Il libro dei morti
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXVII EDIZIONE Arcade, 8 gennaio 2022
Segnalato
Il libro dei morti
di Michele Piccolino - Ausonia (FR)
Steso sul letto, Pietro Tadini guardava
attraverso la nebbia dei suoi occhi. Intravedeva una folla intorno a lui ma non
riusciva a distinguere le figure. Strinse le pupille per mettere a fuoco e,
oltre la sponda del letto, colse una macchia nera che finì per assumere le
fattezze di un prete.
Riconobbe
don Serge, il sacerdote congolese che reggeva la parrocchia del paese e che
ogni tanto lo passava a trovare. Gli rivolse un sorriso stentato. Lo vide
mulinare la mano destra nell’aria, poi avvertì un tocco untuoso e profumato
sulla fronte. E allora capì.
«Che
ora è?» domandò con grande fatica.
Qualcuno
al suo orecchio gli disse che mancava un quarto d’ora alla mezzanotte.
Pietro
Tadini annuì e chiuse gli occhi. Mancava poco.
Se
c’era al mondo un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, questo era Valcupa,
un borgo perso in mezzo ai boschi a confine tra il Mugello e l’Appennino
bolognese. Solo un ponte di pietra dalle alte campate consentiva alla strada di
arrivare a valle, una strada tortuosa e buia che pochi percorrevano. Uno di
questi era Giacinto Tadini che commerciava in granaglie. E infatti fu l’unico in
paese a prendere la spagnola e a morirne nel marzo del 1919, un mese prima che,
il 9 aprile, nascesse Pietro, il suo primogenito.
A
Valcupa, orfani ce n’erano sempre stati in quantità e il paese se ne faceva
carico. Per crescere il suo bambino Maria, la madre di Pietro, poté contare
sull’aiuto dei tanti parenti e pure dei compaesani. Pietro ebbe tanti zii e zie
che vegliarono sulla sua crescita. E vegliarono bene perché il ragazzo crebbe
sano e coraggioso.
D’estate
Pietro portava le capre al pascolo, sul pianoro oltre il bosco. Guidava le
bestie lungo i sentieri scalando le balze e guadando i torrenti ingrossati
dalle nevi sciolte. Imparò a conoscere la natura e le montagne, esplorando gli
anfratti e i picchi rocciosi. Alla sera tornava in paese per giocare con i
coetanei, a carte ma più spesso a bocce, sfidando gli anziani. Con le bocce
Pietro era bravissimo, chi lo aveva con sé in squadra vinceva sempre. Fu una
sera, dopo una vittoria, che incontrò lo sguardo di Giovanna. Si piacquero
subito.
D’inverno
invece Pietro passava molto tempo con don Florindo che, in cambio di un po’ di
formaggio, gli impartiva lezioni di italiano e aritmetica. Nella sacrestia
trovava i libri che, con il permesso del sacerdote, portava a casa dove leggeva
alla luce del fuoco nel camino. Leggeva tutto quello che trovava, anche quei
volumi che, su una pagina, erano scritti con una lingua strana e, su quella a
fronte, in italiano. Gli piaceva soprattutto il libro che narrava di eroi che
combattevano e morivano sotto le mura di una grande città e, poi, del viaggio
per mare di un re che voleva tornare a casa, da moglie e figlio, ma senza
fretta.
Solo
un libro don Florindo non gli consentì di portare a casa, era un grosso volume
molto antico, le pagine erano consunte ai bordi, si vedeva che aveva subìto
chissà quanti aggiustamenti nella legatura. Sulla costa e sulla copertina di
cuoio rinsecchito non c’era alcun titolo. Pietro lo sfogliava spesso: contava
366 pagine, una per ogni giorno dell’anno, anche per il 29 febbraio. Su ogni pagina
c’erano molti nomi di uomini e donne scritti con grafie diverse, ogni nome era
seguito da un anno. L’anno più risalente nel tempo era il 1215.
«È
da settecento anni che il pastore di Valcupa segna su questo libro i morti del
paese,» gli spiegò don Florindo, «ognuno viene registrato nel giorno della
morte, nella pagina dedicata a quel giorno.»
