Bettiol 28 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Bettiol 28

Tutte le edizioni > Edizione28
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Premio speciale "Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

Babak

di Chenetti Loreta
Belluno (BL)


    Il sentiero si inerpica attraverso il bosco, il tracciato attorto in spire per rendere meno gravosa la salita. Pini grigi dal grosso tronco rugoso, i cui lunghi rami sembrano scheletriche braccia di streghe che cercano di afferrarla: gli aghi graffiano la pelle, artigliano la maglietta, si infilano nella grossa treccia scura strappandole i capelli, incombono ai lati del viottolo, restringendolo fino a nascondere il sole che si intravede solo se si guarda in alto.
     La donna cammina davanti a lei, chiacchierando al vento. Nella sua voce riesce comunque a percepirne il sorriso. Chissà che sta dicendo. Non lo sa, non lo vuol sapere. Vorrebbe solo chiudersi su sé stessa, gli occhi serrati e le mani sulle orecchie, sulla bocca. Vorrebbe sparire senza lasciare ombre.
     Ormai sono già due settimane che vive a casa della donna, dopo un viaggio allucinante durato quasi un mese.
    Aveva lasciato Mariupol a seguito dei primi bombardamenti, quando il suo quartiere era stato raso al suolo. Durante i primi giorni di guerra la mamma aveva cercato di continuare con la loro vita di prima, per questo anche quella mattina l’aveva spedita a scuola con l’unica precauzione di portarsi dietro, nello zainetto, anche qualche indumento - un maglioncino, un paio di pantaloni, tre mutande e una canottiera di lana oltre ai soliti libri di scuola. Sbrigati, le aveva detto, io ti aspetto qui.
    Le sirene dell’allarme aereo avevano iniziato a suonare prima del solito e lei, assieme agli insegnati e ai compagni, aveva raggiunto velocemente il rifugio, nella metropolitana. Il frastuono degli scoppi e dei crolli, l’acre fumo degli incendi, avevano zittito anche il pianto dei bambini più piccoli, che ora tacevano, gli occhi sbarrati di paura. Tornate subito a casa, li aveva spronati ore dopo il maestro, prima che ricomincino i bombardamenti, correte a casa.
Casa.
    Si era fermata di fronte all’edificio che fino a quella mattina ospitava l’appartamento in cui viveva con la mamma. Si era seduta sulle macerie che ostruivano la strada, i marciapiedi ed aveva osservato le facciate crivellate, i vetri infranti, il fumo che usciva dalle crepe dei muri. Dallo squarcio di un’intera parete si poteva vedere, oscenamente esposta, la camera da letto della signora Tkachenko, il copriletto color bronzo coperto di frammenti di cemento, l’armadio sventrato. Il quarto piano non c’era più. Solo qualche spezzone di muro, all’angolo, annerito dal fuoco. Intorno a lei gridavano, piangevano, correvano frenetici. Qualcuno affiancava sul marciapiedi lunghi sacchi di plastica neri.
     Nelle sue orecchie, nei suoi occhi, nella sua mente era calato il silenzio.
Dei giorni successivi ricorda solo una gran confusione. Mani che la spingevano, la tiravano, la portavano. Voci che le parlavano, sovrapponendosi, ma che parevano mute. Strade percorse a piedi, da sola o assieme ad altri che si perdevano man mano nella nebbia. Chilometri in auto, in pullman, in treno. E poi ancora in auto, ancora in pullman. Visi che si accavallavano l’uno sull’altro, indistinguibili, bocche che parlavano con lingue che non erano più la sua.
     Nulla sembrava scuoterla. Apatica, muta, passiva si lasciava condurre lontano.
