Licenziato - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Licenziato

Tutte le edizioni > Edizione19
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XIX EDIZIONE - Arcade, 6 gennaio 2014
Premio speciale
"Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

Licenziato

di Luigino Bravin - Conegliano (TV)



Anche quella mattina, come tante altre da tempo, Tommaso si era svegliato prima del solito. Rimase immobile, non voleva disturbare la donna che dormiva raggomitolata, tutta nell'altra metà del letto, distante non solo fisicamente da lui. La percepiva da alcuni mesi quella distanza che andava crescendo, fatta di parole non dette, di un guardare mai diretto, di discorsi iniziati e non finiti perché c'era sempre una scusa per cambiare stanza.
Quello che sembrava un momento transitorio: la cassa integrazione a metà ore, che lo aveva solo stordito, era poi diventata cassa in deroga, con un tempo limitato davanti, prima di rimanere senza lavoro.
"È possibile dopo aver dato tutto all'azienda per decenni, umile nel comportamento, disponibile per tutti gli orari richiesti, senza mai contestare, neanche l'ovvio, trovarsi in queste condizioni?", si chiedeva Tommaso ogni momento del giorno e in tutti i lunghi intervalli fra veglia e sonno di tutte le notti.
"Perché fatico a parlare? Perché sto sempre sulle mie?" Sapeva cos'era.
Era quel senso di vergogna instillato nel suo carattere dal latte materno.
"Il lavoro è importante per l'uomo. Tutto il resto è a seguire. Chi non lavora non vale niente!"
Imperativo.
Quel comandamento non aveva faticato a metterlo in atto fin da giovane. Ora gli era stata sottratta la pietra dove continuare a scriverlo.
Faticava a stare con gli altri; infatti passava molto del troppo tempo libero in casa a guardare fuori, affacciato alle finestre, ben attento a non farsi vedere, lì in piedi, come una spia. Vedeva più che guardare, le immagini si fissavano sulla retina solo per un istante, ma niente veniva trasmesso al cervello.
"È come se fossi morto".
Aveva provato a cercare un altro lavoro, uno qualsiasi, anche umiliante per un tornitore di fino qual'era.
Non c'era stato verso. Solo promesse.
"La contatteremo noi, non si preoccupi".
Le speranze si affievolivano, le umiliazioni crescevano e la sua vita si ravvoltolava su se stessa, un giorno dopo l'altro.
Con la moglie non parlava quasi più; all'inizio lei lo sosteneva cercando di incutergli fiducia nel futuro, poi si era stufata anche perché la passione era finita da tanto tempo e lo stare insieme era diventato una convivenza di convenienza, cioè l'anticamera del "Vado a vivere per conto mio". Tommaso attendeva ogni mattina che venissero proferite le parole pensate, quasi le auspicava; il terrore di rimanere solo che aveva condizionato le sue scelte per tanti anni era ora scomparso.
"Se devo vivere senza speranza - si diceva - tanto vale che lo faccia da solo".
Dopo che l'ultima possibilità, che qualcuno aveva ventilata di un lavoro, per quanto precario, era sfumata, le parole attese da lei le pronunciò invece lui.
"Vai a vivere per conto tuo, sono io il primo a dirtelo, non ho speranza. Cercherò di sopravvivere. Quello che è stato rimarrà scritto". E dopo una lunga pausa - "Se ci saranno altre pagine del nostro quaderno comune vorrei che le scrivessi tu. lo butterò la penna appena te ne sarai andata".
Con queste parole Tommaso chiuse con la moglie e con la sua vita.
Ritentò altre volte, per alcuni mesi di trovare lavoro, ma a cinquant'anni passati non c'erano possibilità e, a volte, non c'era da parte dei suoi interlocutori neanche la gentilezza, o, forse, l'educazione nel dire, con un minimo di sensibilità, quello che egli sapeva a priori sarebbe stato detto. "Rimani pure tu nella nostra casa, non ne ho più bisogno".
"Non parlare così".