Pietro
aprì il volume in una pagina a caso. Lesse i morti dell’8 agosto, il primo era
morto nel 1247, l’ultimo nel 1899. Scorse le altre pagine: i cognomi e i nomi
si ripetevano, così come certi anni che avevano mietuto più vittime, forse in
occasione di qualche epidemia, di una guerra o di una carestia. Per curiosità,
aprì la pagina del suo giorno di nascita, il 9 aprile, e la trovò immacolata.
Ne chiese conto al prete.
«Il
9 aprile Nostro Signore non chiama a sé alcuna anima di Valcupa, mai.»
Quando
nel 1940 l’Italia entrò in guerra, Pietro fu il solo a non partire perché
figlio unico di madre vedova. I suoi coetanei vennero mandati in Africa, in
Grecia e in Russia. Pochi ritornarono.
Fino
al 1943 la vita di Pietro non cambiò più di tanto: il giorno saliva al pascolo,
dove Giovanna lo raggiungeva per scambiarsi baci e promesse per il futuro che
stavano progettando, la sera restava in paese con i vecchi a giocare a bocce.
Le
poche volte che aveva dei dubbi, sua madre Maria lo confortava.
«Amore
mio, tutto finisce, finirà anche la guerra. Allora, tu e Giovanna potrete
sposarvi.»
Dopo
l’8 settembre le cose cambiarono in peggio. Se fino ad allora la guerra era
stata un’eco lontana che riguardava il fondovalle, dopo l’armistizio uomini
armati presero a girare per i monti di Valcupa. Alcuni erano tedeschi che
venivano in paese per prendere quello che volevano senza chiedere, altri erano
partigiani che invece chiedevano alla gente del paese pane, vino e tabacco e lo
ottenevano, prima di risalire i sentieri che portavano in alto. Spesso il
formaggio di Pietro finiva nelle loro sacche.
«Grazie,
ragazzo,» gli diceva sempre il loro capo.
«Siamo
noi che dobbiamo ringraziarvi,» rispondeva Pietro.
«Come
ti chiami?»
«Pietro
Tadini fu Giacinto. E tu?»
Il
capo partigiano, che doveva avere pochi anni più di lui, esitò a rispondere,
come non si fidasse.
«Aiace»,
disse alla fine.
Pietro
intuì che si trattava di un nome di battaglia.
«Oileo
o Telamonio?»
«Telamonio,
ovviamente,» aggiunse l’altro con un sorriso.
Molte
volte i tedeschi passarono il ponte che conduceva a Valcupa ed entrarono nelle
case alla ricerca delle armi dei partigiani. Urlavano ordini e buttavano tutto
all’aria fino a quando la loro furia, alla vista dei vecchi, delle donne e dei
bambini spaventati, si placava, prendevano il poco cibo e se ne andavano.
Le
armi c’erano ma non in paese. Erano custodite in montagna, in una grotta
talmente nascosta che neanche a due metri ne avresti scorto l’ingresso.
Era
stato Pietro, un giorno, a suggerire ad Aiace il nascondiglio. Lo aveva
condotto lungo un canalone stretto come il collo di un cigno, scalando le
pietraie contrappuntate dalla genziana e dalla salvia. Il cammino fino alla grotta
era celato dalle cime degli abeti, nessuno che dal basso avesse guardato verso
la montagna avrebbe visto l’andirivieni dei combattenti che, zaino in spalla,
portavano armi, munizioni ed esplosivi.
«Grazie,
ragazzo,» aveva detto Aiace, come sempre.
Pietro
aveva fatto spallucce e un gesto con la mano come a dire ci mancherebbe.
«Perché
non vieni con noi?» gli propose il partigiano, «Saresti parecchio utile alla
causa».
Pietro
scosse la testa. Per un attimo Aiace credette che il ragazzo avesse paura, che
la guerra non facesse per lui, abituato com’era alla pace dei boschi e dei
pascoli. Poi vide lo sguardo di Pietro che guardava in direzione delle case di
Valcupa, scorse l’amore che riverberava nelle sue iridi. E comprese. Capì che
il suo compito era quello di vegliare sulla gente del paese, quale unico uomo
rimasto. Lo doveva a tutti quelli che erano andati via, trascinati lontano dal
conflitto che non voleva saperne di finire.