Ricorda le notti. Notti passate dapprima al freddo sotto il cielo livido e la neve o acciambellata accanto ad altri corpi, i pianti dei vecchi e dei bambini come ninna nanna. O sui sedili delle auto, accanto al binario di un treno, in una camerata con decine di altri. Alla fine, l’avevano portata dalla donna, dove era stata accolta con un abbraccio ed un sorriso. Lì aveva trovato un letto con lenzuola pulite, gli asciugamani che profumavano di fiori, la tavola con cibo caldo e le chiacchiere incomprensibili della donna che parlava, parlava… forse per riempire il silenzio che lei si portava dentro. Le indicava gli oggetti con parole straniere, le leggeva da libri di bimbi, poche frasi scritte con grandi lettere, pagine di disegni colorati, le cantava canzoni allegre, che avrebbero dovuto farle venir voglia di ballare.
     Nataliya guardava con occhi spenti, le labbra mute e si muoveva come se nuotasse sott’acqua, dove il rumore era solo il ricordo e la realtà era oltre quello che lei poteva e voleva vedere.
Quella mattina l’aveva svegliata porgendole dei vestiti nuovi da farle indossare. Un paio di pantaloncini neri elasticizzati, una maglietta, una leggera giacca a vento, gli scarponcini e lo zainetto. L’aveva aiutata a vestirsi, a far colazione e poi erano salite in auto. Dopo un’ora la donna aveva posteggiato in uno spiazzo all’imbocco di un sentiero che si incuneava tra gli alberi e, dopo averle indicato la cima di un monte, lassù, oltre le vette, vicino alle nuvole, si era incamminata lungo la mulattiera. Dolomiti, aveva detto. Dolomiti.
     Aveva alzato lo sguardo e si era sentita oppressa da quell’enormità che la sovrastava.
     I piedi, meglio guardarsi i piedi.
     Le fa paura questo bosco cupo. Le lame di sole, quando riescono a farsi strada tra i rami grevi di pigne, si squarciano nel sottobosco come spade di fuoco ma basta un refolo di vento, un baffo di nuvola e la luce scompare.
     Intorno a lei gli alberi parlano. Gemono, scricchiolano, fremono. Vivi.
Si sente osservata e non riesce a guardare. Incassa la testa nelle spalle e continua a salire. Le pietre sotto le suole sgusciano via facendola incespicare. Il sentiero è sconnesso, quand’era partita era più ampio e presentava i segni del passaggio di ruote, forse carretti, forse trattori ma ora si è ristretto e sale, impervio, facendola respirare brevi bocconi d’aria che non bastano a placare la sua sete d’ossigeno.
     Con la coda dell’occhio cattura il guizzo di uno scoiattolo o un uccello su uno dei rami più alti di una pianta che le sbarra il cammino. Scavalca le radici contorte, inciampa cadendo a terra. Le sue mani, le ginocchia si sporcano di rosso. Di primo acchito pensa di essersi ferita. È sangue, è sangue. La sua mente ritorna veloce a Mariupol, tra la polvere e i calcinacci, i missili e le sirene dell’allarme. Rivede la sua casa che non c’è più ed un fiotto di acido le sale alla gola. Istintivamente porta le dita alla bocca e le succhia scoprendo che no! non è sangue ma il succo delle fragoline di bosco che ha appena schiacciato. Assapora il contrasto creato dell’aspra dolcezza dei frutti che ricordano incongruamente il Borsch che le preparava la mamma, la zuppa di barbabietole e carne di maiale condita da un generoso cucchiaio di panna acida.
     Tra il muschio fanno capolino dei funghi gialli, carnosi, a trombetta. Aspira il profumo terroso del bosco, l’odore pungente della resina e quello aromatico degli aghi di pino. Si pulisce le mani su muschio soffice, le passa sulle rughe profonde di un tronco. La corteccia le graffia leggermente i polpastrelli, come la ruvida carezza di un nonno. D’istinto abbraccia l’albero, schiacciandoci contro la guancia, quasi aggrappandosi per non cadere. Il respiro si fa strada nel petto, il nodo in gola si scioglie.
      La voce della donna, già avanti, la riscuote. Corre per raggiungerla. Non vuole restare da sola.
     Il sudore le fa bruciare gli occhi, le cinghie dello zainetto le sega le spalle, i polpacci e i polmoni bruciano in cerca di ossigeno.
