La fuga dei cervelli
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Premio speciale
"Trofeo Cav. Ugo Bettiol"
La fuga dei cervelli
di Paolo Meneghini - Carrè (VI)
Appena entri nel bosco respiri meglio: ogni volta è così. Ti senti bene, tanto che a leggere la tabella coi tempi di percorrenza ti vien da ridere: impiegherò meno della metà, ti dici. E pensa così anche il giovane all’attacco del sentiero, ispirato dall’allegria dei grappoli giallo brillante del maggiociondolo poco lontano, purché, aggiunge, non mi intralcino la strada questi pensionati dello scarpone. Vede infatti sopraggiungere, alle sue spalle, una coppia di escursionisti tecnicamente attrezzati, ma evidentemente attempati.
Muove svelto i passi, il giovane, per non farsi superare. Decide, anzi, di allungare la falcata per segnare da subito un certo distacco. Il sentiero si inerpica per gradini fangosi: colpa della pioggia del giorno prima. C’è da piantare bene le suole e sollevarsi, attenti a non franare, più che al ritmo. Così, mentre il giovane poggia piedi prudenti sulla melma mista a foglie, ecco sfilare rapidi i due che lo seguivano. Questi, con passi precisi e potenti, procedono senza accenno di fiatone. Il giovane prova un poco a restare in scia, ma poi si ferma e finge di aggiustarsi una stringa allentata. Chissà quei due, liberi pensionati, quanti chilometri macinano al giorno.
Degli anziani non ci si può fidare: specie, di quelli che comandano. Hanno occupato tutti i posti che contano e adesso non li mollano più. Al giovane, e alla sua generazione, hanno lasciato le briciole. Dopo avere tanto studiato, anche lui si è adattato a lavori diversi, pur di ottenere una minima indipendenza, e se all’inizio può andare bene, rendersi conto che facilmente resterai precario a vita, perché ti hanno svenduto e smantellato il Paese, beh, questo è seccante. Ecco un motivo per cui oggi il giovane si è messo in marcia: per sfogare la frustrazione usando i piedi. Perché la montagna è medicina. Appena può, parte e raggiunge quei profili che scorge anche da casa, all’orizzonte. Bordi necessari a ispirare obiettivi più alti, a inseguire sogni nascosti al di là di un crinale. Più la quota sale e più si sente in pace: col sudore spreme fuori anche le ansie, le preoccupazioni, e quando si volta indietro a spaziare con lo sguardo sulla pianura gli pare che assieme alle case, alle strade, alla gente, anche i problemi siano rimpiccioliti.
L’ingresso è antro oscuro di caverna, di miniera. Nel gioco di ombre proiettate dalle pile frontali, le forme umane diventano giganti e la suggestione fa viaggiare indietro, al tempo degli eroi: quelli che hanno combattuto per difendere la patria e quegli altri, che hanno costruito un’opera grandiosa dove pareva non esserci una via. Penetrando nel cuore della montagna, la galleria diventa bozzolo di pietra e il giovane uomo sente che potrebbe completarsi la metamorfosi: più avanti c’è lo sbocco verso un possibile domani, indietro, una realtà scomoda da lasciarsi alle spalle. Lì, nella semioscurità ci sono i pensieri sospesi tra la speranza di volare e un’esistenza da bruco.
Quel giorno, il giovane ha scelto di percorrere una strada celebre: quella delle 52 Gallerie sul Monte Pasubio. Di solito preferisce sentieri solitari, fuorimano, per godersi al meglio il silenzio, per staccarsi dal traffico del quotidiano e si è quasi pentito di essere salito lassù, quando, appena sbucato dal bosco, ha incontrato quella sguaiata marmaglia intenta a scattarsi i selfie coi soldati stampati sul monumentale portale d’ingresso dell’itinerario, battezzato Museo a cielo aperto.
Dopo qualche tornante in salita, però, ha cambiato idea. La fatica zavorra il fiato e i turisti che credevano di fare una scampagnata non sono più tanto esuberanti. E adesso, gli sembra anche che quello sia il modo più adatto per percorrere la via: in origine la strada, le gallerie, non erano certo un luogo solitario, ma un viavai continuo di soldati e di muli, di armi, di materiali e di vettovaglie. Dentro ai tunnel rimbalzavano gli echi di scarponi, di richiami, di bestemmie, di comandi, di ragli, di risate. Lassù, tra il marzo e il dicembre del 1917, centinaia di giovani lavorarono alla costruzione di una mulattiera coperta, necessaria per ripararsi dal fuoco nemico, e le gallerie che li proteggevano dal conflitto e dal gelo invernale diventarono per loro, insieme alle baracche, casa e rifugio. A disegnare e dirigere i lavori c’era un ufficiale neanche trentenne, ingegnere meccanico: il tenente Zappa. Oggi avrebbero affidato l’incarico a chissà quale star dell’architettura. Teleferiche al posto del filo spinato, badili invece dei fucili. Impegnati nel lavoro, i soldati evitavano l’insensato massacro del conflitto e, insieme, vedendo progredire l’opera giorno dopo giorno, trovavano un senso nobile alla loro vita. Ecco: dare un senso alle cose è importante; non c’è da stupirsi se, oggi, tanti giovani costretti a ruoli mediocri se ne vanno in cerca di una sorte migliore.
