La veglia
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Secondo classificato
La veglia
di Loreta Chenetti - Belluno
Qualcuno lo strattona strappandolo dal sonno.
“Alzati, comincia il tuo turno.”
“Ancora un minuto! Fatemi dormire ancora un minuto!”
Lo pensa soltanto, come un lamento nella testa, ma il suo corpo agisce in modo autonomo mettendosi a sedere sulla branda. La luce fioca di una lampada a cherosene gli permette di intravedere le sagome informi degli altri commilitoni rannicchiate su sottili materassi di crini che odorano di muffa. Qualcuno è accasciato a terra, la schiena appoggiata alla terra nuda. Si arruffa i capelli con le mani gonfie, le unghie nere di sporco. Passa le dita lente sul viso come a togliere ragnatele di stanchezza, strattona la barba aggrovigliata come filo spinato.
“Sbrigati!”
La voce è sussurrata ma il tono è pressante.
Alzandosi raccoglie il pastrano che si era steso addosso come una coperta. Si fa strada tra corpi che odorano di terra e di paura, che paiono morti. Corpi che gemono, piangono dormendo, lanciano rauche e brevi grida.
Aggancia l’elmetto sotto al mento, indossa sudici guanti di lana, si annoda al collo una sciarpa sferruzzata a mano, grigia di sudore. Afferra il binocolo e il fucile.
Appena uscito dalla trincea scavata a fianco del camminamento la notte lo accoglie come uno schiaffo secco. L’aria ghiaccia lo agguanta e lo artiglia in un brivido interminabile. Incassa la testa nelle spalle sollevando la sciarpa sul viso, il fiato che bagna la lana. Con il dorso della mano si asciuga gli occhi che lacrimano sotto la sferza del vento. Le ciglia si incispano di ghiaccio mentre alza lo sguardo verso il cielo terso, nitido come ossidiana.
Il respiro gli brucia il naso e la gola.
Tenendosi chino sotto la recinzione di filo spinato che orla il bordo della fossa, tastando con cautela il terreno coperto di ghiaccio, a passi stenti raggiunge il posto di vedetta. Si accoccola in uno stretto riparo offerto dalla roccia, la spalla destra incastrata in una nicchia naturale, il gomito sinistro appoggiato alla cengia che lo ripara, l’acciaio del fucile fermo tra le dita.
Sotto di lui si apre la valletta sassosa, giù fino al passo che lo separa dall’altro versante del monte dove, in cunicoli e trincee simili a quelli che lui e i suoi compagni hanno strappato alle crode, si nasconde il nemico. Quel nemico che ha freddo, pidocchi e fame come quelli che lo aggrediscono quotidianamente, quel nemico che odora della sua stessa sua paura, che soffre la stessa stanchezza. Quel nemico diverso da lui solo per il colore della divisa.
Il cielo terso è riempito di larghe strade di stelle, frammenti lucenti che baluginano tremolanti come un respiro e fluttuano nello spazio immenso che incombe attorno al mondo così vicini da poterli toccare. Il firmamento livido di gelo ed abbagliante di luna lo sovrasta, carico di energia luminosa che spaventa per la sua immensità misteriosa e sconosciuta.
Il soldato alza gli occhi fissando le stelle, intimidito da quell’infinito che lo osserva in un remoto silenzio. Si vede come l’ultimo uomo rimasto sulla terra, rannicchiato in cima ad un monte, solo, inerme. Un magone amaro gli chiude la gola. Si riscuote e distogliendo lo sguardo dal cielo lo posa sui monti che lo circondano. I profili dei crinali si stagliano contro l’orizzonte come denti appuntiti. Le rocce, sotto il riverbero della luna tonda come una scodella di latte, sono lucide, metalliche.
“C’è una luce strana questa notte. Luna piena che permette di vedere lontano… e di vedermi da lontano.” Riflette mentre si ritrae, accucciandosi, appoggiando la schiena alla roccia nel tentativo di farsi roccia anch’esso per rendersi invisibile o per trattenere un po’ di calore.