Era preoccupata, la donna, che le parole potessero covare un gesto estremo.
Tommaso aveva ereditato alla morte del padre, diversi anni prima, una casera in montagna appartenuta per anni alla sua famiglia; a quel tempo lavorava e con i risparmi l'aveva resa abitabile. Accanto alla casa in mattoni c'era una vecchia stalla in pietra e una piccola costruzione adibita a ricovero per il maiale.
Era fine marzo quando decise di trasferirsi in Pian dell'Erba.
Chiazze di neve vecchia coprivano il pascolo ma, prima della primavera, altra neve fresca sarebbe certamente caduta, magari quella sciroccosa di aprile, per finire con le ultime brine di maggio.
Quando Tommaso accese il primo fuoco, in quell'unica stanza abitabile, con il soffitto nero, lucido, quasi laccato dalle infinite mani di fuliggine depositata per decenni o per secoli, era la fine della Quaresima.
"La conclusione del mio calvario - si sorprese a pensare - ma forse poi non ci sarà resurrezione".
La prima preoccupazione fu quella di sistemare l'unica stanza da letto al piano superiore, poi di aggiustare le grondaie e pulire la vasca di raccolta dell' acqua piovana.
Attese che quasi tutta la neve si fosse sciolta e iniziò a dissodare la parte di pascolo in piano, voleva farne un orto. Quello che avrebbe coltivato doveva bastargli fino al raccolto dell'anno prossimo. Non era abituato a lavorare con la zappa e il badile e si ritrovò con le piaghe alle mani e la schiena rotta. Perseverando anche nei giorni seguenti il dolore passò, le vesciche alle mani scoppiarono e la pelle nuova si riformò callosa e indifferente al legno secco del manico del badile. Quando era stanco di stare con la schiena bassa raccoglieva e tagliava legna nel bosco, la trasportava e la sistemava in ordine addossandola al muro esposto a sud­ovest della casera.
Aveva lasciato tutti i suoi beni alla moglie; capiva che era lei ad averci rimesso più di tutti dalla sua caduta involontaria nel baratro della disoccupazione. Ad aprile acquistò con i pochi risparmi che gli erano rimasti quattro mucche da latte, tutte e quattro incinte, una decina di pecore e tre maiali.
Nel retro della casera c'era una rimessa in pietra e lì aveva trovato tutta l'attrezzatura per fare il formaggio, la stessa usata decenni addietro dal nonno.
"Riuscirò a vivere, anche da solo, mi basta poco, farò quello che non ho mai fatto. Leggerò".
Ma ebbe ben altro da fare che leggere; il tempo della luce era dedicato al lavoro e quello del buio era per il riposo; non aveva mai provato prima la sensazione che le ossa si rompessero in tanti pezzi.
Leggeva solo quello che gli serviva per la gestione delle bestie e per riuscire a fare il formaggio: era tutta un'altra cosa che fare il tornitore. Accudire le bestie, dover scendere in paese per acquistare il cibo per gli animali, prima che l'erba cominciasse a crescere, gli prendevano molto tempo e alle volte era così affannato che non aveva le energie per pensare a quello che era stato e al futuro prossimo.
Con l'arrivo della primavera l'erba novella colorò il pascolo attorno alla casera, profumata di verde e ancora di freddo, ma egli capiva come fosse presto destinata a diventare adulta per profumare del sole e del vento di giugno.
Le prime volte il formaggio non era quello che voleva; era per il sale mai giusto, per la temperatura sempre sfalsata di qualche grado, per il troppo caglio.
"Per fortuna ho i tre maiali che mi aiutano a smaltirlo", si diceva.
Mattina dopo mattina imparava sempre qualcosa e in capo a due settimane la prime forme profumate di erbe dolci e di fiori multicolori cominciarono a trovare il loro posto nelle scansie della piccola dispensa, fresca al punto giusto, che i suoi vecchi avevano costruito sul retro dell'unica stanza abitabile.
