Leggero
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXVII EDIZIONEArcade, 8 gennaio 2022
Terzo classificato
Leggero
di Katia Tormen - Valbelluna (BL)
“Ehi bionda! Un altro giro qua in fondo grazie!”
Luca si alzò sulle punte dei piedi
sventolando il cappello per attirare l’attenzione della ragazza dietro il
bancone. La bionda, che in realtà aveva i capelli tinti mezzi di rosso e mezzi
di verde, mollò la presa dalla spina della birra e con le dita fece il segno di
sette. L’altro alzò il pollice e tornò a girarsi verso di noi con in mano il
bicchiere del giro precedente, pieno a metà.
“Meglio
prendersi per tempo!” - disse ridendo.
Avevo
perso da un pezzo il conto delle birre bevute, ma fortunatamente, complice una
quantità industriale di panini con la soppressa, l’alcol non mi stava dando
alla testa. Non volevo stare male: il mattino seguente avrei avuto l’onore di
portare il gagliardetto della Sezione durante la sfilata al termine della quale
mi sarei dovuto affrettare alla volta di casa. Lunedì il lavoro mi attendeva,
visto che il capo non aveva ritenuto necessario concedermi un giorno di ferie
adducendo il pretesto che Treviso era a due passi da Belluno e quindi non avrei
avuto lo stress del rientro. A tutto ciò andava aggiunto che non avevo più
vent’ anni e i tempi di recupero si allungavano ogni volta, quindi annunciai
agli altri che per me era l’ultima.
Le
piazze e le vie della cittadina ribollivano di gente, le penne dei cappelli
verdi fendevano la folla come pinne di squalo e io col mio gruppetto di
compagni ce ne stavamo ormai da un paio d’ore appoggiati alla balaustra di quel
piccolo bar in posizione rialzata a far complimenti alle ragazze che passavano
e a cantare vecchie canzoni accompagnati dalla fisarmonica di Renato.
“Ancora
queste e poi andiamo!” Aldo, il più anziano della brigata e per questo
investito della carica di capo comitiva, decise che in effetti poteva bastare.
Anche perché avremmo poi dovuto attraversare tutta quella marea umana per
tornare alle nostre tende, piantate in una qualche aiola fuori le mura.
La
barista arrivò con un vassoio alto sopra la testa districandosi agilmente tra
le persone.
“Viva
la bionda!” - urlai alzando il bicchiere. I miei amici e altri intorno a noi si
unirono all’apprezzamento gridando evviva o battendo le mani. Tuffai il naso
nella schiuma bianca.
“Il
Gigante Buono?”
Il
sorso di birra mi andò di traverso e a stento riuscii a trattenermi dallo
sputarla in faccia a Luca che mi stava di fronte. Erano anni che nessuno mi
chiamava più con quel soprannome. Soprattutto, non erano in molti a sapere che
per un periodo lo avevo avuto.
Mi
voltai e riconobbi al volo il volto sorridente che mi si parava davanti, anche
se non riuscivo ad associarlo a un nome.
“Quanto
tempo! Sei un po’ cambiato, ma il tuo vocione resta inconfondibile!”
L’uomo
mi diede due pacche sulle spalle. La mia mente riusciva a portare a galla
nitidamente tutti i ricordi che avevo di quel tizio, tuttavia il nome
continuava a sfuggirmi. Mi buttai: “Stefano, giusto?”
“No,
mi chiamo Sandro! Tu invece…”
“Franco!”
“Franco!
Vero… mamma mia che brutti scherzi fa l’età! Come stai? Ne è passato di tempo!”
Diciotto
anni. Erano passati esattamente diciotto anni, volati, spariti, inghiottiti
dall’alternarsi di giorni trascorsi in attesa del week end e di week end
trascorsi in attesa delle ferie. Un tempo infinito nel quale la mia vita era
rimasta pressoché la stessa, se si eccettuavano gli acciacchi.
“Mi
torna spesso in mente quel periodo, sai?” – continuò – “Abbiamo vissuto
un’avventura meravigliosa ed emozionante!”
