L'alpino Gilonna
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2012
Premio speciale
"Trofeo Cav. Ugo Bettiol"
L'Alpino Gilonna
di Luciano Rossi - Brugherio (MB)
In quest’inizio di notte ancora oppressa dall’afa estiva, sento che la soluzione non è lontana. Come sempre, il problema, anche arduo, si risolverà, con pazienza e tenacia: la soluzione di quella equazione non è impossibile.
Per ora, mentre il sonno tarda, lascio che i passaggi tentati sulla carta girino in tondo nella mente.
Accidenti all’equazione di Von Neumann! La soluzione che egli ne dà è chiara ma, impostando l’equazione con le frequenze delle note d’ingresso del tema dominante, la conclusione del tema stesso dovrebbe scaturire in pochi passaggi. Perché non riesco a risolvere la stessa equazione, imposta questa volta con le frequenze del tema di questo canone di Bach a sei voci? Eppure lo sviluppo musicale e rigoroso. E’ un canone cancerizzante, una melodia percorribile anche a ritroso.
Nel vago del sonno oscillante, senza che nulla sembri collegarla al problema, mi appare la figura del Maestro Gilonna.
Dio mio! Sono passati gli anni d’una vita dall’infanzia sul lago d’Orta.
Il Maestro aveva allora intorno ai sessant’anni. Avrebbe dovuto essere in pensione, ma gli insegnati in età dell’obbligo militare erano chissà dove. Nelle gite in montagna indossava sempre il cappello d’Alpino, con i gradi di sottotenente. La scuola elementare, in quel paese sul lago d’Orta, funzionava a singhiozzo, tra le retate delle “ SS” tedesche occupanti., le notizie contrastanti, la ricerca affannosa del cibo. Tutto ciò che poteva in qualche modo funzionare, era gestito dalle donne e dagli anziani.
La scuola per no era il Maestro Gilonna. Di lui in paese si diceva che fosse un professore di matematica ebreo espulso dall’Università di Torino e, per sua fortuna, forse dimenticato dopo un biennio di confino in un villaggio del Trentino. Noi bambini pensavamo che quella parola ebreo, definisse una specie di incolpevole malattia non contagiosa ma separante dalla comunità, quasi emarginante. Non chiedemmo mai spiegazioni e nessuno ne parlava, ma il nonno, Alpino pure lui, come tutti gli uomini della famiglia, lo definiva “...un maestro con la emme maiuscola ma soprattutto un tenente di complemento degli Alpini “. Magro, viso dolce, serio e affilato, il Maestro ci riuniva ogni volta ed ovunque gli fosse possibile, anche all’aperto, poiché l’edificio della scuola elementare era utilizzato come caserma dalle “SS” e dalla “X° MAS”.
Con lui si andava a catturar trote nei torrenti di montagna. Lo ricordo, saldo sulle gambe tra due massi nella corrente gelida, solido come un tronco di robinia, ruvido nel dare ordini nell’azione, pacato nel dar consigli sulle esche. Nelle lunghe passeggiate nei boschi, a raccoglier legna per l’inverno imminente, ripeteva con noi poesie: Pascoli, Leopardi, Carducci. A lui certamente noi ragazzi dovevamo la prima esperienza di un rapporto con un adulto, serio e sorridente, nonché la graduale conoscenza, ancora incerta, della universalità della cultura umana.
Il nostro Maestro sosteneva che il linguaggio poetico era particolarmente efficace nella logica. Ma ciò era allora difficile da capire per noi.
Una spiegazione in effetti la dava con Chesterton: “La verità si può trovare con la logica, solo se la si è già trovata senza di essa”, se ricordo bene la citazione.
Il Maestro la ripeteva anche in inglese, per darci qualche esempio di una lingua che, a suo avviso, sarebbe diventata lo strumento più importante nella comunicazione mondiale. Allora però, nell’ autunno del ‘44, non si studiava l’inglese neppure alle superiori: c’erano in circolazione i distintivi con la scritta ‘Dio stramaledica gli inglesi’.
Li avevano distribuiti a scuola. Nessuno di noi portava quel distintivo.
Un giorno lesse in inglese alcuni sonetti di Shakespeare. Poi li tradusse. Quel nome lo scrivemmo lettera per lettera. Rinunciammo a pronunciarlo, ma gettammo i distintivi nel torrente.
Al ritorno dalle gite in montagna, passeggiate propedeutiche, le chiamava, c’era sempre una sosta sui prati prima di scendere in paese. Il Maestro, sorridendo, l’aveva denominata “...l’ ultimo pascolo per la mente, prima che faccia buio”.
