La sfilata
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”II EDIZIONE - Arcade, 5 Gennaio 1997
Primo classificato
La sfilata
di Massimo Mattisi - Latina
Premessa
Pur consapevole dell’obbligatorietà della lingua Italiana prevista dal regolamento del concorso per la stesura della novella, non ho potuto fare a meno, alcune volte, di esprimermi in dialetto, in particolare per quei brani che riguardano i ricordi ed i pensieri del personaggio di cui si narra e che sono, in fondo, la parte più realisticamente d’effetto del racconto.
Proprio per renderli “reali” mi sono trovato ad usare il dialetto Vicentino che, insieme al Padovano, al Veronese ed al Friulano, sono i dialetti veneti più parlati nella mia terra di nascita e di residenza, specialmente nell’ambiente agricolo.
Non essendo di origine venete, desidero scusarmi con i lettori se, nella stesura dei brani esposti in dialetto, ho commesso qualche involontario errore o subito un qualche inquinamento, proveniente, appunto, dall’ascolto estremamente variegato degli altri dialetti veneti.
In osservanza alle regole del concorso e nel rispetto per l’altrui comprensione ho provveduto, però, ad una traduzione letterale predisponendo opportune note in calce alle pagine interessate.
Nella mia provincia di nascita e residenza, dove la montagna e gli alpini con la loro epopea, sono un qualcosa di strano ed atipico e dove i figli stessi degli alpini non sanno parlare più il dialetto dei loro padri, questo è uno dei modi per tramandare storie e leggende dei paesi di provenienza; senz’altro uno dei pochi sistemi “per non dimenticare”.
L’autore
Dedicato a quelli che sono rimasti lì……
Il comandante era già passato fa un po’, ma la sfilata, lui lo sapeva bene, era molto lunga, per cui non si crucciava ed aspettava pazientemente che passasse la sua Sezione.
Alzando gli occhi, nella sua candida ed asettica stanza, vedeva il soffitto bianco, che ormai era diventato lo schermo abituale su cui spesso, scorreva un film solo per lui, e dove le immagini si formavano sovente indistinte e confuse; altre volte, invece, esse scendevano dal soffitto, all’interno della stanza ed allora i colori, i rumori. L’odore acre della polvere, erano di nuovo presenti e lui riviveva le scene che susseguivano in tutta la loro cruda realtà.
Bianco il soffitto, grigio o nero il cielo e sull’interminabile candida pianura, un’orda di straccioni in grigio-verde tutti in fila verso il nulla.
E ogni tanto qualcuno cade…..
“Buongiorno signor Giuseppe, come ha dormito stanotte? Bene? Ecco, prepariamoci; dopo, arriverà una bella colazione!”
“…pian Bepi, cassa urtitò tanto, quando ca rivemo naltri, on cafè el sarà fredo lo stesso…Maria Verzine!... nol ga gnanca impienà la gavetta stavolta! Osti, oltra che esser praticamente acqua sporca, l’è anca amaro! Cossa ghetò Bepino in chel scartosso! Sacramento! Dove ghetò robà chel sucharo lì! Femo un po’ par omo come da boni fra dei! Séto cossa ghe penso Bepi? Me piasaria meterghe un fià de late dentro al café, me piasaria queo de la Bianca, la vaca grande quea che a sera a gaveva na teta cossì granda che a tocava in tera… (1)
“Mi raccomando, signor Giuseppe, stia buono, adesso arriverà il signor professore e le farà una bella visita, così guarirà presto!”:
“Ostaria Bepi come che ti te xè brutto, cossì tuto nudo, i te scartarà a vederte cossìto striminsìo anca ti te dovaré vedere la manda per andar co’i alpini…” (2)
“… è l’ora del termometro, signor Giuseppe, dobbiamo prendere la temperatura..”
