dove danzavano una donna, tre figli, un lavoro e del cibo. Però a quella festa il reduce non riusciva a danzare, i suoi piedi erano troppo stanchi. E allora chiese un ultimo sforzo alle sue gambe spossate e camminò. Così, aggiungendo un’altra fatica alle sue molte, l’uomo ritrovò vigore e finalmente poté tornare alla festa e lasciarsi andare alla danza.
Questo sei stato tu, questo tu sei ancora.
La vita è un vento che ti porta: a volte è impetuoso e indomabile, a volte è una brezza che sorregge. Tu devi solamente lasciare che ti trasporti. Ma dentro quelle correnti di vento, tu puoi scegliere tra mille tracciati impalpabili, mille sentieri eterei che percorrono traiettorie seducenti. Le aquile più sagge già lo sanno. È tutto naturale, è tutto molto semplice. La vita è semplice.
Da quel giorno la montagna non mi parlò più. Tornai a casa e mi videro così come mi vedete ora.
Ascoltate le montagne. Se potete, se volete.
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