Il sentiero delle anime perdute
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XIX EDIZIONE - Arcade, 6 gennaio 2014
Segnalato
Il sentiero delle anime perdute
di Enrico Brambilla - Almenno San Bartolomeo (BG)
Eccolo là Giovanni S., guardaboschi, l’immancabile cappello con la penna di corvo calato di sghimbescio sulla nuca, eccolo intento a calcare pensieri gravi sulle pedate pesanti che arrampicano il sentiero che porta al bosco dei larici rossi. E ad ogni passo, ad ogni balza rimontata Giovanni S. pensa cose grevi, cose che sul cuore gli si sono incrostate da quando è rimasto solo, senza più i vecchi papà e mamma.
Certo, laggiù nel maso c’è la moglie a tenergli compagnia, a parlargli ogni giorno condendo piatti di polenta e speckknõdel affogati nel burro con le vicende del villaggio, di donna Elvira che s’è messa a tenere in casa un amante slavo di passaggio, trent’anni più giovane, del borgomastro Keller a cui è stata pignorata la gasthaus avita per far fronte ai debiti di gioco del figlio, flãneur giù nella godereccia capitale romana grazie al sostanzioso bonifico paterno.
Parla tanto, quindi, con la moglie, il guardaboschi Giovanni S., ma di cose d’ogni giorno, pettegolezzi perlopiù, pourparler, quisquilie e non le cose serie che era solito affrontare con mamma e papà tra una tazzina di caffè, qualche croccante vanillekipfel e una sciorinata di rimpianti.
Ma non c’erano più i genitori!... Uno dietro l’altro finiti in breve nel minuscolo camposanto, lassù, in quel quadratino di terra dove le povere anime dei morti stavano sepolte strette strette, l’una accanto all’altra come per pararsi a vicenda dai rigori dell’inverno...
Eppure, ancora adesso certe sere, soprattutto quando la televisione sproloquia con spettacoli senza sugo, Giovanni S. è tentato di parlare a viva voce, alzare insomma il tono come se attorno gli stessero ancora seduti i poveri vecchi, papà sibilando il “siiippp...” delle labbra accostate alla tazzina, mammà tirando di tanto in tanto, a certe notizie crude, quei sospironi di smarrimento che le facevano levare occhi increduli al cielo. E poi di subito un’aria rassegnata, assumeva la povera vecchia volgendo d’improvviso il volto verso la finestra e indicando col mento aguzzo lassù, verso il monte dei larici rossi, dove nel buio della notte si scorgeva intermittente il baluginare delle torce elettriche che anime perdute accendevano a tratti sui camminamenti degli antichi contrabbandieri.
- Vanno... -
sospirava la vecchia chinando il capo come rassegnata, la fronte sfiorata da un lieve segno di croce.
- Già, anche stanotte... Come ogni notte... Vanno per i valichi della val d’Ultimo sul confine deIl’ Austria... Facce nere, d’Africani, gente bruna dei Balcani venuta da chissà dove e chissà come, sui passi alti che la neve ancora imbianca...- concludeva Giovanni S., un malcontento in petto che doleva com’era doluto, tanti anni prima per una futile rissa, una questione di sigarette da spartire pare, il pugno allo sterno del commilitone in caserma.
Ma, niente goduria soporosa del vecchio padre, niente mestizia della vecchia madre alle pene del mondo, Giovanni S. per ora, e per sempre che Dio l’abbia in grazia, deve accontentarsi della voce stridula della moglie o meglio, soprattutto la sera quando allunga le gambe sullo strapuntino ed un sollievo gliene viene ai polpacci indolenziti dal camminare, deve contentarsi dell’acciottolare dei piatti nell’acquaio che la donna sfrega vigorosamente, di là in cucina, manco dovesse scorticarli del primo bisquit.
E allora pensa Giovanni S. aspettando che giunga l’ora dell’ispezione al bosco, si rifugia in un angolo del cervello dove sa che l’attendono certi ragionamenti, certi sofismi che, per l’acume, non solo gli tengono gradita compagnia ma finiscono addirittura per stupirlo, inorgoglirlo quasi, lui così modesto da non sospettarsi capace di concepire certe acute sottigliezze.
S’atteggia infatti pacioso con se stesso in quel momento in cui l’ombra attorno al paralume gli dice che è quasi l’ora del rito della vestizione della divisa da guardaboschi, traccia una ruga fonda in fronte in cui pare evidente poter leggere quello che la momentanea commemorazione dei suoi vecchi gli fa in ultimo concepire chiudendogli però la gola con un nodo di rimpianto.
Rimpiange in fondo la vita che si fa anche per lui più tarda, rimpiange il giorno, si fa buio fondo, esecra la memoria, si fa greve d’ombre defunte, rimpiange o meglio piange quel momento in cui tutto un passato per l’inganno della nostalgia in fondo si disturba prima di rimetterlo ancora in un oblio definitivo. E non gli resta che chiedersi allora, oltre all’insoluto enigma di sempre sull’utilità di quel “suo” atomo di materia vagolante nello spazio, “Lui” individuo d’improvviso scoccato nel Nulla, se non sia peccato destare dal dentro vite già vissute, quel farsi Creatore momentaneo di esistenze già concluse, lui che a sua volta sarebbe stato concluso e avrebbe patito la stessa intrusione di altri che, per sentirsi vivo, avrebbe avuto bisogno di ricorrere alla “sua” memoria di morto.