La galleria ha un fiato gelido. Occhio alla testa e occhio ai piedi: è facile slittare sulla pietra viscida e sbattere sulle sporgenze della volta rocciosa, seppure gli spigoli, ormai, siano smussati da migliaia di zuccate di viandanti già passati. Dal soffitto di pietra gocciola dentro. Ogni stilla sulla testa o giù nel collo è un’improvvisa doccia fredda, un brivido piacevole nell’accaldato sforzo della salita. “La fantasia è un posto dove ci piove dentro”, diceva bene Italo Calvino. E le gallerie, con il loro continuo gocciolare sono esattamente il posto della fantasia. C’è voluta un’inventiva smisurata per tracciarle e adesso serve l’aiuto dell’immaginazione per figurarsi come fosse, all’epoca, la vita lassù. Dalle frasi dei turisti di oggi, l’orecchio coglie accenti di ogni parte d’Italia: dall’Alto Adige alla Sicilia, dalla Liguria al Friuli Venezia Giulia, passando per tutte le regioni di mezzo. Proprio come allora: da ogni parte del Paese arrivavano i soldati. Pugliesi, Toscani, Piemontesi, Emiliani, Abruzzesi, Sardi, Lombardi, Veneti… le forze migliori riunite per realizzare un’idea grandiosa. Ah! Se solo si riuscisse a radunarle di nuovo, senza il bisogno di una guerra.
Giovani… ma quali giovani, poi? Oggigiorno ti dicono che sei giovane quando ne hai venti, trenta, quaranta, perfino settanta di anni. Tanto così, possono farti lavorare fino al secolo. Nel frattempo, il trascorrere degli anni ha cambiato il clima: poche chiazze di neve, tra le rocce e i mughi, sono rimaste sul versante in ombra. Altro che l’inverno del ‘17: quell’anno, i cornicioni di fiocchi ammassati sui cigli disegnavano già il passaggio da Bocchetta Campiglia fino a Porte del Pasubio. La temperatura adesso sale, spariscono i ghiacciai e spariscono anche i giovani in circolazione, quelli veri e non ancora rassegnati ad abitare un Paese per vecchi. Tre giorni prima, per strada il giovane ha incrociato un amico. Non lo vedeva da un sacco di tempo: che fine hai fatto? gli ha chiesto; sempre in giro per il mondo? così, tanto per scherzare. L’amico ha preso a raccontare, convinto che l’altro già sapesse. Sì, ormai mi sono trasferito in Svizzera e là sto bene, sono già due anni: rimpiango solo di non essermene andato prima. E così, ha ascoltato dalla viva voce quella storia, tante volte letta tra le notizie o ascoltata per radio o alla tv: ho trovato un ambiente che dà valore al merito, diceva, in cui non serve avere agganci per la carriera, dove i salari sono equi. Naturalmente, la nostalgia d’Italia resta e resterà, però mi si è sciolto quel nodo in gola, quel peso in petto di sentirmi chiuso dentro uno Stivale alla deriva, mai capace davvero di cambiare.
Forse vengono a galla solo le storie di chi ce l’ha fatta, i fallimenti no, ma i cervelli in fuga sono tanti, sono i migliori, e non è una storia inventata.
24 Bologna, 25 L’Aquila, 26 Napoli, 27 Capitano Picone, la sequenza numerata delle Gallerie, coi nomi scelti dai costruttori della Strada, se da un lato rassicura che una tappa in più è stata percorsa, nel conteggio per differenza sgomenta più di un camminatore che non può farsi illusioni sulla distanza che manca al traguardo. Però la montagna è onesta. Ogni passo in più è un investimento. Senti la fatica, ma sai che la vetta è un passo più vicina. Sicuro: un passo più vicina. Nella vita giù in valle, invece, i riferimenti non sono sempre chiari. Puoi impegnarti per anni e poi trovarti al punto di partenza. Ci si muove nel grigio di un’aria ammorbata da gas di scarico e da idee stagnanti. La nebbia, adesso, per uno scherzo della natura ha invaso anche il sentiero, risalendo i canaloni, e si è infilata nella bocca aperta delle gallerie.