      Questa è una terra faticosa, pensa, chiusa e magica. È il luogo dove possono vivere le streghe come quelle che secondo le leggende ucraine si radunano per i sabba sul Lysa Hora, pensa. È diversa dalla pianura del mio paese dove lo sguardo può allungarsi fino a perdersi all’orizzonte a chilometri di distanza. Questo è un posto dove tutto è salita, dove non c’è spazio per far crescere il grano o i girasoli, dove puoi solo guardare dove mettere i piedi e non puoi permetterti di alzare lo sguardo per non inciampare e cadere.
      Cammina Nataliya, con lo sguardo a terra, il cuore stretto, i pugni chiusi e le parole mute.
La donna chiacchiera mentre sale, la schiena ingobbita, sembra che abbia fiato in eccesso. Ride talvolta, da sola, per chissà quale sciocchezza. Ogni tanto si gira, la guarda, sorride e la sprona indicandole qualcosa lassù in alto e ripete, Dolomiti! Dolomiti!
    Anche Nataliya osserva in alto e guarda le guglie dei monti che artigliano il cielo. Il granito si eleva oltre il verde, possente, imponente, prepotente. Si sente impaurita e piccola in confronto ai giganti di roccia che la circondano, una minuscola ed effimera nullità che non conta nulla, che non ha né un domani né storia. Dentro di lei sente il peso di un vuoto che neanche tutte le montagne del mondo potrebbero riempire. Gli occhi, azzurri come questo cielo montano, si riempiono di lacrime. La gola si richiude in una morsa dolorosa.
     Un fischio acuto la scuote.
     Si ferma, sbatte le palpebre più volte per sciogliere le lacrime che le increspano le ciglia e mette a fuoco il mondo. Alza la testa scoprendo che il bosco si è stancato di assediarla ed è scomparso lasciando spazio a erti prati con erba bassa e gialla, punteggiati da massi granitici coperti da ampie macchie di licheni. Il cielo è immenso sopra di lei, steso come una coperta azzurra che copre il mondo che le si è allargato intorno. Le pare di avere la Terra ai suoi piedi, di poter toccare le nuvole, di aver raggiunto il punto più alto del pianeta, in cima alla montagna.
Respira adesso a pieni polmoni e si rende conto che le tensioni, le paure, il dolore non le stanno più dilaniando il cuore come prima, ma si sono fatti un po' più sordi, un po' più lontani, come se ad ogni passo, ad ogni salita, li avesse lasciati cadere un po' alla volta, come le briciole di pane di Hansel e Grethel, la storia che le raccontava la mamma la sera prima di mettersi a dormire e che da donna le aveva letto nei giorni precedenti, sfogliando un libro di racconti sgualcito.
     Si guarda attorno confusa mentre il fischio si ripete, parte da un punto posto a monte del sentiero. Un altro gli fa eco, più distante. Ed un terzo più su, ma non vede nessuno.
     Nataliya guarda la donna che ride con gli occhi mentre con un dito davanti la bocca le fa cenno di non far rumore. Piano la donna le indica qualcosa tra i sassi, a destra del sentiero e poi un po' più avanti dove il versante fa una piccola gobba. Stringe gli occhi per mettere a fuoco e poi li spalanca meravigliata. In cima ad un sasso c’è un animale grassoccio e sgraziato che sta ritto con gli arti anteriori stretti al petto, come se pregasse. Ha una folta pelliccia marroncina, due incisivi sporgenti che lo identificano come roditore e la pancia grossa e grassa. E fischia. Buffo.
     La donna le fa cenno di guardare più in alto e Nataliya ne vede diversi che, frettolosamente, corrono a rintanarsi in grosse buche scavate nel terreno.
     Marmotte, dice la donna sottovoce, sorridendo.
     Sorride anche Nataliya e cerca nella memoria il nome di quel roditore, di cui aveva letto a scuola, babak.
     Babak, dice anche lei sottovoce, anche lei sorridendo ed è la prima parola che le sue labbra lasciano uscire da giorni.
     Babak.
La donna la guarda e, seppure felice, pare stia per piangere. Torna indietro lungo il sentiero. Si accoccola vicino alla bimba, le prende le mani, la guarda negli occhi.
Marmotta, dice, babak.
Marmotta, risponde Nataliya, babak.

Torna ai contenuti