Uff!... Che pistolotto! Che tiritera!... Che... che... che tetraggini...
Giovanni S., alpino prima guardaboschi poi, non si capacita di certi cavilli che s’inventa. Infilate brache e giubba, s’è annodato il cravattino verde al collo della camicia cercando di legarvi ben bene quei pensieri, segnali d’un esaurimento incipiente che quasi lo spaventa. S’è vestito di punto chiudendo nelle asole con i bottoni ognuna delle sue elucubrazioni. Si sente un impiccato, così stretto il giro della seta attorno al collo. L’allenta cacciando due dita nel soggolo, saluta la moglie senza aspettare che gli giunga risposta dal sonnellino profondo in cui la donna pare caduta e, spalancata la porta, s’avvia per il camminamento del suo serotino giro d’ispezione.
Eccoli là, tra la rama del cipresso fessa dal fulmine e l’angelo di pietra serena che, levato leggero sul cippo, offre al cielo un improbabile mazzo di spighe. Eccoli là gli ovali d’ottone con le foto stinte di mamma e papà e, più in basso, verso l’angolo della lastra del colombaro, le lettere in lamierino d’un nome aggiunto l’altrieri e la stessa data per nascita e morte. La mano avvinta ad una sbarra del cancello del cimitero Giovanni S. scopre il capo, rigira il cappello tra le dita, spia tra l’inferriate, cerca d’intuire se da quei tondi di smalto piccoli come monete a quella distanza, se da quegli occhi spalancati in uno stupore d’aldilà gli possa giungere un ammicco, un bonario ammicco come usavano fargli i genitori quando erano in vita e osavano chiedergli, quasi velato rimprovero, il dono d’un nipotino.
Giovanni S. ci restava male a quel tempo, d’altronde né moglie né Padreterno gli avevano concesso la grazia, ma ora, ora che comincia ad avere in capo più capelli grigi che neri, un’amara soddisfazione gli stringe la gola e gli pare che lo sguardo dei genitori da laggiù, dal colombaro rinchiuso nel piccolo cimitero a ridosso del monte e che visita fuori ora, gli arrivi come un cenno di condiscendenza, quasi una tardiva ma grata approvazione.
Guarda l’orologio, considera l’ora tarda, Giovanni S. stacca l’attenzione dal cimitero e s’avvia verso la macchia rossa del bosco di larici sulle tracce degli ultimi clandestini transitati per quei sentieri alti e complici. Più in su, dove il bosco già l’accoglie con rame frondose, un cespuglio di cornioli freme, snerva in pianto bacche insanguinate che nevicano come una carezza sul bambolotto di plastica perso da una sbadata bimba in fuga.
Gli occhi di celluloide spalancati e persi nel buio uterino del sotto bosco, qui tracce d’un bivacco di rami usti, là stracci appesi alle spine di rovi intricati, paiono ricordare la piccola moldava che nello stesso posto, nel ricetto dei rami di corniolo, aveva abbandonato un sacchetto rossastro di plastica fremente. Un sacchetto sottile come una placenta che nell’involucro agitava membra infreddolite, spasmi di manine contro una pellicola che, tenace, rubava l’aria e nulla aveva del tepore di quell’involucro di carne che fino ad allora aveva riscaldato il piccolo Angelo Gabriele.
Certo, proprio così, un doppio nome, il nome del più luminoso degli angeli gli avevano imposto le mani di Giovanni S. che l’avevano raccolto pietose, le mani che, trovatolo ormai spento dalla crudeltà dell’abbandono, l’avevano almeno posto a riposare in una modestissima tomba di famiglia, un colombaro abitato da due vecchi morti da poco, nella quiete d’un cimitero che olezzava di fiori e di preghiere. Quello l’unico, il primo e ultimo conforto del bambino abortito, il conforto di quelle mani che l’avevano raccolto sospirandogli che non l’avrebbero abbandonato perché, nella pietà di qualcuno, la vita è sacra ben oltre la morte, ben oltre il bisogno d’una terra promessa che una piccola madre inseguiva valicando confini di guardie armate e montagne impossibili.
E “tacabanda” come per Nemecsek, allora, come per i ragazzi della via Paal, quelli mai diventati grandi, quelli con fantastiche camiciole insanguinate da una guerra dolce di fucilate sparate con lo schiocco della bocca, d’assalti alla baionetta con lame di balsa che spezzano fragili su petti sporti in un delirio giocoso, i ragazzi anche della inverosimile guerra dei bottoni, “tacabanda” ed allegria perpetua per tutti gli innocenti figli di nessuno.