“…la tamparatura… la tamparatura… fòra la tamparatura la sarà alamnco venti soto zero, che fredo boia, caro da Dio, in vita mia no go mai provà fredo compagno! Bepi pòsate a mi, caminemo insieme, iutamese, speta… ca reciapa fià, ma che fredo, che fredo, madre mia!.” (3)
“… si prepari, signor Giuseppe, è pronto il pranzo, mi raccomando, voglio che mangi tutto! Stasera, verranno a trovarla i suoi parenti e se non ha mangiato, lo dirò ai suoi figli!”.
“… e cossa ghetò ti Bepino, mi un toco de pan e’na s-cianta de sta casoa che me ga dà quea vecia nea capana; e ti? Solo pan… fa gnente, dividemose el companadego… osti Bepi cossa ghetò tirà fora? Un goto de vin? Me te racomando, sta tento, che se quei là fora i te ciapa a bovare, i voe bevargane tuti. Miti via! E poi sarà melio farlo durar, la strada la xè ancora tanta! Femo cussì: solo una s-ciantina alla sera, una par ti e una par mi.” (4)
“Signor Giuseppe, si prepari, è l’ora delle pulizie alla sua persona; non vorrà mica farsi trovare in disordine dai suoi parenti che verranno a trovarlo?”.
“…. Varda Bepi come che xè grosso sto qua! El ga anche la crose soa schena! I te se ficca soto e i te ciucia tutto el vin che te ga bevù. El me piasaria proprio de coparli tuti… La me mama me contava che quando el me pà l’è tornà de l’altra guera, ela no lo ga ganca fato entrar in cas, lo ga cavà zò, tuto nudo, là fora in corte e dopo, cussì tuto nudo come ghel ièra, lo ga fato uar rento in un mésteo grande, quelo dela liscìa; lo ga lavà con la soda, ghe ga taià tuti i pili, e lo ga strofinà ben puìto col petroli del canfin; el ga spusà de petrolio, per tuta la settimana, ma le ga copà tute ste maledette bestioline, che la note no ghe fa dormir niuni. Semo tacà su do fronti: de giorno da i rusi, de note da i peoci. Te giuro Bepino, apena rivo a casa me infilo anca mi int’el mesteo, ma tuto vestio, compreso el capèlo, la pena e ‘l moschetto…!” (5)
“Buongiorno papà, hai dormito bene stanotte?”
Tepore e fetore nell’isba abbandonata e un gruppo di uomini dormono in piedi, l’uno di sostegno all’altro, scaldandosi l’uno col tepore dell’altro, e qualcuno al mattino non si sveglia.
“Come stai pà? Come ti senti, hai bisogno di qualcosa?”.
Gira gli occhi verso di loro, e quelli che vede non sono volti estranei; anche se nei suoi ricordi più vivi quegli stessi visi li rammenta molto più infantili; quei volti nella sua memoria sono rimasti bambini, così come erano ritratti sulle foto che portava con sé e che guardava tutte le sere e che, da sole, gli davano la forza di camminare e di vivere.
Apre la bocca per dire qualcosa, ma non esce alcun suono dalle sue labbra; avrebbe voluto dire di non preoccuparsi, che si è solo all’inizio della sfilata, che debbono ancora passare i reparti in armi, le rappresentanze, i decori… c’è ancora tempo…
“.. ghe xè ancora tempo, ghe xè ancora strada, Beppino, no gavemo pi gnente da magnare! Come faremo… non go quasi pi scarpe, i peoci i me magna, iutame Beppino, iutame! Camminemo, camminemo, no fermemose mai, gnanca par tirare el fià, quèrsete Beppino, tò! Ciapa sti strassi e fàssiete anca ti, te staré pi caldo. Varda, lazò in fondo ghè cè ‘na capana, provemo a veder se i ga qualcosa da darne da magnar.” (6)
“Signo Giuseppe, si giri, è l’ora della terapia, dobbiamo fare la consueta iniezione della sera…”.
