Mangiare - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

VI EDIZIONE - Arcade, 5 Gennaio 2001
Rosa d'Argento Manilla Bosi

Mangiare

di Franco Quercini - Roma



Sbucarono all'improvviso da dietro il mucchio di neve di fianco alla legnaia. Erano quattro, armati, con le divise dei soldati tedeschi. La donna che stava davanti all'uscio lasciò cadere quello che aveva in mano, si appiattì contro il muro della casa ed implorò con voce tremante: “Non sparate, non sparate! Per l'amor di Dio, non sparate...! Cosa volete?"
Dei quattro, quello che spiccicava qualche parola di italiano si fece avanti con fare rassicurante: ""Buona! Buona! Noi no sparare no sparare. Noi amici, amici! Noi fame! Tu cucinare, noi fame” e con la mano e con la mano fece il gesto di infilarsi in bocca un immaginario boccone.
"Qui non c'è niente da mangiare, siamo gente povera...," balbettò la donna un po' meno impaurita e un po' più comprensiva, ben sapendo cosa è la fame, lassù.
“No, no ... noi avere mangiare, tu cucinare, noi portato - e fece cenno di avvicinarsi a quello che portava un sacco in spalla - noi portato mangiare, tu cucinare a noi  ... anche tu mangiare..." e, aprendo il sacco, mostrò fiero un paio di pagnotte militari, un abbondante pezzo di manzo ed un fiasco di vino rosso, provenienti chissà da dove.
La donna guardò tutta quell'abbondanza, esitò un momento, poi si fece da parte, accennando con il capo di entrare. Se li vide sfilare davanti, prima quello con il sacco, poi quello che parlava italiano ed infine gli altri due: erano proprio dei ragazzini, questi, biondini, dai lineamenti delicati, poco più di trent'anni insieme ... che pena!
La donna richiuse l'uscio alle sue spalle e si apprestò a ravvivare il fuoco, mentre i quattro si lasciarono cadere pesantemente sulla panca che fa da contorno al focolare, pronunciando qualche parola in tedesco che lei non capi, ma che certamente esprimevano sollievo e soddisfazione. Si sfilarono le pesanti giacche a vento e gli stivali zuppi d'acqua gelata; finalmente un po' di calore! Di tanto in tanto giravano su se stessi, tutti assieme, come spiedi automatici ben sincronizzati.
D’un tratto, fuori la porta, si sentì un rumore, uno scalpiccio, due, tre volte. I tedeschi avevano già imbracciato i fucili quando la porta si aprì. Stava entrando un uomo raggomitolato su se stesso per il freddo, ignaro delle canne puntate contro di lui. La donna lanciò un urlo e si parò in mezzo, tra i fucili e l'uomo: "Mio marito! E’ mio marito!", gridava alzando la mano sinistra con le dita ben aperte per mostrare la vera e intanto indicava quella che si intravedeva nella mano di lui. "E’ mio marito, non sparate...” ripeteva
"Marito? Cosa marito? - chiese quello che faceva da interprete - Ja,  capito! Papà! Tu mama e lui papà! Bravo papà vieni, bravo, no paura!” e fece cenno ai commilitoni di abbandonare i fucili.
Rideva contento, il tedesco, sembrava felice di quell'incontro, e con lui gli altri tre. “Lui papà, tu mama!” continuava a ripetere gioioso. Poi aggiunse: “Noi bambini, tutti vostri bambini! Vero, mama?” facendo col dito a mezz’aria un cerchio in orizzontale. “Papà, mama, bambini. Tutta famiglia! Oggi festa, vino, tutti mangiare di festa!” diceva il tedesco, e giù risate con gli altri.
La donna, mentre metteva nel paiolo, assieme alla carne, qualche patata, il condimento ed un ciuffo di odori rinsecchiti, tanto per insaporire un po’, rimuginava dentro di sé: “Eh sì, bambini, figli! Magari fosse vero!” e sospirava in silenzio. Ripensava a Primo, a Giovanni, a Toni e Bepi, i due gemelli che, ancora adolescenti, erano andati assieme ai fratelli maggiori a combattere “per l’Onore della Patria” al fianco dei tedeschi, lontano, laggiù nella pianura: erano morti tutti assieme, saltati in aria col camion su un ponte minato dai partigiani, Glieli avevano ammazzati tutti quattro d’un colpo solo, così, come la falce in un amen schianta un ciuffo di spighe. E pensare che lei ci aveva messo anni di fatiche e di sacrifici per tirarli su sani, robusti come querce, con dentro la chiassosa allegria della loro età; magari un po’ spacconi, ma tutte le ragazze giù al paese ci si rifacevano gli occhi! Chissà dov’era la loro tomba, se mai c’era!
E certo non si dimenticava di Checco, il mezzano: era diverso dagli altri fratelli, anche lui un pezzo di ragazzone così, ma diverso, più chiuso, sempre all’opposto dei fratelli. Lo chiamavano “il professore” perché gli piaceva leggere i libri, lo prendevano in giro. E lei gli voleva anche più bene forse proprio per questo, perché tutti lo schivavano, non lo capivano, diceva, e così lei lo proteggeva, lo compensava di quello che non aveva dagli altri. Sperando che anche lui diventasse come gli altri. Ma quando fu il momento, lui aveva deciso che bisognava combattere “per la Libertà”. Era andato su in montagna, si era unito ai partigiani, ma durò poco: fu fatto fuori da una raffica tedesca durante un rastrellamento, non lontano da casa.