Passarono
due inverni e arrivarono due primavere. Sulle loro teste ogni tanto rombavano
aerei grossi come fortezze. La notte, in direzione del fondovalle,
s’intravedeva il lucore diffuso di immani esplosioni, come quello di un fulmine
in una nuvola. Portato dal vento, arrivava il fragore delle bombe.
A
volte Pietro si metteva sul poggio a guardare oltre il ponte di pietra
all’ingresso del paese, in preda a un presentimento, in attesa che qualcuno
percorresse la strada che portava a Valcupa. Poi il belato delle capre lo
distoglieva dai suoi timori e saliva su, al pascolo. Però, appena poteva,
tornava al poggio e aspettava. Giovanna si metteva al suo fianco, la mano
intrecciata alla sua, e guardavano in silenzio il limitare del bosco che
digradava verso fondovalle.
Un
giorno, all’inizio della primavera del 1945, videro una motocicletta risalire i
tornanti della strada. Il mezzo alzava un gran polverone, il conducente correva
come un dannato neanche avesse avuto il diavolo alle spalle. Appena superato il
ponte, crollò in terra lasciando scivolare sul ghiaino la moto.
Pietro
e Giovanna corsero verso l’uomo rimasto in terra con le braccia larghe come un
Cristo schiodato. Lo riconobbero subito: era Aiace. La sua camicia era zuppa di
sangue, il suo.
Quando
il capo partigiano incontrò lo sguardo di Pietro, sorrise.
«Giusto
te cercavo».
Pietro
scostò i lembi della camicia e studiò la ferita. Quando la vide, scosse la
testa. Si tolse la sua di camicia e la sistemò sotto la testa del suo amico.
Dopo chiese a Giovanna di portare dell’acqua.
«Lascia
perdere», gli disse Aiace afferrandogli la mano, «non c’è tempo. I crucchi
stanno venendo qui. Hanno saputo che l’esplosivo che ha fatto saltare il loro
convoglio veniva da qui. Dovete scappare, tutti quanti. Quelli sono bestie».
Anche
a Valcupa era giunta la notizia di quello che era successo dalle parti di Lucca
e, più a valle, a Marzabotto.
«Compagno,
porta la tua gente in montagna, il più lontano possibile da qui. Ma fa’ in
fretta, avete poco tempo».
La
luce negli occhi di Aiace si spense. Pietro li richiuse e si segnò. Poi si
rivolse a Giovanna.
«Corri
da don Florindo e avvertilo. Digli di chiamare tutti e di avviarli per il
sentiero che porta in montagna. Io vi raggiungerò dopo».
«Dove
vai?» gemette Giovanna abbracciandolo.
«In
montagna. Ma tornerò, te lo prometto», disse tacitando i suoi dubbi con un
bacio.
Prese
a correre a petto nudo, veloce e sicuro come un capriolo. Attraversò il bosco,
senza fermarsi mai, senza girarsi, seguendo il cammino più breve. Il cuore gli
pulsava in petto e nelle orecchie pompando sangue e adrenalina, il sudore gli
colava negli occhi facendoglieli lacrimare. L’aria frizzante gli bruciava i
polmoni tanta era la foga con la quale inspirava. Dopo il bosco, continuò a
salire lungo il canalone stretto come il collo di un cigno. Quando fu davanti
alla grotta nascosta, si piegò in due poggiando le mani sulle cosce. Appena
ebbe ripreso fiato, entrò e riempì una sacca. Lasciò perdere le armi e le
munizioni, contro i tedeschi sarebbero servite a poco, e portò con sé solo
dinamite e una bomba a mano.
Fece
il cammino a ritroso correndo a rotta di collo. Tutti i suoi sensi erano
proiettati a cogliere i rumori che provenivano dal fondovalle. Alla fine, sentì
il rombo dei motori: una colonna di tedeschi risaliva i tornanti che portavano
a Valcupa.
Prima
di giungere in paese vide i vecchi, le donne e i bambini che si avviavano verso
il bosco. Alla testa del manipolo c’era don Florindo che salmodiava come in una
processione.
«Pietro,
dove corri? Vieni con noi!» gli urlò alle spalle il prete.
Lui
non rispose e non si fermò. Continuò a correre mentre scrutava i tedeschi che
si avvicinavano al paese.