Con la punta del fucile che ondeggia scruta la parete di granito che ha di fronte. La canna dell’arma, come un pennello d’acciaio, disegna il contorno di ogni masso, di ogni guglia e di ogni fessura. Riesce a distinguere con chiarezza lo stretto sentiero degli stambecchi che il nemico usa per raggiungere i ripari scavati nella pietra più in basso e la stretta feritoia che si apre tra le rocce oltre la quale può solo ipotizzare la presenza di una vedetta nemica, ferma con il fucile tra le mani e gli occhi puntati sulla cengia che lo nasconde.
Il soldato ha lo sguardo fermo tra le ombre ma la mente si perde fremente in pensieri che esplodono veloci ed incoerenti nella veglia.
Ricorda.
Ripensa a Carolina che magari adesso, in un letto lontano, lo sta sognando. Rivive le ultime ore che hanno passato assieme quando la notte appena iniziata faceva sembrare la guerra lontana: l’aria era fredda ma la pelle bruciava. La luna si nascondeva dietro un velo di nubi in un cielo orfano di stelle. Carolina lo stringeva forte e cercava di non piangere. Quante parole dolci mormorate all’orecchio, abbracci protetti dal buio, baci che diventavano sigilli. Quanta disperazione taciuta. Quella notte magica era durata fino al mattino quando il mondo iniziò a bussare fuori dalla finestra e le lenzuola a raffreddarsi. Solo in quel momento, con il chiarore dell’alba che allungava gli artigli fin sul cuscino dove Carolina dormiva, le ciglia ancora bagnate di pianto, il soldato si era alzato, aveva baciato la sua donna e il suo bambino e si era chiuso piano la porta di casa alle spalle. Il sole non era ancora spuntato ma l’aria era chiara. Probabilmente solo in quel momento si era reso conto che stava veramente lasciando tutto ciò che aveva, la sua famiglia, la sua casa, la sua stessa povera, ricca, unica vita per andare a combattere, ad uccidere, forse a morire ma in nome di chi? Di che cosa?
“Da quel giorno mi sembra di star vivendo in un eterno istante sospeso, una notte senza fine che vedrà il mattino solo nel momento in cui potrò riaprire la porta di casa e riabbracciare Carolina e il piccolo Angelo. Fino ad allora esisterò come un’ombra in questo incubo, questo tempo senza tempo, quest’esistenza infame che non posso chiamare vita. Quando finirà questo calvario che non ho chiesto io di percorrere?”
Questo pensa mentre la notte fredda lo abbraccia. La mente che vaga tra brandelli di pensieri.
“Qualche volta la notte fa uscire la paura dagli angoli oscuri che si hanno dentro e la paura si alimenta di paura, ingigantisce, ti mangia il cuore e la testa e ti fa vedere tutto nero e i pensieri si fanno pesanti, grevi, stanchi. I contorni delle cose si confondono con le zona buie, i rumori si amplificano e si spandono nel silenzio e diventano estranei ed inquietanti. Però talvolta la notte appare come un’opportunità, l’agognato riposo prima di un nuovo giorno, la possibilità di fermare la mente per riprendere forza con il risveglio ed altre volte, quando le ombre si ispessiscono ed il mondo si riempie di lucide sfumature di grigio, ci si può convincere che la magia è reale, che l’impossibile diventa possibile ed i sogni e i desideri avverarsi”.
La malinconia lo sta ghermendo mentre gli occhi guardano avanti persi nel buio senza vedere, la mente ferma al calore della casa lontana che lo aspetta.