Era
stata davvero un’esperienza bellissima, una condivisione di sforzi e sentimenti
che aveva lasciato il segno in tutte le persone che vi avevano preso parte.
“E
di quella bambina hai più saputo nulla? Come si chiamava… boh! Non mi ricordavo
il tuo nome, figurati il suo… Ma hai capito sicuramente di chi parlo!”
In
quel preciso istante conobbi il reale significato dell’espressione “secchezza
delle fauci” letto tante volte sui bugiardini dei medicinali.
“No
figurati… nemmeno io mi ricordo il nome…” – mentii.
“Ma
dai non ti credo, non puoi essertelo dimenticato, è impossibile!! Era tipo
Lina…Aldina…”
“Amina!”
Avevo
dovuto penare un po’ per farmi dire come si chiamava quella bimba bionda che aveva
smesso di piangere non appena la madre, stanca e rassegnata, mi aveva
consentito di prenderla in braccio.
“Io
Franco “- avevo precisato battendomi il petto e allora un largo sorriso aveva
illuminato il viso scarno della donna.
Erano
arrivate a bordo di un autobus malandato assieme ad altre decine di persone,
donne, bambini e anziani: i nostri “ospiti”. Dopo la trafila delle visite
mediche si erano presentate davanti al container dove con Mauro, un collega di
Vicenza, cercavo di svolgere al meglio il lavoro che mi era stato affidato,
ovvero distribuire ad ogni nucleo familiare una borsa contenente il necessario
per l’igiene personale. La piccola piangeva per la stanchezza, le lacrime che
le rigavano le guance scarne e nonostante mi fossi ripromesso di non lasciarmi
intenerire non ero riuscito a trattenermi dall’allungare le braccia.
“Secondo
te usa pannolini?” – mi aveva chiesto il mio socio cercando di indovinare l’età
della piccola. Avevo annuito, ma quando la madre aveva visto il pacco di
Pampers aveva fatto un deciso segno negativo con la testa alzando la mano con
cinque dita aperte.
“Cinque
anni?” – avevo esclamato. Quello scricciolo che mi osservava con due grandi
occhi scuri non pesava sicuramente più di 12 chili. L’avevo restituita alla
madre e mi ero rimesso all’opera con solerzia, visto che nel frattempo la fila
si era allungata. Amina aveva continuato a fissarmi salutandomi con la mano.
All’ora
di cena ero stato destinato alla distribuzione del pane. I kosovari si erano
adattati alla situazione senza lamentarsi, era gente di montagna, abituata ai
disagi. Stavano composti in fila, spostando lentamente il vassoio su cui gli
addetti alla cucina appoggiavano il cibo. Appena mi aveva visto, Amina era
sfuggita alla presa della madre e mi era corsa incontro allungando le manine
per farsi prendere in braccio, cosa che avevo fatto prontamente facendola
ridere di gusto.
Era
nato così il rapporto strano con quella bimba che per tutto il resto della mia
permanenza al “Villaggio delle Regioni “di Valona aveva trascorso con me gran
parte della giornata, non perché io non avessi altro da fare che lanciarla in
alto e sentirla urlare di gioia, ma perché era diventata la mia ombra. Per i
volontari del Campo eravamo “il gigante e la bambina” e Gigante Buono divenni per
tutti il giorno in cui rubai dal magazzino alcun di biscotti e li distribuii al
nugolo di bambini che si aggiravano tra le tende: l’interprete disse a tutti
che quello era il mio nome. In effetti il mio metro e 95 per 130 chili avvolti
nella tuta ad alta visibilità della Protezione Civile, non mi facevano passare
inosservato. Lei invece era piccola davvero, forse troppo per la sua età. La
madre, costernata, veniva da me più volte al giorno a scusarsi e a tentare di
riportare Amina nella tenda che era stata loro assegnata, ma io insistevo a
dirle che non disturbava affatto, anzi mi alleggeriva le giornate.