“… no starte a preocupar Bepi, non te sentirè gnente! El sarà come un becòn de un pòldo sovra la teta e basta… Madre de Dio che gùcia! Maria Vèrzine… Bepi… le gambe me fa Iacomo… iutame… me manca le fòrse… ciarpame..” (7)
“Papà come stai? Ti trovo meglio, sai ieri sera insieme ai vecchi amici siamo stati in montagna ed abbiamo pensato a te, ti ricordi quando c portavi tutti inmalga…”.
“.. dime, Beppino, ricordito quando to pare el te ga mandà in malga drio le vache e dopo semo ‘ndà zò pel vialon pien de neve con chela lamiera e gavemo roto la iacheta? Quante bote che me son ciapòà dal me pà, ma anca ti!
E quea volta, Bepino, che to mama te ga ciapà a far el “cascamorto” con quea tosa del paese che… insoma, no la ghe iera tanta per la quale.. però che beo, Bepino eser stà tusi! Quante corse su e zò per la malga, quanto fià se aveva… ah! Averlo adesso..” (8)
“Uscita, signori, è l’ora dell’uscita!”
“… mòvate Bepi, el sior sergente nol stà spetar noialtri, dai lìssiate i cavei e andremo fora; varremo de trovar ‘na osteria dove se podaria bovare un goto de vin de quelo come se deve, curi Bepi che semo i ultimi”. (9)
“Vi prego signori, è l’ora dell’uscita, avanti ragazzi correre, correre fuori!”.
“…coremo Bepi, curi.. curi che i ne copa! Presto, scòondate drio de chel mucio de neve… dai Bepi, piassémo el mortaio, quanti colpi ghetò? Solo? Fa gnente, vol dir che dopo de quei… moschetto e baionetta! Voio tornar a casa Bepi, fermemoli… o no torna nisuni!” (10)
Il sole, che era già stato alto sull’orizzonte e fino a quel momento visibile sul limite sella finestra, stava ormai volgendo al tramonto.
Qua e là qualche nuvola andava colorandosi sempre più di rosso, un rosso che diventava sempre più vivo, un rosso che ricordava bene di aver già visto…troppo spesso…
Doveva anche essersi alzata una leggere brezza in quota, perché pian piano tutte le nuvolette si radunarono dirigendosi, insieme, verso il sole che tramontava e il cielo, che era stato di un colore azzurro splendente, dopo aver retto per un poco un tenue colore vermiglio, andava diventando sempre più scuro; l’effetto di contrasto evidenziava sempre di più quel gruppo di nuvole che, illuminate dai raggi dell’astro morente lo seguivano, scomparendo a loro volta dietro la collina.
Gli sembrò allora di udire dei colpi cadenzati; in un primo momento, pensò ad un temporale lontano… poi li riconobbe, erano colpi di grancassa… a mano a mano che si avvicinavano, riuscì anche a sentire gli ottoni, poi i clarini e la sua bocca accennò un sorriso; per quello che le poche forse gli consentivano, si sorprese a canticchiare: “… trentatré, trentatré…”.
Poi alzò ancora lo sguardo verso le nuvole che, ordinate e lente, continuavano ad andare avanti seguendo il sole che, nascondendosi dietro dei monti vicini, lasciava dietro di sé un po’ della sua luce; questa sfioriva le creste e le vette, rendendole brillanti ed accendendole di una luce vivida come per un lunghissimo incendio; nel verso contrario proiettava invece, nell’atmosfera già umida della sera, una serie di raggi d’ombra che, divergendo, sembrava quasi cercassero di opporre una disperata resistenza per respingere, forse, il buio della notte… che sopraggiungeva inesorabile.
Per un momento gi sembrò che una delle nuvolette si stacasse e scendesse veloce verso di lui; alzò la testa girandosi verso la finestra ed aprendo bene gli occhi per vedere meglio: “Strano, pensò, una nuvola in grigio-verde!”.