Il raglio di un mulo lo riscuote. Il cuore gli batte con forza nel collo, nelle orecchie, le mani si stringono sul calcio del fucile. Si guarda attorno attento, sentendosi in colpa per la digressione che lo ha portato lontano. La luna non ha ancora oltrepassato il suo zenit ed è alta, incollata alla volta del cielo. Il raglio si ripete ed il suono si propaga in cerchi concentrici, come una pietra lanciata in uno stagno, un’eco infinita che rimbalza tra parete e parete con un’eco che si perdei oltre il confine. Non si capisce da dove arrivi il suono, pare venire dall’alto ma lassù ci sono solo i nidi delle aquile e le stelle.
“I muli ragliano tutti nella stessa lingua. Sarà stato uno dei nostri o uno dei loro?” - si chiede perplesso. “ E chissà perché sta ragliando, avrà fame? Starà male? O avrà paura, come noi? Li sento i miei compagni, di notte, che piangono e gridano nel sonno. Cosa staranno pensando mentre cercano di dormire? Ma poi, è dormire quello che facciamo di notte?” - si interroga.
Per i soldati, quassù, la notte rappresenta l’oblio. Non è riposo, non è ristoro. È una morte temporanea a cui ci si abbandona, abbracciati al fucile, nauseati dalla stanchezza, dalla paura e dalla fame. Accasciati sulle cuccette, incastrati tra le rocce, accucciati tra i sacchi di munizioni, i soldati chiudono gli occhi e smettono di sentire, di pensare, indifferenti alla morte e alle grida di chi dorme e impreca al loro fianco. Sembra che si affidino al sonno, crollando esausti sulla branda, con una preghiera, come a dire: Sia fatta la tua volontà Signore, non ce la facciamo più a resistere. Lasciaci cadere qui, ad occhi chiusi, senza vita, senza coscienza, senza la volontà di un domani che, sorgendo, ci riporterà all’inferno. Lascia che il buio cancelli gli orrori che di giorno ci assalgono, ci offendono, ci feriscono. Facci dimenticare questa guerra che strazia i corpi e le menti sotto lo sguardo indifferente di antiche stelle, sotto la luce del sole e della luna. Permettici di non pensare, per qualche ora, a ciò che l’alba avrà da offrirci.
La notte procede lenta. Gli occhi vorrebbero chiudersi, il freddo irrigidisce il corpo.
Con le mani guantate afferra il binocolo che porta legato al collo e lo avvicina agli occhi. Scruta con attenzione il versante opposto. Lento lo sguardo scivola sulle rocce tentando di leggere tra le ombre, fino a quando ciò che vede gli blocca il respiro.
C’è un uomo rannicchiato in un anfratto proprio alla sua altezza, ha il fucile a tracolla e anche lui tra le mani stringe un binocolo. Il chiarore livido e fragile della luna notte gli permette di studiarlo con attenzione. Lo vede sbadigliare, stropicciarsi gli occhi con le mani guantate, soffiarsi sulla punta delle dita per scaldarle. Lo guarda appoggiarsi alla parete, la testa che ciondola, il corpo che barcolla sotto un’estenuante stanchezza. Da questo intuisce che dev’essere un ragazzo appena portato al fronte, certamente non un veterano uso come lui al turno di notte. L’uomo si riscuote, stira le membra anchilosate. Lo vede alitare sulle lenti del binocolo per pulirle, il fiato come fumo che si gonfia davanti al viso. Lo guarda mentre appoggia gli oculari sugli occhi, regola la messa a fuoco e spazia verso la parete che ha di fronte, ruotando la testa lentamente da destra verso sinistra, dall’alto in basso, poi ancora a destra
“Questo qui dev’essere proprio un novellino, talmente acerbo che la guerra non ha ancora avuto tempo di scolorirgli la divisa.” – pensa con un sorriso che, all’improvviso, gli si blocca sul viso come un ghigno perché vede che il binocolo ora è puntato su di lui.
Si irrigidisce vedendo il nemico trasalire e capisce di essere stato avvistato.
Sono uno di fronte all’altro, distanti qualche centinaio di metri, divisi come solo una guerra può fare, ma talmente simili da sembrare la stessa figura riflessa allo specchio, entrambi bagnati dalla luce indifferente della luna.