Pa-sso! Pa-sso! Pa-sso! Rip-so! In controluce, confusi dalla caligine, i viandanti perdono il colore vivido dei loro capi alla moda e adesso sì, potrebbero confondersi con le sagome in tinta unita di soldati in uniforme. Sembra di rivederli, in marcia, sul pendio sassoso. Dopo il tenente Zappa fu il capitano Picone, e con lui il tenente Cassina e un manipolo di ufficiali in gamba, a condurre la 33a Compagnia fino a completare la Strada della Prima Armata. Le tabelle metalliche, che riportano la descrizione del percorso, ritraggono i militari fieramente in posa coi badili e ci sono pagine che possono testimoniarlo: quei giovani soldati erano orgogliosi e consapevoli del valore della loro opera. L’orgoglio lucido, sereno, traspare dai ritratti nelle fotografie, è descritto in fogli di diario, raccontato nelle lettere ai famigliari. Testimonianze di impegno, dedizione, affiatamento, entusiasmo. Storie di giovani in montagna.
Anche adesso ce ne sono, di giovani che hanno voglia di impegnarsi scarpinando verso una cima, anche se la scelta delle calzature a volte fa dubitare sull’acume, o sulla preparazione, dei soggetti. Certe sneakers immacolate, per esempio, sembrano adatte sì alle gallerie, ma a quelle del Corso. Tra i tanti in marcia, si nota qualche coppia che avanza lenta e con fatica, unita mano nella mano. Anche questo appartiene al bello della montagna: fare esperienza e poi darsi una mano nelle difficoltà. Questo sembra più difficile da immaginare, abituati come siamo a figurarci rudi alpini dai grossi scarponi, ma è senz’altro successo anche nella stagione del ‘17, che tra soldati sbocciassero spontanei gesti di affetto e di tenerezza.
Uno squarcio nella roccia: una finestra sul cielo e poi più niente, solo nuvole. Che sia la strada che conduce al paradiso? In quota il tempo cambia in fretta. La nebbia è già svaporata, tranne gli scampoli impigliati tra i pinnacoli che sorgono dal burrone. La montagna ti salva sempre due volte: prima con la fatica e poi con la bellezza. Finché rimani a casa neanche ti accorgi di respirare, ma quando sali realizzi il miracolo di ossa e muscoli, sangue e fiato, che sei. E mentre avanzi si rinnova ogni volta la meraviglia per un picco d’aquila, il coraggio di un fiore, la vertigine di un salto, il brillare soffice della neve, l’inebriante presenza di un ciclamino, la dolcezza di una radura, l’abbraccio di un bosco, la sorpresa da batticuore di un camoscio, il fischio inaspettato di una marmotta, la fantasia delle nuvole. Succedeva anche ai soldati della 33a Compagnia, di incantarsi mentre erano al lavoro. E succede oggi, all’indisciplinato esercito del Quechua, che procede in fila spezzettata un po’ per la stanchezza, un po’ l’emozione del viandante.
Il giovane camminatore si è concesso una sosta dopo la XXXI galleria, superato il poderoso tratto di massi squadrati che imbrigliano la montagna. Da lì si può ammirare un lungo tratto di strada che serpeggia pallido sopra al baratro, con quelle formiche bipedi in processione. Guardando giù, si vedono anche i paesi: lontani, ma così nitidi che parrebbe, con un passo, di poter scendere in piazza. Allarga le braccia, il giovane, inspira a pieni polmoni ossigeno e libertà: adesso potrebbe anche prendere il volo. Sente nuova energia che da quei monti, da quella natura, da quei sassi va a pompargli nelle vene come fosse linfa per un albero e ora si sente pronto ad affrontare quello che verrà.
Stringe bene ogni fibbia e i lacci degli scarponi. Sì, ora è pronto. Prima di riprendere il passo, si gira ancora una volta ed eccolo lì: è come vederlo in carne ed ossa, il tenente Zappa, sorridente sotto la folta barba scura, all’imbocco dell’ultima galleria. Fissa a lungo quella figura immaginata, per imprimersela bene nella memoria: Zappa e tutto il resto della squadra avevano suppergiù la sua età. In guerra, in pieno inverno, avevano disegnato un percorso dove non c’era niente. Coraggio e immaginazione. Sulla montagna, avevano inventato la loro strada, indirizzato la loro vita. Il giovane ora rivolge lo sguardo verso casa e l’orizzonte, verso quello che c’è, ma non si vede, più in là. Non sa ancora precisamente come, ma sa che riuscirà: per il suo futuro, ora, ha immaginato una via.