Non un delirio di chissà quale natura ma certamente qualche linea di febbre, un banale raffreddore, avevano rialzata la temperatura del corpo del guardaboschi quella notte che, c’era stata una tempestata improvvisa nel pomeriggio accaldato, l’uomo s’era incamminato svogliato per il sentiero alto che i larici inghiottivano. Una ronda che lo portava da laggiù in fondo, dalla roccia che una vecchissima marmotta sorvegliava fischiando i suoi allerta, fino alle presenze del bosco, fino a quelle ombre che a volte lo spaventavano strisciando furtive da macchioni di felci a spalliere di rampicanti.
Un po’ di febbre, dunque, che il guardaboschi Giovanni S. aveva cercato di quietare con un bicchiere di latte e grappa prima di mettersi in cammino. Poi quella salita, faticosa come non mai, i passi pesanti, il fiato rotto dalla fatica e dalla strani ante sensazione d’essere spiato da nemici in agguato pronti a colpirlo non appena si fosse lasciato andare a riposare per un breve momento su un sedile di muschi. Fisime, timori ingiustificati sotto la volta dei larici rossi che stendevano sul suo capo rami protettivi, immensi arti di carne scura.
Eppure c’era nell’aria odorosa di resine qualcosa di strano, qualcosa che il guardaboschi Giovanni S. aveva subito avvertito rimirando stranito il fondale del sottobosco contro cui una teoria d’occhi bianchissimi e venati di rosso parevano accendersi intermittenti come le lucciole sui fieni di primavera.
Occhi bianchi? Chiostre di denti illuminati?... Non erano bianchi quegli inganni d’occhi, quei denti, ma angosciosamente rossi, rossi come tanti occhi d’avvinazzati spalancati nel buio, rossi come un plotone infinito di soldati cattivi rimiranti una preda ignara da abbattere con una scarica d’improvvisa fucileria.
E “rosso” era stato il colore dell’angoscia che l’aveva assalito a tradimento, Giovanni S. che s’era levato guardingo dal sedile, lo sguardo spalancato in ogni ricetto di buio che potesse celare il nemico all’agguato pronto ad un proditorio assalto.
Ma poi, appena giunto cauto all’altezza del grande larice incavato che al piede gemmava folto il corniolo, il suo sguardo era stato attirato da quel sacchetto di plastica rossa in cui immaginò rinchiuso un asfittico gattino o un lercio topo di roggia o un incubo notturno sfuggito dalla prigione del sogno d’un inquieto addormentato. Dischiudendo con cautela i lembi del sacchetto abbandonato, Giovanni S. aveva visto uscirne la notte dalle tinte più buie, la notte che un braccino snervato s’era messo mollemente a dipingere d’una rossastra vernice caseosa. E poi un piedino, la testolina che solo una lanugine ricopriva, un corpicino spento, un visino che, così eternamente composto nella forma della cera, pareva suggerire ad ogni vivo ch’era meglio rimanere nell’aldilà e nascere per davvero nelle sole favole dei bimbi, sotto un cavolo gigante o nel baccello d’un fagiolo o volare per chissà quale destino cullato nel fagotto appeso al becco d’un’immensa mamma cicogna.
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Giovanni S., guardaboschi, albeggiava quando riprendeva la strada del maso, sempre la stessa da ormai una ventina d’anni. Camminata lenta, cappello in testa più sghembo del solito, una voglia intensa di caffè forte che certamente la moglie, laggiù nel maso, gli stava già preparando. L’uomo, come sempre, deviava dal sentiero franoso e sostava per pochi attimi alla cancellata del piccolo cimitero fortemente chiusa con un doppio giro di catena. Sorrideva Giovanni S., grattava il mento e sorrideva pensando alle paure di chi aveva rinserrato a quel modo i morti forse temendo che i poveri trapassati potessero levarsi ed uscirsene armi e bagagli per il sentiero delle anime perdute, fin su al bosco dei larici rossi. La testa accostata all’inferriata Giovanni S. lasciava che dalla sua bocca parole quiete s’indirizzassero verso quei due ovali che vedeva laggiù tra la rama del cipresso fesso dal fulmine e l’improbabile angioletto che levava al cielo un mazzo di spighe.
- Ciao, mamma Adele... - faceva il guardaboschi Giovanni S. - Ciao, papà Gabriele... –
Taceva d’improvviso, si guardava un attimo attorno con l’occhio spento dal buio delle tenebre controllate per ore e, accertatosi che nessuno l’osservasse in quel suo sparlare da demente, riprendeva:
- Visto, pa’?... Nessuno, giù in Comune, ha sollevato obiezioni alle mie richieste, anzi... Anzi, tutti contenti, a quel tempo, che quell’esserino avesse trovato almeno un’ultima dimora... E così... E così il nipotino infine ve l’ho dato... E’ lì, vicino a voi, dorme con voi... L’ho chiamato come te, pa’... Siete contenti?... Ed “Angelo”, anche, l’ho chiamato, perché lui era davvero un angelo caduto dal cielo, un angelo smarrito sul sentiero delle anime perdute... -