Il lavoro gli prendeva tutte le ore del giorno e i pensieri sul futuro che lo avevano angustiato per mesi prima di salire in montagna si erano fatti vaghi, dai contorni sfumati come immersi in una foschia appena appena colorata di bianco.
Si rendeva conto che non desiderava il contatto con le altre persone; anche le parole che doveva scambiare con i fornitori che obbligatoriamente incontrava, quando settimanalmente scendeva in pianura, gli pesavano. Contrattare poi con quello che gli acquistava il formaggio che produceva, gli dava non solo fastidio, ma angoscia. Sapeva di poter spuntare un prezzo migliore per la sua produzione, ma, purché fosse una trattativa corta, era disposto anche ad accettarne uno più basso.
Quando la prima estate stava finendo e l'erba del pascolo si diradava, Tommaso aveva accumulato un quantitativo di fieno sufficiente per alimentare le vacche e le pecore per l'intero inverno. I maiali erano cresciuti a dismisura e nell'orto le verze e i cavoli erano pronti a sopportare le prime brinate. Le patate erano nelle cassette al buio nella sua dispensa.
"Cosa mi manca? - si chiedeva - sono libero, sono diventato così parco nel cibarmi che con quello che ho prodotto e venduto potrei mantenere anche altre persone. Non ho bisogno di niente".
Sentiva che qualcosa gli mancava, non tanto le parole, ma la presenza umana, forse la vicinanza fisica, magari una sua mano stretta da un'altra. Quelli che erano stati i suoi affetti di prima erano scomparsi fisicamente e, pian piano, anche nel ricordo.
"Solo, sono rimasto solo".
Non gli pesava per il momento, forse più avanti, si diceva.
L'inverno l'aveva immaginato lungo, mai avrebbe pensato potesse durare oltre i propri pensieri. La lettura di alcuni libri che si era portato lo obbligavano a decifrare frasi complesse alle quali non era abituato. Gli sembrava che anche il suo raziocinio si fosse adeguato alla mancanza di rapporti umani, al non parlare, al non avere risposte alle innumerevoli domande che lo assillavano tutti i momenti durante il giorno e in quelli di veglia durante la notte.
Quando la primavera si affacciò di nuovo in Pian dell'Erba trovò Tommaso deciso a continuare la sua vita di eremita. Il formaggio invernale si era accumulato nella dispensa ed era ora di venderlo, il ricavato gli avrebbe permesso di comprare due maiali piccoli da rivendere in inverno, del fieno perché quello dell'anno prima stava finendo, e quel poco che gli necessitava per l'estate che aveva di fronte.
I colori dei fiori che a chiazze nascondevano l'erba erano ancora più nitidi e piacevoli alla vista rispetto a quelli dello scorso anno; gli sembrava di riconoscerli come se fossero figli, ne riconosceva le sfumature, la forma delle corolle, il posto dove crescevano.
Passò anche la seconda estate.
L'autunno era iniziato presto, la notte faceva freddo e doveva accendere il camino; il fuoco sarebbe rimasto latente sotto il tronco di faggio pronto ad essere attizzato il mattino dopo per scaldare il latte appena munto. Era una liturgia che si ripeteva ogni giorno; mungitura, scaldare il latte e poi la cagliata e poi, e poi... Era questo che lo teneva in vita. Il ritmo e gli orari come quando lavorava in fabbrica. Ora nessuno poteva licenziarlo, era libero ma condizionato dalle quattro vacche che lo accoglievano in stalla ogni mattina.
Il bosco stava cambiando colore.
"Sembra che diventi vivo ora che è destinato a morire, si accende per poi lentamente spegnersi", così pensava Tommaso quando alzava gli occhi verso i faggi che delimitavano il pascolo dove l'erba era ingiallita e ruvida al tatto.
Le foglie erano cadute tutte e gli scheletri dei faggi erano ora opprimenti, scuri e lucidi nelle giornate di pioggia.