Ed
era vero. Quella bimbetta mi rendeva felice, mi gratificava essere al centro
del mondo per qualcuno, era una sensazione che, sull’ orlo di una separazione e
con i figli già grandi, non provavo da molto tempo. Mi sono chiesto spesso,
senza mai trovare risposta, il motivo di quell’attaccamento: forse le ricordavo
il padre? Forse le avevo dato attenzioni che, data la situazione, non aveva mai
ricevuto? Mi rubava il cappello da alpino e se lo metteva in testa sotto gli
occhi sbalorditi dei miei compagni di Sezione che sapevano quanto fossi geloso
di quell’oggetto. Io la lasciavo fare e ridevo con lei.
Non
ero riuscito a rimanere indifferente davanti alle terribili immagini che
arrivavano dal Kosovo in quella primavera del 1999. Così, quando era girata
voce che la Protezione Civile cercava volontari disposti a trascorrere una
decina di giorni in Albania in aiuto a quella povera gente, non ci avevo
pensato due volte. Avevo unito il mio cappello alpino ad altri cappelli alpini
e ai berretti arancioni delle donne e degli uomini della Protezione Civile
provenienti dal tutto il Veneto ed ero salito sul traghetto per Durazzo. Dopo
un avventuroso viaggio fino a Valona, avevo trascorso i primi due giorni
nell’allestimento della nostra parte di campo su di una lunga lingua di terra
battuta completamente priva di vegetazione dove di giorno il sole picchiava
inesorabile e di notte l’umidità impregnava le tende e i loro occupanti. Il
campo era diviso in moduli affidati ognuno a regioni diverse e rientrava tra i
progetti legati alla “Missione Arcobaleno” voluta dallo Stato italiano per
evitare che migliaia di profughi andassero ad alimentare il traffico degli
scafisti albanesi verso l’Italia. Di tutti gli interventi effettuati con la
Protezione Civile, questo è senz’altro quello che mi ha segnato di più.
L’ultimo
giorno a Valona, poco prima di partire e lasciare al turno seguente il compito
di alleviare un poco di dolore a quella gente, la donna era arrivata trafelata
ai lavatoi dove mi stavo dando una rinfrescata, gridando a gran voce il mio
nome. Avevo pensato fosse successo qualcosa ad Amina, ma poi l’avevo vista
dietro di lei.
“Tu
buono, tu prendi Amina e porta Italia!” - mi aveva detto sollevando verso di me
una borsa di plastica e lasciando che la piccola si avvinghiasse alle mie
gambe.
L’avevo
guardata, basito, senza sapere né cosa dire né cosa fare. Avevo immaginato
Amina correre sul prato di casa mia, avevo pensato che avrei potuto assicurarle
una vita migliore, che avrei sentito ogni giorno quella risata che mi scaldava
il cuore. Ma sapevo che non era giusto. Per fortuna l’interprete era arrivato
in mio aiuto, spiegando che non si poteva, che era illegale.
La
donna piangeva, insisteva. “Dice che la bambina ti vuole bene, che anche tu
gliene vuoi e che qui non c’è futuro”. Il ragazzo mi guardava aspettando le mie
parole da tradurre, ma io non ne avevo. Amina strillava protendendo le sue
manine verso di me, aveva capito che stavo andando via.
Pur
sapendo che era impossibile, mi sembrava che il mio cuore si stesse spaccando:
avevo girato le spalle a tutto e tutti ed ero corso via. Una volta salito sulla
camionetta, che aveva già il motore acceso, avevo incassato la testa tra le
spalle e avevo riaperto gli occhi solo quando gli ultimi orrendi palazzi di
Valona erano ormai lontani.
Appena
rientrato mi ero adoperato per cercare un modo per portare in Italia Amina e la
madre, ma sembrava fosse più semplice andare su Marte. Allo smantellamento del
campo, qualche mese più tardi si erano perse le tracce di tutti quelli che ci
erano transitati. Avevo cercato consolazione nella speranza che alla fine della
guerra il papà di Amina avesse fatto ritorno a casa.
