Alzo gli occhi verso i monti
Tutte le edizioni > Edizione15
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Terzo classificato
Alzo gli occhi verso i monti
di Laura Gatti Casati - Voghera (PV)
Torno tra questi monti dopo tanto. I miei monti. Amati monti, un tempo. Poi odiati, per anni. Ed ora, quasi dimenticati. Non del tutto, purtroppo. La strada dell’oblio non ha funzionato. Per questo sono di nuovo qui, ho deciso di affrontare i miei fantasmi ancora una volta. Sono stanco di fuggire.
Cammino a passo regolare su questo sentiero che mi era una volta ben noto, in silenzio attraverso il bosco, poi incontrerò i prati, e poi le rocce. Sale dal terreno umido un odore misto di corteccia bagnata, di muschio e di funghi. Mi ci inebriavo, da bambino. E adesso, mio malgrado, l’aria fresca del mattino mi fa nuovamente stare bene.
Sorrido, se penso che portavo qui i bambini dell’oratorio ed organizzavo per loro le più belle cacce al tesoro di cui fossi capace. Un sorriso amaro.
Verretto, la mia prima parrocchia. Non ero parroco, ancora, solo un giovane curato da poco uscito dal seminario. Ricolmo di vita, di poesia, e grandi ideali. E, ovviamente, delle parole della Bibbia.
Nemmeno il vecchio Fotini riusciva a smorzare il mio entusiasmo. Ero convinto che, in fondo, e malgrado le apparenze, anche lui condividesse il mio ottimismo. Ovviamente, ho avuto modo di ricredermi. Fotini parlava seriamente, ed io non l’ho mai saputo capire. Se ne è andato prima che potessi dargli ragione. D’altra parte, non credo gli importasse poi tanto che la gente gli desse ragione. Lui se ne stava là, alla terrazza della sua baita, a guardare i monti col suo vecchio cappello di alpino tra le mani. E quando lo andavo a trovare, per scambiare due parole, mi guardava con tenerezza, e un pizzico di compassione, forse. Come se fossi un lattante ancora ignaro delle cose della vita. Mi piaceva parlare con lui. Avevamo pensieri opposti, ma non mi sentivo mai giudicato.
Amava la montagna, Fotini, come me, ma in modo diverso. Io vi andavo cercando la presenza di Dio, e in ogni sussulto della natura trovavo segni del Suo amore per noi. Fotini vi andava cercando una sua pace laica, e francamente non so se l’abbia mai trovata.
Quando lo conobbi era già anziano, e già aveva gli occhi di chi troppo aveva vissuto, di chi troppo aveva visto. Doveva essere stato un tipo in gamba, a suo tempo. Di quelli che il Monte Pietra lo scalavano in poco più di due ore, quando a gente ben allenata ce ne vogliono almeno quattro. Ma non mi ha mai parlato delle sue scalate, né delle sue vicende in guerra. Potevo solo intuire dai suoi occhi, quello che aveva vissuto. Ed ora so che intuivo troppo poco.
La mia pelle si sta piano scaldando al sole che ancora debole filtra tra i rami degli alberi. Il bosco si va diradando. Il sentiero raggiunge i prati, e lì, bruscamente, si aprono i monti alla visuale. Un cerchio di monti che conosco per nome. La Cima Battisti, il Monte Pietra, la Punta Corona, il Gruppo del Sasso Nero. E infine, di fronte a me, alto e tozzo e possente come un gigante addormentato, si staglia il mio monte, il Monte Cheto.
Su questi prati ci portavo i miei ragazzi a giocare a pallone. Le loro grida e le loro risate non sapevano scalfire il silenzio della montagna, anzi, erano tutt’uno con esso, erano semplici esplosioni di gioia, che salivano al cielo come una preghiera. La preghiera fresca e spontanea di una quindicina di adolescenti.
Taglio dritto tra i prati verso il primo ghiaione del Monte Cheto. A metà strada, ritrovo il grosso sasso rettangolare che adibivo ad altare, per dire messa coi miei ragazzi. E’ qui che ho insegnato loro per la prima volta ad ascoltare la voce di Dio che si rivela in un soffio di brezza leggera. Qui li ho invitati ad alzare lo sguardo, rassicurandoli che Dio sarebbe sempre stato con loro. Il Salmo 121 recita: “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, egli ha fatto cielo e terra”.
Purtroppo, a me nessun aiuto è venuto. Nessun aiuto dai monti, nessun aiuto dal Signore.
Non avrei dovuto illudere quei ragazzi. Forse avrei dovuto insegnare loro ciò che Fotini ripeteva. Ma d’altronde, ero io il primo ad illudermi. Ho capito troppo tardi, e a mie spese, il senso delle sue parole.
Non mi guardava, Fotini, parlava come a se stesso. Era quasi un sussurro, che veniva da molto lontano. <<La montagna è come la guerra. E’ una realtà dove Dio non interviene>>.
Io seguivo il suo sguardo percorrere le pareti del Monte Pietra, del Sasso Nero. Pareti bucherellate di trincee. Ed immaginavo cosa vi potesse vedere il vecchio Fotini. Sotto i suoi occhi, le trincee tornavano ad essere abitate da soldati, e contro le pareti nude dei monti riecheggiavano nelle sue orecchie gli spari, e i fischi delle bombe a mano. Seguivo il suo sguardo e prendevano forma dentro di me i colori, le voci, gli odori della guerra. Mi era facile capire il pensiero del vecchio alpino. Come poteva anche solo intuire la presenza di Dio, tra quegli orrori?
