Declivio - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Declivio

Tutte le edizioni > Edizione scuola > 2019-20-01
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE RISERVATO ALLA SCUOLA
PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna e il suo mondo

I EDIZIONE - Treviso, 4 Luglio 2020
Primo classificato
 
DECLIVIO
 
di Juri Battig - Treviso
 
5 BU Istituto Duca Degli Abruzzi
 



Sogno.
 
Disteso in un pineto, sfiancato dopo una lunga marcia, appoggio dietro la nuca lo zaino e, sotto un riparo di fortuna, mi lascio cullare dal ticchettio della pioggia.
 
L'odore di pino è intenso, i raggi della luna candidi e familiari. In lontananza sento una pigna che cade, un uccello che si alza improvvisamente in volo: sì, è di certo un uccello, sarà una ghiandaia, forse una pernice che cerca la tana. Deve esserlo. Mi ripeto queste parole e allontano la mia stretta dal fucile, impugnato istintivamente un attimo prima, senza rendermene neanche conto. È, un buon posto, mi convinco, riparato e nascosto. Non mi troveranno.
 
Mi sveglio di soprassalto. La teiera sta sbuffando, devo essermi appisolato sulla poltrona. Mi succede spesso, rifletto mentre verso l'acqua nella mia tazza preferita. E intanto guardo sognante il calendario: la foto del mese è Cima Undici. Sono gli ultimi giorni d'agosto, dovrò ricordarmi di strappare il foglio. Peccato, sarebbe il periodo perfetto per fare qualche escursione, magari tentare una scalata. La parola mi strappa un sorriso. Ricordo infatti la prima volta che arrampicai a quanti, otto, forse sette anni? Ma sì "sette anni e cinque mesi", come tenevo a precisare quell'estate agli amici. Ero uscito la mattina presto con Paolo, irrequieto ma bonario, arguto a suo modo. Ci passavo i pomeriggi quando andavo dai nonni, in montagna.
 
Passeggiavamo già da qualche ora (per i suoi nonni io ero a pranzo da lui, e viceversa) quando vedemmo la cima che si stagliava verso il cielo. Certo, non era così bella rispetto alle altre, né così alta, ma c'era qualcosa di magnetico nel suo crinale: forse i sassi, forse la totale mancanza di appigli sicuri, o magari la consapevolezza che il temporale del giorno prima avesse reso ancora più scosceso il terreno. Fatto sta che la sfida partì subito, senza che nessuno dicesse nulla. Mentre salivamo, dapprima con un buon appoggio dei piedi e dopo con l'aiuto delle mani, il sentiero si allontanava sempre di più, nascondendosi tra i tornanti e rivelandosi solo alla fine, dove con un rapido giro si ricollegava alla cima, sempre più distante. Già, per quanto stessimo arrampicando da un paio di minuti, la meta sembrava lontana, sempre più estranea alle nostre fatiche. Si ergeva fiera e irriducibile mentre noi arrancavamo tra sassi e terriccio. La pendenza continuava ad aumentare ed io iniziavo a sentire il peso dello zaino che tirava e tirava verso il basso, sfiancando il mio equilibrio. In una cinquantina di passi la salita era diventata via via faticosa, ardua, poi scoscesa, finché c'eravamo ritrovati a lottare per non cadere da un piano obliquo. E la vetta là, inamovibile. Avevo paura.
 