Col
tempo il ricordo si era affievolito, sbiadito, ma non era mai scomparso. Avevo
smesso di torturarmi riguardando le decine di foto scattate in quei giorni e
avevo declinato gli inviti alle varie rimpatriate che, specie nei primi tempi,
venivano organizzate periodicamente da questa o quella Sezione. La risata di
quella bambina bionda si era confusa col brusio di sottofondo di altre mille
risate e il viso coi lineamenti sbiaditi di altri mille visi.
Fino
ad ora
“Ma
dai, è impossibile che non la ricordi! Ti era sempre appiccicata!”
Sandro
urlò, per sovrastare il rumore della folla e della banda che lì vicino aveva
intonato “la bella del Cadore” trascinandosi appresso gran parte dei presenti.
“Si
beh, ora che me ne hai parlato mi è tornato in mente il suo viso… Oramai sarà
una donna, almeno spero sia riuscita a diventarlo”.
“Non
hai mai pensato di cercarla tramite internet? Magari sui social…”
“Non
ho nessun social e comunque non ricordo il nome!”
Tacque
per un momento, gli occhi fissi a terra. Poi si rianimò di colpo: “Ma certo, so
io a chi chiedere! Lasciami un po’ di tempo e vedrai che te la ritrovo la tua
bambina! Non sei curioso di conoscere che fine ha fatto?”
No
non lo ero. O meglio: avevo paura. Non volevo sentirmi ancora in colpa per
colpe che in realtà non avevo. Soprattutto non avrei sopportato di scoprire che
lei si era dimenticata di me cosa molto probabile visto che, all’epoca dei
fatti, era piccolissima.
“Dammi
il tuo numero di cellulare! O la mail. Ce l’hai una mail, no?”
“Franco!
Dai andiamo, sennò domattina altro che sfilata!”
Aldo
arrivò a trarmi d’impaccio.
“Arrivo!”
“No,
dove vai! Lasciami un recapito!”
Sandro
mi tese una penna e un pezzo di carta.
Non
riuscii nemmeno a salutarlo prima di essere trascinato via.
Faceva
un caldo d’inferno per essere alla fine di ottobre. Mi fermai un attimo
all’ennesima curva del sentiero a rifiatare e guardare il panorama. Il mio
compagno di camminate mi aveva dato buca la sera prima, ma avevo deciso di
andare ugualmente da solo, piuttosto che stare a casa a sopportare i musi
lunghi di mia moglie. Perciò quando lo squillo del cellulare mi avvisò di un
messaggio ricevuto, pensai fosse lui che mi chiedeva come andava. Mi tolsi lo
zaino dalle spalle e pescai il telefono dalla tasca in cui lo avevo cacciato al
mattino. Non si trattava di un messaggio ma di una mail. Solo leggere il
mittente mi provocò un brivido. Rimasi a fissare lo schermo, indeciso se
aprirla o rinviare quel momento al mio rientro a casa, ma sapevo che il
pensiero del suo contenuto non mi avrebbe dato pace, così cliccai,
maledicendomi per aver lasciato che Aldo scrivesse il mio indirizzo di posta
elettronica su quel foglietto.
“Ciao
sono Sandro, quello dell’adunata. Non è stato semplice, ma tramite vie
traverse, comunque tutte legali – bastava avere nome e cognome e cercare sui
social - ho ritrovato la tua bambina bionda!
Si
chiama Amina Shafqi, è nata il 21 aprile del 1994 e vive e lavora in Germania.
Si è sposata tre anni fa con un certo Klaus Moeller e, adesso viene il bello,
il 6 febbraio dell’anno scorso è diventata mamma di…Franco! So che tu hai
nessun social, ma immagino la vorrai contattare perciò di seguito ti allego la
sua mail e pure un paio di foto così vedi che bella ragazza è diventata! Ti
lascio anche il mio numero di telefono così mi fai sapere gli sviluppi!”
Senza
pensarci due volte con le lacrime che mi annebbiavano la vista e le mani che mi
tremavano cancellai la mail. Non volli nemmeno guardare le foto.
Continuai
fin sulla cima a passo spedito, sentendomi leggero come una piuma, rinfrancato,
felice.
Quella
notte, dopo quasi vent’anni, nessun incubo venne a turbare il mio sonno.