Tommaso era ben conscio che lo aspettava un periodo di angoscia, momenti di tristezza, pensieri sulla fine di tutto, ma aveva la certezza che, passato il primo periodo, l'attesa della nuova primavera lo avrebbe sollevato giorno dopo giorno e preparato al godimento delle giornate che si allungavano.
Erano passati, intrisi di nebbia che si alzava dalla pianura e di tristezza, i primi giorni di novembre quanto la tosse che aveva ormai da un mese, divenne sempre più insistente. Si procurò uno sciroppo, la prima volta che scese a fare spesa in pianura, ma non ci furono benefici.
"Andrò dal medico", si disse.
Sapeva che qualcosa si era rotto dentro di lui, lo percepiva dai rumori che udiva: sembravano scrosci di pioggia seguiti da improvvisi silenzi.
Le radiografie furono sufficienti e le parole appena sussurrate non tolsero speranza, perché già affievolita da tempo.
"Si può tentare di circoscriverlo con un intervento, ma i margini sono ridotti".
"Non serve, se ne andrà da solo", disse al medico.
Ora doveva solo aspettare e decidere quando andarsene.
Vendette le vacche, i due maiali, le pecore, il formaggio. Depositò il denaro in banca con le istruzioni per l'impiegato di accreditarlo sul conto corrente della moglie appena fosse arrivato l'anno nuovo. Non passò a salutare nessuno e tornò in montagna.
Avrebbe atteso la neve, quella fredda che non fa rumore quando scende, ma crepita sotto le scarpe quando viene calpestata. Non poteva rischiare il freddo passeggero, quello che sembra uccidere la vita nel bosco e poi ne prolunga invece l'agonia per giorni.
Il freddo arrivò assieme ai primi fiotti di sangue che arrossavano le sue labbra e che deglutiva assieme alla saliva densa di sapore dolciastro.
Gli sovvenne che aveva lo stesso sapore del sangue che usciva dalle piccole ferite alle mani quando lavorava e che era abituato a succhiare e sputare senza curarsi di disinfettarle.
"Mai ammalato per quei tagli. Ora le ferite sono dentro ma non sento dolore".
La temperatura scese in fretta. Il vento soffiò per giorni intrufolandosi fra i rami spogli dei faggi e senza riguardo nelle fessure delle imposte della casera dove il fuoco era spento da giorni.
L'acqua nel lavello era ghiacciata e all'esterno la tormenta si spense verso sera.
"E' ora di andare Tommaso", gli sussurrò la voce che usciva dalla bocca impastata di saliva raggrumata e rossa di siero.
Quando Tommaso uscì dalla porta la notte era densa e buia di stelle. Il biancore della neve aveva una volta nera nella quale riflettersi e non riuscì a farlo.
La coperta che teneva sulle spalle pendeva ai lati e, se solo avesse alzato le braccia, lo avrebbe fatto assomigliare ad un uccello notturno abbattuto e costretto a camminare.
Sapeva dove andare.
La macchia di abeti distante almeno un chilometro dalla casera, in mezzo al bosco di faggi, gli era sempre apparsa come un ricovero ideale adatto a nascondere le persone ed ora a celare la sua dignità e i suoi ultimi pensieri. Era così debilitato che impiegò almeno due ore, arrancando nella neve, per raggiungere la sua meta.
"Dai Tommaso, dai, ancora qualche metro", si diceva ansimando.
Trovò il primo abete, poi un altro e intravide quello che aveva sognato, per giorni e giorni.
Si sedette sulla neve con la schiena appoggiata alla corteccia dell'abete che aveva abbracciato con gli occhi tante volte, come fosse stato l'unico amico o parente. Si coprì con la coperta e aspettò.
Aveva sentito dire che la morte per assideramento è dolce e il trapasso è indolore. Ora lo stava per provare e aveva paura, ma la decisione si era incuneata nella mente e non era più quello il momento di provare ad estrarla.
"Ho freddo e non sento più le gambe".
Aspettò e non percepì quasi nulla del suo corpo, solo un tremito leggero che si confuse con il soffio lieve dell'aria fra i rami.
Torna ai contenuti