Catiuscia
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2007
Segnalato
Catiuscia
di Francesco Bicchieri - Lodi
Qualcosa era cambiato. Un’area che fino a pochi giorni prima era definita “tranquilla” ora non lo era più. Antonio Bagnasco, caporale del Nono reggimento alpini della Brigata Taurinense, questa novità proprio non se l’aspettava. Doveva essere una missione umanitaria, di pace, per portare la democrazia in Afghanistan, così gliel’avevano sempre presentata, invece ora un asciutto dispaccio dal comando Isaf parlava di “sostenere l’esercito e la polizia afghani nella riconquista del territorio”. Se finora nella sperduta regione di Khowst, alla frontiera con il Pakistan l’unico vero nemico fronteggiato dagli alpini era stato quello di sempre, il freddo, improvvisamente se ne profilava un altro, le imboscate, al quale non tutti però si sentivano psicologicamente preparati.
Quello che più lo inquietava era la mesta conclusione del dispaccio, che accennava a una manifesta debolezza delle forze di sicurezza locali e pertanto “i progetti di ricostruzione e di aiuto alla popolazione venivano sospesi”. E con quali altri progetti pensavano di sostituirli? Per la prima volta Antonio ebbe voglia di tornare a casa, di rivedere la famiglia, di abbracciare la fidanzata. Invece gli toccava calarsi nelle gole tra i monti afghani.
Era il 15 dicembre e il freddo inverno russo penetrava come lama nella carne. La neve caduta nella notte si era gelata. La colonna alpina stentava persino a reggersi in equilibrio, e avanzava come una processione spettrale e vacillante di passamontagna sbuffanti l’ultimo alito caldo in quella landa imbiancata dove il cielo si chiudeva sulla terra rendendo indistinto l’orizzonte quasi a dire agli italiani che sarebbero rimasti imprigionati per sempre nella steppa. Non ce la farò mai, pensò Angelo Santoro in mezzo agli altri. Era due giorni che camminava senza sosta.
I russi li avevano ripetutamente accerchiati e loro ogni volta, con la sola forza della disperazione, avevano rotto il cerchio e ripreso la marcia. Ma sempre a caro prezzo, lasciando altri compagni nella neve, trascinando i feriti agonizzanti, essi stessi in preda al delirio della febbre. Le sopracciglia incrostate di ghiaccio e le barbe congelate davano all’esercito marciante un pallore che prefigurava già la fine per assideramento.
I tedeschi impartivano ancora ordini che nessuno era ormai in grado di eseguire, dettati in una lingua che aveva terrificato l’Europa fino a pochi mesi prima ma che davanti alla disfatta imminente non incuteva ora più nessuna paura. Si sperava anzi di essere centrati da un mortaio russo e farla finita. Brandelli di divise ed elmetti squarciati in due se ne vedevano un’enormità lungo la ritirata. Il peggio è che vestivano ancora i corpi e proteggevano ancora le teste dei compagni morti sotto il bombardamento russo. Quegli arti sparpagliati raccontavano ora tutta l’assurdità dell’oratoria nelle piazze festanti gremite di folla prima della guerra, quando la propaganda chiedeva di conquistare la Russia per abbattere il comunismo e alle armate dell’Asse di sfondare a Stalingrado come già a Parigi nel Quaranta. Invece non andò per niente in quel modo.
Nella regione confinante con il Pakistan il nuovo progetto Isaf prevedeva di contrastare i talebani bonificando il territorio. Una notte misero Antonio e altri 15 alpini su un elicottero Black Hawk americano e li fecero scendere in una zona dal nome impronunciabile dove l’unica presenza umana, escluso qualche pastore nomade, era costituita da gruppi di miliziani nascosti in qualche buca. L’obbiettivo della missione era piazzare un Gltd, cioè un Ground laser target destination per dirla all’americana, insomma un apparecchio costosissimo che permetteva di tenere sotto controllo un obbiettivo fino a dieci chilometri di distanza e di guidare da terra le bombe intelligenti che sarebbero state sganciate dai Tornado un’ora dopo. Tutto scientifico, tutto calcolato, tutto pulito. Sarebbero poi tornati a riprenderli senza aver sparato un colpo.
L’importante è mantenere i nervi saldi, pensò Antonio, mentre correva a zigzag sul terreno insieme agli altri. Avanzare senza far rumore, disporsi, imbracciare l’arma, puntare, difendere l’apparecchiatura, erano lì per questo ovviamente, proteggere quel preziosissimo apparecchio. Aveva le mani fredde, era spaventato. Pensava “e se devi sparare, ne sarai capace, Antonio? Con un bersaglio fisso durante le esercitazioni è facile. Ma se trovi uno armato?”. Ebbe un’incertezza nella mente, un buco da riempire in fretta. O tu o lui, pensò. L’importante è tenere i nervi saldi, si ripeté. E con questo smise di dialogare con se stesso per concentrarsi solo sui rumori della notte afghana.