I due si guardano. Il suo cuore è accelerato dalla paura. L’altro rispecchia la stessa tensione, lo stesso patema. I secondi si fanno forse minuti mentre la notte, silenziosamente, scivola oltre i loro corpi immobili, oltre i loro fiati trattenuti.
Lentamente la mano destra del nemico si stacca dal binocolo e si alza. La mano guantata aperta, il palmo rivolto verso di lui. Pare un saluto.
Le sue mani artigliano il binocolo. Fa un respiro lungo. Una pausa. La sua mano trema ma si costringe ad aprire le dita. La alza a sua volta a fianco del viso. Risponde al saluto.
Per quanto tempo sono rimasti a fissarsi così, la mano destra alzata, il binocolo puntato? Quante stelle sono implose nel frattempo? Quante lune rotolate oltre l’orizzonte?
Il ragazzo, perché è un ragazzo, allampanato ed imberbe, abbassa il braccio, lascia cadere il binocolo a tracolla sul petto, resta fermo, orbo, inerme, in piedi come un perfetto bersaglio. Lentamente si sfila il fucile, lo appoggia a terra, poi si accoccola in un angolo, si abbraccia le ginocchia abbassando la testa tra le braccia cercando il riposo.
La notte durerà ancora a lungo così come il turno di vedetta. Passeranno ore prima che qualcuno venga a dar loro il cambio. Il soldato guarda il ragazzo accucciato a terra e il cuore si riempie di un peso amaro.
“Povero bocia.”
Cambia posizione per riattivare la circolazione della gamba, che gli si sta formicolando. Osserva con il binocolo la vallata, le cime dei monti, le linee nemiche, il cielo ed ogni tanto lancia un’occhiata verso il ragazzo che forse si è addormentato. Gli sembra giusto vegliare anche per lui, come fosse un figlio che dev’essere protetto, curato, seguito.
Ricorda i giorni in cui il piccolo Angelo si era ammalato di una febbre cattiva, smaniosa. Una notte aveva mandato a dormire Carolina che era esausta ed aveva vegliato il figlio sedendosi a fianco del suo letto. Il bambino era prostrato dall’alta temperatura, respirava ansimando, era sudato, bagnato, incosciente. Al buio, nella stanza satura di umori malati, aveva accudito Angelo fino al mattino, bagnandogli la fronte con pezzette strizzate nell’acqua fredda di un catino appoggiato a terra. Aveva cambiato le lenzuola inzuppate di sudore, gli aveva tenuto la mano, calmando gli spasmi della febbre con sussurri incoerenti.
“Dormi, piccolo mio! Cerca di riposare. Vedrai che tutto andrà bene, ci sono io qui con te. Vedrai che domattina la febbre se ne andrà e potrai tornare a giocare nei prati. Dormi, piccino e non preoccuparti, non sei solo. Senti la mia mano che ti stringe, non avere paura, presto sarà mattino.”
Lo aveva guardato per ore con gli occhi gonfi d’amore, di sonno e di preoccupazione, spiando ogni sussulto, sperando in una ripresa, temendo un aggravamento. Quella notte, al capezzale del piccolo, si era reso conto, forse per la prima volta, di cosa significasse essere padre e del peso della responsabilità nei confronti dei figli che andava al di là del nutrirli, vestirli e farli crescere ed aveva compreso che essere padre voleva dire desiderare di proteggerli soffrendo per le loro sofferenze, proteggerli offrendo se stessi in cambio della loro serenità.
Si riassesta in posizione attenta con lo sguardo teso e il fucile puntato mentre il cielo si fa d’argento. Il suo sguardo corre verso il nemico assopito e sente di esserne il custode.
“Dormi, ragazzo! Riposa ancora un po’. Ti prometto che, almeno per questa notte, nessuno ti farà del male perché ci sono io che veglio per te fino a che verrà mattino”.