La zuppa si era oramai fatta pronta e la donna chiamò tutti a raccolta. Scodellò cinque bei piatti di minestra fumante e li mise in tavola. Mentre quelli cominciavano a mangiare, lei si appartò vicino al focolare, in piedi, come aveva sempre fatto. In fondo, provava un mesto piacere a guardarli: quel giorno gli uomini in casa non erano sei, ma cinque soli; comunque, meglio di niente. Ma quel figlio, così orso, sempre bastian contrario, le mancava troppo…
Là fuori, nella neve, stava camminando Edo: avvolto in un vecchio pastrano, un cappellaccio calcato in testa, il mitra in spalla. Si muoveva con buon passo da montanaro, lui che veniva dalle pianure dell’Emilia: il padre ammazzato dai fascisti mentre difendeva il posto di lavoro in fabbrica, Edo aveva deciso di sospendere gli studi e di mettersi con i partigiani anche per vendicare quella morte. Ora stava andando su, al comando di zona, per portare un dispaccio importante.
Erano tre giorni che camminava: fatica, freddo, dormire nei fienili e poco mangiare. Trovò un masso levigato sotto un albero; si sedette. Dopo essersi riposato per qualche minuto, pensò di mangiare qualcosa prima di rimettersi in cammino. Estrasse dalla tasca del pastrano un fagottello con dentro qualche galletta ormai sbriciolata ed un avanzo di formaggio; non aveva nient’altro. Mandò giù tutto, ma la fame restava ancora lì, a  farsi sentire. Si rimise in marcia attraverso il bosco fino al limitare della radura: qualche centinaio di metri più sotto, dal comignolo di un casolare usciva uno sbuffo di fumo. Un momento d’indecisione, poi si avvicinò con circospezione, spalancò la porta con un calcio e, imbracciando il mitra, si affacciò minaccioso nell’ampio vano della cucina.
Vide i quattro soldati tedeschi seduti intorno al tavolo, assieme al contadino, e la donna in piedi vicino al focolare.
Tutti rimasero immobili, terrei, con gli occhi sbarrati. Un tedesco accennò un movimento: la canna del mitra puntata su di lui lo dissuase dal proseguire ogni suo tentativo. Si sentiva solo lo scoppiettio della legna che ardeva, la tensione tirava i muscoli sotto la pelle fin quasi a strapparli. Il tempo sembrò rarefarsi, nel lento muoversi degli occhi sgomenti. Il terrore di tutti sembrava formare un unico blocco, solido come il ghiaccio. Anche il partigiano aveva paura: sì, i fucili ammonticchiati erano quattro, come i soldati seduti intorno al tavolo, ma se da una delle altre due porte chiuse che davano nella stanza fosse entrato un altro tedesco armato? Cosa fare, sparare subito su quelli lì, per non pensarci più? Annientare anche l’uomo e la donna, che davano ospitalità al nemico? Ma ancora: si può ammazzare uomini in una cucina che odora di cibo appena preparato? Un movimento della donna rimise in moto gli ingranaggi del tempo: prese un mestolo e, dal paiolo sul focolare, versò un po’ di minestra in una scodella, cercò in fondo al caldaio due pezzi di carne, i più grossi, ed aggiunse anche quelli. Con passettini quasi impercettibili, si avvicinò lentamente al partigiano e gli porse la scodella, un cucchiaio ed un po’ di pane: “Tieni, figlio mio, mangia… è calda… è buona..!” gli disse, accompagnando le parole con un mesto sorriso. La voce della donna era dolce, materna, un po’ tremante per la paura, come la mano; dallo sguardo, sotto le rughe della fronte, traspirava una sconfinata tristezza.
Quelle parole scossero il partigiano ed i suoi occhi incrociarono quello sguardo accorato, si specchiarono in quelle pupille e vi videro riflessa un’immagine sfocata, lontana, un’immagine di paese, di amici, di un’altra donna che, più buon diritto, lo chiamava “figlio mio”…
Il partigiano lanciò una lunga occhiata intensa ai tedeschi seduti a tavola, poi lasciò spenzolare il mitra dalla spalla, si appoggiò con la schiena e la suola di uno scarpone alla parete subito dentro l’uscio, allungò e mani e prese quanto la donna gli porgeva.
Cominciò a mangiare avidamente. Anche i tedeschi ripresero a mangiare, lentamente, rompendo il silenzio solamente con il rumore delle stoviglie e qualche risucchio di minestra. La donna si avvicinò al tavolo con in mano un bicchiere e versò del vino dal fiasco; sempre con i passi lenti si avvicinò di nuovo al partigiano e gli porse il bicchiere colmo. Lui lo  prese, porgendole in cambio la scodella vuota ed il cucchiaio; bevve una lunga sorsata, fece una breve pausa, e poi vuotò d’un fiato quello che restava. Si asciugò la bocca con dorso della mano, si guardò intorno, alzò la canna del mitra e cominciò a muoversi verso il tavolo, piano piano, senza profferire parola.
I tedeschi restarono con i cucchiai fermi a mezz’aria, gli occhi immobili, bassi, e la testa era leggermente infossata tra le spalle; trattenevano il respiro, sentendolo avvicinarsi.
Il partigiano poggiò il bicchiere sul tavolo, prese il fiasco per versarsi dell’altro vino, misurò ad occhio quanto ne restava dentro, poi guardò in viso i commensali, uno per uno, lentamente, come per fissarseli bene nella mente. Ripose il fiasco sul tavolo, lasciando vuoto il suo bicchiere.
Ritornò verso l’entrata, camminando all’indietro, senza mai perderli d’occhio; si assestò il pastrano ed il cappellaccio. Poi imbracciò saldamente il mitra e, fatta una specie di cenno di saluto, più con gli occhi che con la testa, uscì in silenzio, richiudendo la porta con cura.
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