Quando
arrivò al ponte, trovò Giovanna che era rimasta ad aspettarlo vicino al corpo
di Aiace. Pietro tolse lo zaino dalle spalle e lo adagiò in terra. Ne estrasse
tutti i candelotti di dinamite e li sistemò sulla strada, proprio in mezzo al
ponte. Poi prese la bomba a mano e la fece oscillare nel palmo per saggiarne il
peso.
Intanto
i tedeschi erano quasi arrivati, stavano un tornante più sotto. Tempo un
minuto, anche meno, e avrebbero fatto ingresso nel paese.
«Prega»,
ingiunse Pietro a Giovanna.
Con
i denti tolse la spoletta. Fece dondolare il braccio per prendere l’abbrivo e
lanciò la bomba sulla strada. L’ordigno scivolò come una boccia e raggiunse il
suo boccino, la catasta di dinamite sistemata in mezzo al ponte.
La
bomba esplose e, con essa, anche la dinamite. Il ponte di Valcupa si sbriciolò
proprio davanti agli occhi dei tedeschi che dovettero fermare la loro corsa.
Quando
la polvere si fu posata, Pietro e Giovanna stavano correndo verso il paese.
Sulle loro teste fischiarono le pallottole dei mitra tedeschi cui risposero
facendo il gesto dell’ombrello.
Al
limite del bosco trovarono la gente di Valcupa ad aspettarli. Avevano visto
tutta la scena. Furono subissati dai baci e dagli abbracci. Maria prese per
mano il figlio e lo guardò negli occhi. Piangevano entrambi.
«Ci
hai salvati», disse la donna baciandolo.
Ai
tedeschi non restò che fare retromarcia. Erano in rotta verso Bologna,
tallonati dagli Alleati, non potevano permettersi di perdere tre giorni per
aggirare l’ostacolo e raggiungere Valcupa.
«Che
il Signore ti benedica, Pietro», gli disse don Florindo, «Sei stato molto
coraggioso, non hai avuto paura della morte».
Pietro
prese per Mano sua madre e Giovanna e insieme con gli altri s’incamminò verso
il paese.
«Non
ho avuto tempo di avere paura», disse rispondendo al prete, «e poi non ce ne
era motivo. Oggi è il giorno del mio compleanno, il 9 aprile. Oggi nessuno può
morire a Valcupa».
Una
risata di gioia risuonò argentina tra le balze della montagna come un’eco
portatrice di speranza.
Don
Serge si sedette sul bordo del letto dove Pietro stava aspettando lo scoccare
della mezzanotte. Vicino a lui si mise Eraldo, il nipote di Pietro. Guardò il
nonno con un misto di tenerezza e sgomento, come tutti gli altri in quella
stanza.
«Sa,
padre, oggi eravamo qui per festeggiare i cento anni del nonno, tutti quanti,
figli, nipoti e pronipoti. Tutta Valcupa è venuta qui a bere un bicchiere con
noi».
Il
parroco assentì e gli piazzò una mano sulla spalla, senza dire nulla.
«Poi,
all’improvviso, il nonno si è accasciato. Lo abbiamo messo a letto e abbiamo
chiamato il dottore che, dopo averlo visto, ha detto che era meglio se
chiamavamo lei».
Il
prete allargò le braccia come a dire eccomi
qui.
«Preghiamo
per Pietro», disse.
Intorno
a letto, tutti incominciarono a pregare con gli occhi chiusi e le mani giunte
in grembo. La pendola nel salone si mise a battere. Nella casa risuonarono
dodici rintocchi.
Allora
Pietro spalancò gli occhi. Il suo sguardo si fece dolce, sereno, sognante.
Allungò il braccio davanti a sé come volesse stringere la mano di qualcuno e
sorrise.
«Eccomi,
Giovanna, vengo da te».
Poi
l’ultimo fiato esalò dalla sua bocca e Pietro Tadini chiuse gli occhi per
sempre.
Don
Serge benedisse la salma e abbracciò Eraldo.
«Ha
aspettato la mezzanotte, per morire».
Il
nipote lo guardò senza capire.
«Adesso
devo andare in sacrestia», aggiunse il sacerdote lasciando la stanza, «devo
segnare il nome di Pietro nel libro dei morti di Valcupa. Alla pagina del 10
aprile».