La nuvoletta si fermò un momento dietro i venti, poi entrò decisa nella stanza e diventò una forma che ben conosceva: in grigio-verde, appunto, con gli stracci fermati ai piedi al posto delle scarpe, il lungo cappotto sdrucito e senza più bottoni, legato stretto alla vita con lo spago, il volto emaciato con la barba lunga, ispida e incrostata di ghiaccioli, e il cappello…. il cappello con la falda calata sulla destra e su di esso la lunga penna nera, inclinata sulle ventitré…
“… ciò Bepino, cossa fé tp ancora in leto vaca boia! Al sete, peandron! Tocca an ca ati stavolta, no star a creder de cavartela, vecio! Xè drio per sfilare la classe nostra, quea de fero; forsa, ‘ndemo! No se pole mancar!”
“Vegno, vegno Toni; figurate! Te go spetà tuti sti ani… alora te me avevi dito de ‘ndar via, de curer via, che ti te saria vegnu drio… e mi te go spetà… ma no ti te xè pì vegnuo, ti te xè restà lì, insieme a pochi altri mati coma ti, par fermar i rusi che i rivava; spuando anca l’anema, prima con l’ottantuno, dopo col mosheto e con la baionetta… e a mi, che no voèa la sarte, ti me ga puntà contro el moschetto sigando e sacramentando de ‘ndar via, che mi gavevo i putei che i me spetava e ti no… e cusì noialtri la gavemo scampà e gavemo podesto vegnare a casa.
Te s’è vegnuo finalmente a tòrme Toni? Vegno!”. (11)
La sfilata continuava lunghissima, dopo i reparti in armi, le fanfare, i tamburi, una moltitudine di alpini in grigioverde, con le mantelline che si muovevano al freddo vento del nulla, fasce e scarponi chiodati ai piedi; poi gli altri, con i lunghi cappotti e le scarpe di misto cartone, ancora fanfare, tamburi, bandiere, soprattutto bandiere; l’unica cosa che non cambiava era il cappello con la penna nera: a volte deformato, modellato dall’uso in tante fòggie e qualcuno aveva tirato la falda destra in basso, forse per ripararsi dal vento, che per molto tempo aveva soffiato, freddo, da est.
Lassù, nel Paradiso del Generale Cantore.
Note
(1) “… piano Bepi, non spingere tanto, quando arriveremo noi, il caffè sarà freddo comunque… Maria Vergine… non hanno nemmeno riempito la gavetta, questa volta! Ostia, oltre ad essere praticamente acqua sporca, è anche amaro! Cos’hai Beppino in quel cartoccio? Sacramento! Dove hai rubato quello zucchero? Facciamo un po’ per ciascuno, come fossimo due buoni fratelli! Sai cosa penso, Bepi? Mi piacerebbe metterci un poco di latte, dentro questo caffè, mi piacerebbe quello della Bianca, la vacca grande, quella che alla sera aveva una tetta così grande che toccava in terra…”.
(2) “Osteria Bepi come sei brutto, così tutto nudo, vedrai che ti scarteranno vedendoti così striminzito, anche tu dovrai vedere la manza per andare nelle truppe alpine…”.
(3) “… la temperatura… la temperatura… li fuori la temperatura sarà almeno 20° sotto lo zero, che freddo, caro a Dio, in vita mia non ho mai sentito tanto freddo, Bepi, appoggiati a me, camminiamo insieme, aiutiamoci, aspetta, voglio riprendere fiato, ma che freddo, madre mia!”.
(4) “… e tu cosa hai Bepino?... Io un pezzo di pane e un po’ di questa caciotta che mi ha dato quella vecchia nella capanna, e tu? Solo pane… non fa niente, divisiamoci i companatico… Ostia, Bepi, cos’hai lì nascosto? Un poco di vino? Mi raccomando, attento che se ti prendono a berne, ne vorranno bere tutti. Metti via! E poi dobbiamo farlo durare, la strada è ancora lunga! Faremo così un sorso alla sera, uno per te ed uno per me…”.