Alla radura, il sole ormai tiepido ed obliquo, c’era tempo per fermarsi sull’erba e ripetere la lezione d’aritmetica o di grammatica. Dall’alto del pascolo, si vedevano le donne che ritiravano dai terrazzi la biancheria asciutta. Il lago, laggiù, era già grigio scuro e appena marezzato da una “inverna” bizzosa che annunciava il freddo del vicino inverno.
Quel pomeriggio arrivammo presto alla nostra “palestra di roccia”. Era una masso erratico, grande come una grossa baita ed alto più di quattro metri. Il Maestro ci aveva spiegato che quel grosso masso era stato lasciato, migliaia di anni prima, dalla morena centrale del grande ghiacciaio, durante l’era glaciale. Controllò che mi fossi legato correttamente alla corda di canapa, si legò a sua volta e scalò rapidamente il masso, ricco di appigli e fessure. Dall’alto, assicurandomi a corda tesa, mi incaricò di salire seguendo la via ben conosciuta da tutti noi. Dallo zaino, una riserva dalle mille sorprese, il Maestro aveva estratto per me un metro da falegname ed un gessetto della scuola.
Tre segni avrei dovuto fare sulla parete del masso: ad un metro dal suolo, a due metri ed a tre metri.
“A che distanza dal suolo si trova la base?”, chiese a tutti noi.
“A nessuna, Maestro. La base è sul terreno”, qualcuno rispose.
“Osservazione giusta” commentò. “Quindi a distanza zero; chiamiamo quota zero l’altezza a cui si trova la base del roccione rispetto al suolo. Ora chiamiamo quota più un metro il primo segno di gesso, più due metri il secondo e più tre metri l’altezza del terzo. Ora tu, Riccardo, prendi la pala e comincia a scavare una buca alla base del masso...
“Basta così. Misura ora la profondità della buca”.
“E’ di venti centimetri”.
“Bene. Come definiamo questa misura?”
“Io direi: profondità venti centimetri”, rispose il più svelto.
“Benissimo. Chiamiamo questa quota meno venti centimetri rispetto al suolo.
“Abbiamo così definito i numeri relativi, ovvero le quote riferite al livello zero del terreno. I numeri saranno per convenzione positivi, col più, se si riferiscono alle tacche sull’albero, verso l’alto; negativi invece, col meno davanti, se sono sotto il livello zero del suolo. Abbiamo così superato il limite dell’aritmetica e siamo entrati nell’algebra. Ora sappiamo sottrarre da un numero un altro numero maggiore del primo: il risultato sarà un numero negativo”.
Giannino un po’ concitato alzò la mano: “Se ho in tasca una moneta di venti centesimi ed una di dieci, in totale ho più trenta centesimi... se non ho soldi sono a quota zero e basta”.
“Ma se hai cinquanta centesimi di debito con Giuseppe, in totale possiedi più trenta centesimi ma meno cinquanta, quindi in totale disponi di meno venti centesimi poiché i debiti si pagano”.
Non è certo l’unico ricordo degli insegnamenti del Maestro Gilonna, impressi per sempre come i nodi dell’alpinista e la tecnica dell’assicurazione durante la scalata. Ma perché me ne ricordo proprio questa notte, mentre mi rigiro insonne tra i passaggi dell’equazione di Von Neumann?
Una sera il Maestro, dopo la faticosa salita del mattino e la spossante discesa del pomeriggio, dedicò la sosta alla musica ed ai canti degli Alpini. Eravamo rimasti in pochi ed il riposo fu lungo, dolce, lento come il tramonto di quel tardo autunno del ‘44. Fu in quella occasione che osammo chiedergli la storia del suo cappello d’Alpino dalla lunga penna.
“Ero giovane! Ora non mi sarebbe più consentito fare il corso di allievo ufficiale. Lo vietano le leggi razziali… ma questo ve lo racconto un’altra volta.”
“Maestro, perché se cantando sbaglio nota voi ve ne accorgete?”
Il ‘Voi’ di rispetto era d’obbligo allora; ricordo che i miei genitori davano del ‘Voi’ ai nostri nonni. Escluso era il ‘Lei’.
“Perché nella melodia occorre rispettare le leggi dell’armonia ovvero la matematica, come in poesia è necessario rispettare la successione degli accenti tonici, insomma il ritmo del verso, come nella musia”.
“Allora il ragionier Chabod è un musicista!”
Per me il ragionier Chabod era il più grande esperto di matematica: faceva conti lunghi e complicati con una macchina di metallo, una meraviglia cigolante che, tirando una leva, dava da sola le somme, le differenze, i prodotti e le divisioni sulla lunga striscia di carta che si accumulava a terra, fasciandogli le caviglie.