Ma la montagna era tutt’altra cosa. In montagna, mi bastava restare in silenzio per sentire il respiro di Dio avvolgere ogni cosa. La Sua pace si stendeva sui prati e tra i boschi, la Sua potenza abitava la roccia, e la Sua gloria risplendeva nel cielo.
Non trovo più pace, adesso, né potenza, né gloria. Il cielo è distante, e la roccia, che ho infine raggiunto, è fredda e asciutta. Tremano le mie mani mentre mi aiuto a salire. Il sentiero lo conosco ancora. Se chiudo gli occhi, posso procedere quasi senza esitazione. Ci si inerpica per il ghiaione, dapprima, poi si costeggia la parete tagliandola in orizzontale, e si riprende l’ascesa tra facili roccette.
Cento e cento volte sono salito sul Monte Cheto. L’ultima volta, il 10 settembre di trentacinque anni fa.
Strano, come qui il tempo sembra non essere passato. La montagna è rimasta la stessa, immobile, uguale. Il sole è caldo come lo era allora, alto nel cielo senza nubi, quasi rassicurante.
Mi sento destabilizzato. Non avrei pensato di ritrovare tutto così. In realtà, non so che cosa mi aspettassi di trovare. Forse, di vedere la roccia macchiata di rosso. O il sole oscurato. O che dalla vallata riecheggiasse incessante un grido di sgomento.
Avevo dimenticato quanto questo luogo fosse così spietatamente bello.
Fabio Mirani, caduto.
Questo il punto. Non scivoloso, non difficile, a due passi dalla cima. Quel che è successo, non lo ricordo esattamente. Inciampato, mi hanno detto. Dove, come, non l’ho visto. Ho avuto solo il tempo di voltarmi per vedere i suoi 16 anni spezzati sparpagliarsi al vento. E poi, gli sguardi atterriti degli altri ragazzi, e dopo quel grido, un silenzio assordante.
Non ho celebrato io il funerale. Non avrei saputo cosa dire ai genitori, ai famigliari, agli amici, e alla gente tutta della parrocchia di Verretto. Non avrei potuto raccontare la storia di un progetto di Dio che non capivo più io stesso, e in cui da allora ho smesso di credere. Forse, avrei dovuto riconoscere di fronte a loro tutta la mia colpevolezza, la mia imprudenza, la mia smisurata fiducia che nulla avrebbe potuto succederci, perché il Signore vegliava su di noi. Invece è successo. Forse avrei dovuto dire loro semplicemente: “la montagna, come la guerra, è una realtà in cui Dio non interviene”.
Fotini avrebbe dovuto dirmelo. Certo lo sapevo, che “in montagna la gente muore”. Ma “la gente” non è un ragazzo di 16 anni che si chiama Fabio Mirani, frequenta la terza superiore istituto tecnico, gioca a pallone, suona la batteria e sogna un giorno di potersi lanciare con il paracadute.
Ora lo so, cosa vedeva Fotini quando guardava la montagna. Ho scoperto che in paese non era un segreto. Chissà perché, io non avevo mai chiesto. Ho saputo troppo tardi, di lui, della valanga, del suo amico travolto.
Fotini avrebbe dovuto dirmelo, che la gente che muore in montagna ha un nome e un volto. Non ci avevo mai davvero pensato, e alla luce di questa seppure elementare rivelazione, non riesco a capacitarmi di come queste morti possano in qualche modo avere un senso.
Ora, qui dove il sentiero si allarga di poco, hanno messo una croce di legno scuro. Mi fa male rivedere la foto, di Fabio com’era allora, capelli scuri e ricci, sorridente, scanzonato. La mia coscienza è macchiata della sua scomparsa. E mi fa rabbia, che dopo una tale tragedia il Monte Cheto abbia avuto il coraggio di restare un luogo poetico e meraviglioso, all’apparenza incontaminato. La roccia, grigia e chiara come allora, ha il sapore dell’indifferenza.
Dietro la croce, decine di dediche tappezzano la cappelletta, e tra esse, una cattura il mio sguardo. Mi basta vedere poche firme per capire chi abbia inciso quelle parole. Non vorrei leggere, ma non posso farne a meno. Leggo prima di potermi difendere. Le parole entrano nella mia mente prima che io le possa fermare.
“Signore delle Cime, eravamo con Fabio quando l’hai chiamato a Te. Non ci hai lasciato il tempo per dirgli addio. Le Tue vie non sono le nostre vie. I Tuoi pensieri sovrastano i nostri così tanto, che le Tue ragioni ci sfuggono. Ma alzando gli occhi verso i monti, Signore, troviamo in Te conforto. Tra queste meraviglie del creato, opera delle Tue dita, il nostro amico riposa. Dal cuore Ti chiediamo: donagli la pace eterna, nel Tuo amore infinito. Gli amici di Fabio.”
Il mio respiro d’un tratto si è fermato. Nessuna firma manca all’appello. Mentre la mia fede vacillava, i miei ragazzi non hanno dubitato, Signore, della saggezza del Tuo operato. Ed “alzano gli occhi ai monti, per trovare in Te conforto”.
Mi chiedo se, forse, il segreto non stia proprio qui…
Anche Isaia scriveva nel suo libro: “Gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il Suo popolo”.
A me non riesce di gridare di gioia. Sono così triste, da tanti anni ormai.
Ma è così bella la vallata vista da quassù. La montagna mi circonda di silenzio e di pace. Avevo dimenticato quanto potesse innalzare lo spirito, ritrovarsi così, semplicemente vicini al cielo.
Nuovamente osservo la preghiera dei miei ragazzi. Rimane uno spazio vuoto tra i loro nomi. Con mano tremante, in quello spazio incido la mia firma.
Sulla pelle, solo un soffio di vento.
Signore, se puoi, consolami.