(5) “…guarda com’è grosso questo! Ha anche la croce sulla schiena! Ti si infilano sotto e ti succhiano tutto il vino che hai bevuto. Mi piacerebbe proprio ucciderli tutti... La mia mamma mi raccontava che quando i mio papà tornò dall’altra guerra, non lo fece entrare in casa, ma lo fece spogliare tutti nudo fuori dall’aia e poi, così nudo com’era, lo fece entrare nel mastello grande, quello del bucato; lo lavò con la soda, gli tagliò i capelli a zero e lo strofinò bene col petrolio della lampada; puzzò d petrolio per tutta la settimana, però le uccise tutte queste maledette bestioline, che la notte non fanno dormire nessuno. Siamo attaccati su due fronti: di giorno dai russi, di notte dai pidocchi. Ti giuro, Beppino, appena torno a casa, mi infilo anche io nel mastello, ma tutto vestito, compreso il cappello con la penna e il moschetto!...”
(6) “… c’è ancora tempo, c’è ancora strada Beppino, non abbiamo più niente da mangiare! Come faremo… non ho quasi più scarpe, i pidocchi mi mangiano, aiutami Beppino, aiutami! Camminiamo, camminiamo, non fermiamoci mai, nemmeno per respirare, copriti Beppino, prendi questi stracci e fasciati anche tu, starai più caldo. Guarda laggiù c’e una capanna proviamo a vedere se hanno qualcosa da farci mangiare.”.
(7) “…Non ti preoccupare Bepi, non sentirai nulla! Sarà come una puntura di insetto sulla tetta e basta… Madre di Dio… che ago! Maria Vergine… Bepi… le gambe mi tremano… aiutami… mi mancano le forze… tienimi…”.
(8) “… ti ricordi, Bepino, quando tuo padre ti mandò in malga ad accompagnare le vacche al pascolo e poi siamo scesi giù per il violone innevato con quella lamiera e ci siamo strappati la giacchetta? Quante botte mi dette mio padre, ma anche a te il tuo! E quella volta, Beppino, che la tua mamma ti prese a fare il cascamorto con quella ragazza che in paese si diceva fosse poco seria… che bello, Beppino essere stati giovani! Quante corse su e giù per la malga, quanto fiato si aveva…vorrei averlo adesso…”.
(9) “… affrettati, Bepi, il sergente non ci aspetterà, pettinati e usciamo, cerchiamo un’osteria dove si potrà bere un bicchiere di vino buono, corri Bepi, siamo gli ultimi…”.
(10) “… corriamo Bepi, corri… corri che ci ammazzano tutti! Presto, riparati dietro quel mucchio di neve… dai Bepi, piazziamo il mortaio, quanti colpi hai? Soltanto? Non fa nulla, quando saranno finiti… moschetto e baionetta! Voglio tornare a casa Bepi, fermiamoli… o non ritorna nessuno!”.
(11) “… cosa fai ancora a letto, Beppino! Alzati pelandrone! Tocca anche a te stavolta, non pensare di scamparla, vecchio! Sta per sfilare la classe nostra, quella di ferro; forza andiamo, non è possibile mancare!”.
“Vengo, vengo, Toni; figurati! Ti ho aspettato tutti questi anni… allora mi avevi detto di andare via, di correre via, che tu saresti venuto dopo… ed io ti ho aspettato… ma non sei più venuto, sei rimasto lì, insieme a pochi altri matti come te, per fermare i russi che arrivavano; sputando anche l’anima, prima con l’ottantuno e poi col moschetto e con la baionetta… e a me, che non volevo lasciarti, mi hai puntato contro il moschetto gridando e sacramentando di andar via, che io avevo i bambini che mi aspettavano e tu no… e così noi ci siamo salvati e siamo riusciti a tornare a casa.
Sei venuto finalmente a prendermi, Toni? Vengo!”.