“Non proprio. Il ragionier Chabod è un esperto contabile. Tra la contabilità e la musica c’è una differenza non da poco. La definirei... la percezione estetica dell’armonia”..
“E...che cos’è?”
“Vedi quel mucchio di pietre laggiù? E’ in equilibrio: equilibrio statico. Le pietre non rotolano giù. Questa invece è la foto del Duomo di Firenze. Anche questo mucchio di pietre è in equilibrio statico. La differenza tra i due è la percezione estetica della statica”..
La brezza di lago risaliva il pendio. L’orologio del campanile batté sei rintocchi. Era ora di scendere a casa...
Vidi per l’ultima volta il Maestro quel pomeriggio di sabato, nel febbraio del ‘45. Uscivo dall’ oratorio, dopo la Messa serale non finita. L’avevano interrotta tre soldati tedeschi, armati di mitra, con un milite della “X°
MAS”:
“Tutti fuori, in piazza, schnell!”
Dall’esterno ci arriva una scarica di mitragliatore.
È ormai quasi sera. Il Maestro è sul piazzale sul lago, le gambe scomposte, come fulminato in corsa. Un lungo rivolo di sangue, brillante alla luce dei lampioni, esce da sotto il corpo fino al bordo in cemento del piazzale.
Il viso è nascosto da un cartello:
“Questa è la fine dei banditi e dei loro complici!”
Il dottore del paese, il dottor Baldioli, è davanti a me: “Si è mosso... sono un medico!”, e fece per avviarsi verso il Maestro. Un sottufficiale della X° MAS lo fermò col gesto della mano; poi si avviò verso quel corpo e tese il braccio armato.
Con i gomiti, io strinsi il pallone al petto, chiusi gli occhi e serrai le mani alle orecchie.
Don Giuseppe, con la stola al collo, termina la benedizione con un ampio segno di croce e torna verso di noi:
“Era troppo imprudente…ma aveva scelto la libertà”.
“Siate voi prudente allora” - commentò il dottore a bassa voce - “Il Maestro non poteva far diversamente: aveva la percezione estetica della politica”.
E’ inutile che continui a rigirarmi illudendomi di prender sonno. Forse... ecco, forse la soluzione del canone a sei voci con l’equazione di Von Neumann sta in un’armonica celata: è una soluzione nel campo dei numeri immaginari. Sì! E’ proprio così! L’intuizione deve essere giusta.
Ancora una volta mi ritorna alla mente la citazione di Chesterton: La verità si può trovare con la logica, solo se la si è già trovata senza di essa. Anche lo scorso anno la ricordai, quando il primario di oncologia dell’ospedale San Gerardo mi invitò a leggere poesie ai malati.
Accettai, ovviamente, e preparai poesie di Dante, di Petrarca, di Jacopone e degli stilnovisti.
Nella sala entrarono puntuali i malati, accompagnati da infermieri e da volontarie. Rimasi turbato dall’aspetto di molti di loro. Soprattutto lo sguardo di quel malato. Disteso, il busto sollevato sui cuscini su di un lettino a rotelle, mi guardò, sorrise e mi sembrò che proprio lui volesse incoraggiare me. Poi la luce centrale si spense e rimase accesa la sola lampada sul mio leggio; mi costrinsi ad abbassare lo sguardo dal suo riflesso sulla bottiglia oscillante della flebo di quel malato e mi concentrai nella lettura.
Come potevo aver avuto la presunzione di distogliere il pensiero di quei malati dalla conclusione del loro calvario!
“Lei ha fatto parte della nostra terapia”, mi disse uscendo il primario.
Sorridevo, ripensandoci, mentre attraversavo il parcheggio dell’ospedale: che questa sia la percezione estetica della medicina?
Un giovane nero, la cassetta dei prodotti al collo, catturò il mio inconsapevole sorriso. Il suo era radioso: “Vu’ cumprà?”
I suoi occhi, stranamente chiari, erano come un ingresso angusto verso spazi infiniti di savana, le alte erbe piegate dal vento...
L’ equazione di Von Neumann forse è risolta. Verificherò a mente fresca. Nel silenzio notturno, accendo la televisione. C’è una rievocazione del genocidio in Cambogia.
Caro Maestro! Quando raggiungeremo la percezione estetica della Politica?
Il Maestro Gilonna mi sorride:
“Quella equazione si può risolvere ma, temo, solo qui da noi. Forse la soluzione per la politica non c‘è se questa è mossa dalla sete di potere personale o dalla ricerca impunita della ricchezza illecita, in un ambiente dove diffusa è soprattutto l‘incultura, ovvero la mancanza di qualsiasi maturità culturale e civile.”
“La democrazia non è perfetta ma la tirannia è tragica.”
“Ti aspetto... il più tardi possibile, naturalmente”