Con lo sguardo perso sorseggio la tisana. Quand'è che ho smesso di andare in montagna? Quando mi si è infiammato il piede? No, forse quando mi sono rotto il menisco. Non fu quando mi esplose la gastrite? Neanche. In realtà lo so, me lo nascondo solo per passare il tempo. Fu quando mori Rosa. Da allora mi sono solo trascinato: a passeggiare lungo il fiume, al supermercato, all'edicola. Poi, mi sono rintanato in casa. Abbarbicato sulla poltrona, socchiudo gli occhi. Li riapro. Un fischio dì granata si avvicina sempre di più. Esplode davanti a me. Scappo solo per accorgermi di aver perso un dito per strada, chissà da quanto tempo. Giuseppe mi aveva detto che eravamo ben arroccati, quando parlavamo durante il turno. Forse è rimasto là. Non devo pensarci. Corro. Il ginocchio mi fa un male cane. Abbasso la testa e vedo solo corpi maciullati, dilaniati. Riccardo, mi aveva allungato parte della zuppa ieri, non la voleva. Qualcuno scivola dal pendio e razzola giù, sempre più giù, fino all'abisso, il buio della vallata disabitata, il nero insondabile, eterno che ci avvolge. Mi fermo per riprendere fiato e vomitare, poi riparto. Non so per dove, non so perché. Alzo la testa e le stelle continuano a luccicare.
 
D'un tratto sono con Paolo. Sfiancati dalla salita, sogghigniamo beati agli uccelli e poi in alto, sempre più in alto, verso le soffici nuvole, i cirri e via, verso il sole che abbaglia e scotta sui nostri torsi madidi di sudore.
 
"Una volta ho visto ruzzolare una mucca"
 
"Ma va', quelle sono pesanti ma stanno sempre ferme"
 
"Ti giuro. Ero col papà a pascolare, era tardo pomeriggio e dovevamo tornare alla malga. Me lo ricordo bene perché quella sera la mamma faceva lo strudel. Fatto sta che ci giriamo e vediamo questo vitello che scende lungo un fianco, e noi giù di grida e richiami. Lui si gira e ci guarda. Non so, sembrava avesse paura, ma non di noi. Si gira, fa un passo falso e casca. La parte divertente è stato aiutarlo a salire. Era tutto un 'poggia là e poggia qua'. Scattava a caso."
 
Penso all'immagine e rido, sentendomi un po' in colpa. Poco più in basso, infatti, ci scruta perentorio un gregge, quasi a ricordarci la figuraccia fatta poco prima. Gli zaini, qualche attimo fa grevi zavorre, ridiventano fedeli amici e ne approfittiamo per agguantare le risorse al loro interno: panini con la scamorza, borracce e frutta secca. Sorridiamo spensierati e mangiamo guardando i raggi che si stagliano sulla vallata. Ridiscendendo, incontriamo delle mucche. Siamo poco sopra i duemila metri e non le avevo mai viste vagare fin qui: ciò nonostante, eccole qua a guardarci bonarie ma austere, come solo i bovini sanno essere. Sembra quasi presiedano il passaggio tra un valico e l'altro, tra una gola e una cresta, tra la terra e il cielo.
 