I russi attaccavano la colonna da vicino bersagliandola con una nuova arma, la Catiuscia. A dispetto del nome dolcissimo, piccola Caterina in realtà era un’arma tremenda, una specie di mortaio a molte canne, montata su un autocarro che lanciava a ogni sparo quarantotto colpi. La prima volta che la sentirono sparare non capirono cosa fosse. Si annunciò come un tuono in lontananza, Angelo come tutti gli altri in cammino alzò gli occhi al cielo, e immediatamente fu investito da una tempesta. Esplosioni, fiamme e schegge si abbatterono su di loro. Poi un gran silenzio e l’inizio dei lamenti di chi, bestia o uomo, si dibatteva nell’ultima agonia. Furono bersagliati così per tutto il giorno. Angelo si era nascosto in un cratere prodotto dalle esplosioni, e paralizzato dalla paura, stringeva il fucile disperatamente. Attorno i suoi compagni giacevano cadaveri, ma ne arrivavano altri a prendere il loro posto in un triste ricambio di morte, in cui piemontesi e calabresi, siciliani e veneti, scoprivano di essere carne da macello di un’unica razza: italiana. Erano incapaci di rispondere al fuoco o di mettersi in salvo. Sarebbero morti, ed erano più di trecento in quelle buche, distaccati dal resto dell’infinita colonna in ritirata che probabilmente affrontava la stessa sorte qualche chilometro più in là, tanto valeva arrendersi. Ma anche arrendersi era impossibile sotto quei bombardamenti.
“Mamma - urlò piangendo - quando torno a casa tutte queste cose te le voglio raccontare”. Lo disse per farsi coraggio, ma sapeva che questa volta non ne sarebbe uscito vivo.
Già albeggiava e l’elicottero americano non era ancora venuto a prenderli. Dal comando avevano comunicato alla squadra degli alpini che non c’erano problemi particolari, solo una fastidiosa perturbazione in arrivo dal Pakistan che rendeva rischioso far alzare gli elicotteri. Un contrattempo frequente in queste zone impervie dell’Afghanistan. Non restava che aspettare. I contorni delle vette attorno agli alpini prendevano intanto lineamenti sempre più precisi e netti. La temperatura era bassa e un vento gelido iniziò a sferzarli e a portare sopra le loro teste nuvole grigie che fuggivano via velocemente. Ma il cielo intanto si gonfiava sempre più e qualche goccia iniziava a scendere. “Andiamo bene - pensò Antonio -. Adesso arriva anche la pioggia”. Non se la sentiva di vivere allegramente questa avventura mentre erano, a mano a mano che schiariva, sempre più visibili e attaccabili. Un tuono improvvisamente riecheggiò tra i monti.
I proiettili passavano sopra le teste dei soldati italiani nascosti nelle buche. C’era un punto in cui una solitaria mitragliatrice russa si divertiva a bersagliarli. Finita per finita l’alpino Angelo Santoro gridò “Savoia!” e balzò in piedi. Stringeva le ultime due bombe a mano rimastegli e si mise a correre verso la mitragliatrice, incurante del fischiare dei proiettili. Quanto è vero Iddio ti ammazzo, pensò. Tirò la prima bomba, che cadde ed esplose davanti a lui muovendo una gran terra. Il guizzo verde di un proiettile tracciante lo raggiunse alla spalla. Sentì come se un ferro caldo lo avesse attraversato. Lungo tutto il braccio provò un dolore acuto, che giunse fin nella mano che stringeva l’altra bomba. Le dita allentarono la presa. La bomba cadde innocua. Antonio si inginocchiò per prenderla con l’altra mano e mentre i colpi della mitragliatrice tranciavano l’aria attorno a lui, tolse la sicura e la lanciò più lontano che poté finendo a terra sullo slancio. Passò un secondo, poi un’esplosione. La bomba aveva centrato la postazione dei mitraglieri.
Tutti quelli che riuscivano a reggersi in piedi si lanciarono al grido “Savoia!”. Erano un centinaio circa: chi col fucile, chi con il fucile preso per la canna, chi con un bastone, chi a mani vuote si gettarono sui russi. Quelli non se l’aspettavano e rimasero attoniti a guardarli caricare. Poi improvvisamente si svegliarono e girandosi si misero a correre inseguiti dagli italiani col bastone. Angelo scoppiò a ridere vedendo questo buffo inseguimento. Un alpino gli si avvicinò con uno straccio e ridendo anch’egli per quella paradossale ritirata, glielo strinse attorno al braccio che colava sangue. “Che facciamo adesso?”, gli chiese. Angelo non sapeva che rispondere ma guardò verso i russi, che si erano fermati avendo gli italiani desistito dal raggiungerli. “Fagli vedere uno straccio bianco, così capiscono. E se non ci mangiano per cena, ci rimanderanno a casa prima o poi”. Fu così che Angelo fu preso prigioniero e un anno dopo pur senza un braccio poté stringere sua madre alla stazione di Padova. “Mamma - le disse mentre piangevano sul binario - andiamo a casa. Ho da raccontarti tante cose”.
Al tuono che sentirono non seguì la pioggia, ma un’esplosione tra fiamme e schegge. Furono sbalzati via. Antonio si ritrovò seduto attonito. Non capiva cos’era successo. L’apparecchiatura era sventrata, stette per un attimo a guardarla, poi sentì del calore in corpo. Si toccò la pancia che sentiva umida. Iniziò ad urlare contorcendosi. Gli altri erano graffiati e sanguinanti ma riuscivano ancora a muoversi. Lo afferrarono tenendolo disteso. “Cosa è stato?” - disse uno di loro. “Una vecchia Catiuscia russa probabilmente. La usavano nella seconda guerra mondiale” - rispose il caporale. “Ti fa male Antonio?”, aggiunse preoccupato. Antonio era pallido, non voleva togliere la mano dalla pancia. Era umida, sempre più oleosa, appiccicosa. Sanguino, pensò
Antonio. Il nemico di sempre, il freddo era di nuovo in agguato. “Ho freddo” - sussurrò ai compagni attorno a lui. “Abbracciami mamma”. Poi restò con gli occhi spalancati immobile. Quando la madre, piangendo ne riabbracciò il corpo al rientro lui non poté raccontarle nulla.