Mi risveglio commiserando la mia pigrizia. Anche oggi non ho fatto nulla, non ho preso neanche il giornale. Prendo ricordi sbiaditi per soffocare il presente, un attimo, solo per un attimo e poi scivolano via, anneriti dal susseguirsi delle stagioni e delle storie. Potessi fissare il tempo, ergermi sopra tutto, compreso me stesso, dimenticare tutto quello che so. Le giornate dispaiono invece in tiepida routine, e faccio fatica a trovarmi, tra tutti questi déjà vu. Rimembro come in guerra, su una cengia sperduta come su una piana insospettata, ci appellassimo solo al sogno e al ricordo del mondo familiare per tirare avanti, appigliandoci in qualche modo a un effluvio di calore fittizio ma condiviso, che ci rinsaldasse quel tanto che bastava per affrontare un altro scontro, un'altra giornata, un altro passo. Un giorno, doveva essere inverno, nevicava, attraversai la forcella domandandomi il senso di tutto ciò: non di certo il senso della guerra, quello no, quello era  destinato pesantemente su tutti noi, che dovevamo ancora una volta ammettere che sì, eravamo grandi artisti, ma anche grandi distruttori, non maestosi leoni bensì faine affamate e impaurite che si scorticano tra di loro, no, quel senso lasciamolo pure là, per la prossima occasione, magari la prossima guerra, no io parlavo del senso di mettere tutta la bellezza al servizio della decadenza. Non c'era nulla di poetico nel vedere il sangue zampillare sulla neve fresca, nulla di eccezionalmente scenografico nel vedere saltare in aria furgoni e persone: era solo raccapricciante. Come bestie smarrite ci lambiccavamo sui fuochi fatui che erano gli ordini, ci davano un appiglio per distogliere l'attenzione, ma la verità era là che ci attorniava, brutale. Vedevo cervi uccisi per divertimento (disperazione), mentre si costruivano altane strategiche, che forse un giorno sarebbero stati magici rifugi per innamorati, per quanto nel mio presente fossero porte socchiuse per l'inferno, da cui poteva saettare un proiettile serpentino. Vedevo la montagna della mia infanzia sconsacrata per futili motivi, tremavo al pensiero che il declivio, in altri tempi corroborante discesa, sarebbe potuto diventare fonte di una fatale caduta, vuoi per una svista, vuoi per il cedimento delle gambe, dove il buio inconsistente mi avrebbe avvolto e fatto cadere nell'oblio, sotto una coltre di nebbia oscura. La montagna, però, non era solo questo.
 
Era la cadenza sicura e impellente del proprio passo, la coscienza che si annulla tra funghi e pineti, perfino la sottile pioggerella che si abbandona su bacche e arbusti. La vetta è un obiettivo tanto quanto il passo successivo e il vero intento è il trasporto fantastico della rèverie, cullato dal respiro silvano delle cose attorno a me.
 
Tentenno su quest'ultima congettura, ma solo per qualche secondo. Sospiro e chiudo gli occhi. Li riapro, ed è tutto diverso. Afferro le prime felpe pesanti, il primo kway, la seconda cartina delle zone della mia infanzia (la prima mi si sbriciola in mano), qualche fazzoletto, e sono pronto a partire. Sembra non passare neanche un minuto tra il percorso in treno, la salita sulla navetta, lo scambio di parole con un paesano e l'arrivo sul sentiero. La giornata è perfetta, il cielo terso. Qualche languore si avvicina pervicace, ma lo scaccio mettendomi subito in marcia.
 
Fischietto per un po', poi mi sovviene la felicità nel non sentire rumori cittadini e taccio anche io. La boscaglia mi assorbe e poco a poco riesco ad ascoltare: un cinguettio, un sasso, una foglia solitaria, un fruscio involontario, perfino acqua che scorre da qualche parte forse là, dietro quella roccia. Mi sfiora il pensiero di dove possa andare una specie che sta dimenticando questi suoni, ma nel mentre sono già andato avanti e devo seguirmi. Farfalle monti rugiada e sempreverde: è sempre azzurro in questo mondo, questo bagno di vita che mi circonda, mi raggiungo solo per poi perdermi ancora, e ancora finché non sono dappertutto, tra le fronde degli alberi, i fili d'erba e gli insetti multicolori. Accelero, corro preso da una febbrile estasi, non riesco a fermarmi. All'improvviso, una fitta. Molto intensa, piuttosto centrale nel petto, dalle parti dello sterno.
 
Incredibilmente leggero, arrivo in cima. Davanti a me, solo cielo, che dispiega il suo infinito sui lembi di terra vagamente rialzati che splendono di un verde smeraldo e pallido al tempo stesso, o forse è lievemente bruno e secco,
 
forse entrambe le cose. Getto la sacca ai miei piedi, vacui come tutto il resto. Mi sento come se avessi raggiunto un traguardo che era sempre stato con me, come se avessi finito di salire la montagna più impervia e ravvisassi tutta la strada fatta. Da lontano vedo che mi chiama, accogliendomi sul punto più alto del colle, così alto che sembra fondersi con la volta celeste.
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